Amor – Eva Clesis

Titolo: Amor
Data di pubbl.: 2018
Genere: Romanzo, Romanzo drammatico, romanzo; thriller; psico-thriller
Pagine: 144
Prezzo: 15 euro

Dopo che un incidente le ha irrimediabilmente stravolto il corpo, si è creata un luogo riparato, Lucia, la protagonista di Amor (Miraggi) per tradurre, scrivere, porsi in qualche modo in salvo.

È nel suo “monolocale monoloculo” che mette in atto ripetuti riti personali di autocontrollo a mantenersi salda, in una resistenza in solitudine. Si piega a routine quotidiane vincolanti, impegnative, prive di senso apparente ma pacificanti

 

Cerchi qualcosa che non quadra e se ti ci impegni la trovi pure.

[…] una macchia è sfuggita alle pulizie giornaliere e me ne accorgo soltanto adesso. Stringo gli occhi a fissarla. Mi mette ansia constatare che esiste, che è là come io sono qua, che non sto facendo ancora niente per rimuoverla. Poso la busta e comincio a rimproverarmi perché se c’è sporcizia in casa vuol dire che sto peggiorando, senza ricordarmi che faccio lo stesso pensiero ogni volta. Abbasso gli occhi fino a terra.

Le pulizie giornaliere da qualche tempo includono la detersione dei pavimenti con un prodotto che sgrassa senza rovinare le piastrelle, ma le lucida, e secondo l’etichetta tiene lontani gli inseti che strisciano. Ho ancora la borsa e una brutta sensazione addosso.

Della sensazione potrei sbarazzarmene all’istante uscendo a buttare il cartone, le bottiglie e la cipolla in scatola per poi rientrare e passare sulla macchia di caffè una spugnetta umida con una goccia di detersivo per i piatti. Anche il detersivo per i piatti sgrassa e lucida. È al limone.

Ma il fatto è che non voglio uscire e incontrare il portiere un’altra volta, preferirei aspettare il momento in cui staccherà per il pranzo, tra mezz’ora. Dal piano in cui abito, il primo, lo sento ancora ciarlare con la dog-sitter della scala B, come quando li ho incontrati. Mi scuoto, butto la borsa sul divano e prendo la spugnetta, ci metto un minuto a pulire i fornelli.

Passerò i restanti ventinove dietro la porta, con la busta di spazzatura in mano e le orecchie tese a captare il segnale di via libera, lui che chiude il gabbiotto a chiave e scende nel suo appartamento al sottoscala.

È in quel momento, mentre sta a fare la lady Macbeth con una busta in mano, in una personale guerra di equilibrismi a evitare i batteri portatori di sporcizia e ingerenza dal mondo esterno, che le squilla il telefono di casa.

Dall’altra parte del cavo arriva la voce di un uomo che – sbagliando numero – crede di parlare con un vecchio amore ormai perduto.  Sorprendendo dapprima sé stessa, la donna asseconda l’equivoco e si offre allo scambio dialettico con lo sconosciuto, accogliendone confidenze e di converso aprendosi a una confessione che passa attraverso la carne, i tradimenti del proprio corpo:

«Ho avuto un incidente con la macchina, roba di undici mesi fa… Un’auto mi ha buttato fuori strada».

«Cristo santo», risponde la voce.

«Eh, già».

«E cosa ti sei fatta?»

«Tutto».

«Cosa? Non dire così».

«Così come?»

«Tutto».

«Zoppico un po’, ho una gamba malconcia».

«Ma… sei sempre bella?»

Uomini! Guardo la gamba che penzola, immaginandomi per un attimo seduta a bordo di una piscina mentre gioco con l’acqua, me lo suggerisce la posizione. Non avrei mai pensato

che le cicatrici potessero essere questo, uno strappo. Le cicatrici sono incurabili, sono il punto di rottura, una lacerazione definitiva. Guariscono le ossa, a spezzarle, si ricostruiscono i legamenti lesi, i tendini, i muscoli. Le cicatrici no. Sono la morte viva. Sono sulla pelle e nella carne, e si mangiano l’altra tua carne. In ospedale ho conosciuto persone le cui cicatrici aderivano alle ossa come sanguisughe. Ho visto gente sfigurata da cicatrici che deturpano, tirano, si estendono, si intrecciano in nodi di marinaio. Sono dure, rigide, aggrovigliate e dolenti, mostri che strillano come neonati.

Prima che qualcosa di male ci accada, pensiamo di non doverci fidare delle persone, mentre nessuno ci dice mai niente dei nostri corpi. È il nostro corpo a non meritare fiducia, è fatto per tradirci, cambiare, abbruttirsi. A un corpo possono accadere cose orribili, cose a cui è meglio non pensare. […] Ma non mi preme informare lo sconosciuto del mio aspetto, non voglio infrangere i suoi sogni o avvertirlo che, se la mente è insidiosa, è il corpo il nostro peggior nemico. Voglio solo chiacchierare e mangiare.

 

Ingannata dal suo stesso corpo, la donna riconosce di aver subito poi altri tradimenti: quelli di editori di dubbia moralità pronti a sfruttarne talento e debolezze, degli uomini che le hanno vissuto attorno, rei di impunibili falle nell’empatia, protagonisti di melodrammatiche assenze nei momenti di bisogno che l’hanno lasciata infragilita nonostante gli strumenti che riconosce di possedere, “una scrittrice, per giunta,  […] un’intellettuale” tragicamente pronta però a offrirsi  cieca, in nome di rapporti che dell’Amor del titolo hanno solo l’apparenza (Amor che letta al contrario si fa Roma, città amata e feroce, scenografia perfetta della vicenda).

Se vuole che il gioco telefonico non abbia fine, se vuole compagnia e un temporaneo ascolto deve prestare attenzione e assecondare la finzione, Lucia, mescolandola con difficoltà a dettagli credibili (ogni tanto metterci la verità, ripete):  se vuole prendere questa occasione di riaprire e sezionare dolori e tirare somme più prossime a sottrazioni, deve rispondere a tono come fosse davvero lei l’amante perduta di quell’uomo la cui voce la incalza, sforzandosi di mantenere l’ennesimo equilibrio su un filo sottile, come quando esce di casa e cammina zoppicando, la gamba offesa dall’incidente.

Un’operazione che si rivelerà però pericolosa: perché chi le sta parlando le svela di sé un lato più che oscuro, criminale. E il gioco prenderà una piega amara e rischiosa, in un giro di trama nero che porterà a un finale inatteso.

 

Anche in questo suo ottavo romanzo, la giovane scrittrice barese che si ripara sotto lo pseudonimo di Eva Clesis si conferma una delle voci più personali del panorama letterario italiano degli ultimi anni.

La scelta non facile di comprimere lo sviluppo della trama nell’arco di poche ore – come nel precedente, bello, Finchè notte non ci separi – dona forza, ritmo e cadenza riconoscibile come personale alla sua scrittura, che si apre stavolta maggiormente all’introspezione, allo scavo dei caratteri senza inciampi fra l’azione e il sentito.

Pure in Amor, romanzo che sfugge a un comodo incasellamento in un genere specifico, Clesis eccelle nella manutenzione dei dialoghi, secchi, trattenuti, opportunamente spietati: essenziali e funzionali a una trama originale e ben tenuta fino al suo sviluppo drammatico e aperto, a redimere (a modo suo), annullare destini individuali accampati sul vuoto.

 

 

Anna Vallerugo

 

 

 

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