A tu per tu con…Mauro Covacich

mauro covacichMauro Covacich è stato uno dei cinque finalisti del Premio Strega 2015  classificandosi secondo e compare anche nella terna dei finalisti del Premio Chiara. Il suo libro di racconti è sorprendente per la costruzione narrativa e per gli echi e i rimandi esterni ed interni che la sua lettura produce, nel tentativo (riuscito a nostro parere) di allontanarsi dallo storytelling in voga. Lo abbiamo intervistato al Salone di Torino e ci ha regalato una piacevole chiacchierata tra autobiografia e fiction, alle radici della nascita di un testo letterario profondo e meditato.

Ci racconti la genesi di questo libro, che sembra essere anche una sintesi dei temi da lei trattati negli ultimi anni.

Il libro è nato attorno ad un nucleo di racconti preesistenti, uniti da sentimento di mancata compiutezza delle vite che circondano la mia, in cui mi ritrovo appieno.  Intorno a questo sentimento ho cominciato a costruire altri racconti in modo graduale e occasionale: molti sono frutto di esperienze personali in cui mi sono imbattuto in un modo o nell’altro e che sono state unificate nel libro attraverso una tessitura di passaggi: personaggi secondari in un racconto che diventano protagonisti in un altro, ad esempio, oppure vi è in comune l’ambientazione. Desideravo che questo libro diventasse un romanzo a episodi oppure, da un altro punto di vista, racconti incatenati uno nell’altro in modo da dar vita ad un romanzo destrutturato. E’ stato un lavoro sulla forma e la struttura, quella è stata la suggestione da cui sono partito: un flusso di pensieri, dove autobiografia, cronaca e invenzione pura si mescolano tutti insieme dando vita al monologo interiore.

I suoi racconti sono corredati da sottotitoli che ne indicano una sorta di tema di fondo e li raggruppano in modo differente rispetto alla sequenza di pubblicazione. Il suo intento era quello di portare il lettore a scegliere dei percorsi personali all’interno del testo?

Sì, dopo aver costruito una tessitura ho voluto offrire la possibilità di accessi diversi: questi racconti si succedono con una specie di trama, ma si può iniziare la lettura da uno qualsiasi di essi, in quanto non c’è una fabula lineare. Ci sono nessi che permettono  di scegliere,  di modificare la mia lettura, che ha comunque un suo senso. Ho dato la libertà al lettore di costruire una sua linea, in quanto non li ho messi in sezioni separate.

C’è un racconto in particolare che ha dato origine a questa esperienza narrativa e a cui è particolarmente legato?

Se non mi fossi imbattuto nell’incidente di Pippa Bacca  non avrei mai scritto questo libro e non a caso ne è il viatico. E’ il racconto che rappresenta davvero in modo emblematico il sentimento di cui parlavo prima, l’incompiutezza. E’ lo slancio verso l’assoluto che si infrange in modo tragico. Volevo fare un libro su questa “temperatura”, che mi permettesse di saltare di palo in frasca.

In aggiunta a questo c’è un mio personale discorso sulla fine della fiction romanzesca: faccio fatica ad la sposaimmaginare ancora la scrittura narrativa in questa forma, in quanto la letteratura ne è stata espropriata dalle fiction televisive e dalle soap opera. Assistiamo alla finzionalizzazione di tutto: l’inchiesta è narrata come un romanzo, così come la scienza e molto altro. La letteratura a questo punto si deve ricavare dei luoghi dove la riflessione sulla forma e la struttura diventano preponderanti.

A questo proposito lei introduce nel libro modalità narrative differenti, “giocando” per così dire con le voci narranti.  

Mi sento a mio agio in questa commistione di materiali autobiografici e di finzioni, mostrando come sono arrivato a scrivere il racconto: la storia e la vita che gira attorno alla storia diventano due elementi integranti che metto in scrittura. Faccio in modo che il narratore stia sempre sul palcoscenico e che il lettore lo veda come un moderno cantastorie: anche quando racconta vicende in cui non è coinvolto si ha l’impressione di sentire la sua voce. Per me è fondamentale che il mio me stesso sia in scena.

In alcuni racconti ha anche assunto punti di vista davvero estremi ed originali…

Maternità e paternità sono le forme che riverberano in modo particolarmente efficace quel sentimento malinconico di incompiutezza che volevo descrivere e di cui la sterilità rappresenta la forma sociale. Io appartengo a quella categoria piuttosto ampia di individui che per un bel pezzo di strada ritenevano impossibile fare figli e quando la parabola della loro vita ha cominciato a piegare si sono resi conto che forse si erano persi una parte del film. In questa mancata realizzazione io però ci sto bene,  questo sentimento malinconico appartiene a me. E’ una condizione che sento molto forte, così ne ho fatto una variazione continua sul tema: per esempio per “La ruota degli esposti” io ho incontrato per caso un primario d’ospedale che mi ha fato vedere tutti i neonati che non hanno madre. Mi piace poi spingermi, da un punto di vista narrativo,  in un punto dove non potrei stare e dove non sono mai stato, così mi sono messo nel corpo della madre che ha rifiutato il figlio. Per certe femministe può essere illecito:  immagino di avere utero e vagina. La battaglia in quel racconto l’ho combattuta continuando a mantenere la desinenza maschile pur dicendo che ero una donna: volevo che si sentisse nella sfumatura che era un esperimento mentale e non un’appropriazione indebita. Io credo alla differenza sessuale: arrivi fino ad un certo punto nell’immedesimazione poi devi recedere.

Cortazar diceva che nel romanzo lo scrittore contro il lettore vince ai punti, nel racconto deve vincere per knock-out. Lei cosa ne pensa?

E’ un bellissima immagine: il racconto è la forma di scrittura in prosa più vicina alla poesia e ha della poesia la condensazione metaforica, icastica. Come nell’agricoltura intensiva il metro quadro di terreno è più carico, così nella poesia lo è la pagina. Il racconto inoltre è legato di più all’intuizione, alla folgorazione da cui sei partito e ha un’ intensità che si brucia nel momento stesso in cui lo scrivi. Per questo ha anche un certo incanto. Nell’introduzione di un’altra raccolta,  “Anomalie”, ho descritto il racconto come un tuffo, una caduta inesorabile, un tratto brevissimo formalizzato in un gesto.

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Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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