A tu per tu con… Massimo Cacciapuoti

*fonte: Libriblog

Una bella telefonata mi ha coinvolta stamattina… Massimo Cacciapuoti, autore di “Non molto lontano da qui”.

Qual è il carico autobiografico che grava sul tuo nuovo romanzo Non molto lontano da qui? Mi era sembrato che già con Esco presto la mattina gli echi di vicissitudini personali fossero forti e non celati; cosa è cambiato nel rapporto letterario col tuo vissuto personale?

Bello “carico autobiografico”. Rende molto l’idea. Il fardello di Kunderiana memoria. Grava molto, anzi moltissimo. E se in Esco presto la mattina c’erano dati contingenti, fatti reali, materiali, in Non molto lontano  da qui, c’è qualcosa di più profondo. Non fatti, o meglio, non tanto fatti, quanto l’intima sostanza dell’essere. Oltre al  mio passato da discotecaro, il rapporto conflittuale con l’università, con i miei, le mie storie d’amore,e via dicendo.

Parliamo del rapporto col padre. Il padre di Non molto lontano da qui mi appare, sotto molteplici aspetti, differente da quello di Pater Familias, eppure c’è sempre un’assenza di fondo che genera incomprensioni, sensi di colpa, legami morbosi. Dove nasce il tuo interesse per il problema del padre? Ci sono autori che ti aiutano nel tuo studio sul padre? Sei giunto a qualche conclusione tua personale?

Vero, sono molto differenti. In Pater Familias c’era una sorta di padre padrone, in una società tutto sommato  matriarcale o madrecentrica. Un padre negativo che segnava la vita dei propri figli. In Non molto lontano da qui, la figura paterna è tutto sommato positiva. I suoi punti nevralgici sono la debolezza, o meglio la mancanza di autorità, e l’incapacità di dimostrare l’amore. Di vivere l’esperienza dell’amore fino in fondo. L’interesse per la figura paterna nasce probabilmente da un mio irrisolto conflitto d’amore con mio padre. Mentre per l’aspetto letterario Kafka è stato determinante. Non solo la straordinaria e leggendaria Lettera al Padre, ma anche La metamorfosi, col grande simbolismo che caratterizza quell’opera..

A pagina 29 di Non molto lontano da qui troviamo la lista dei libri che Giacomo legge grazie a Francesco, un personaggio un po’ misterioso ed emblematico; sembra quasi l’angelo custode che nei momenti di incertezza ti reindirizza leggermente per farti deviare lievemente rotta, non tanto, ma quanto basta per ribaltare i destini futuri. Chi è esattamente Francesco? L’alter ego di Giacomo, dotato però di una visione sugli eventi futuri e quindi tristemente consapevole, come appare verso la fine della vicenda, o rappresenta, nel romanzo, un altro modello di attitudine alla vita e alla felicità, complementare a quello di Giacomo?

Direi entrambi. Francesco è l’altra parte di me, quello che avrei voluto essere e non sono mai stato, come dico nel romanzo. E rappresenta un altro modo di vivere, una via diversa e completamentare verso la ricerca della chimera-felicità.

I libri citati, sono i tuoi libri?

Assolutamente sì. Ovviamente con qualche aggiunta. Non si poteva citarli tutti. Ma quelli sono fondamentali.

Che senso hanno, o hanno avuto, i libri e la letteratura per te?

La scoperta della letteratura è stato il momento deflagrante della mia vita. Un giorno, per punizione, un prof delle superiori mi costrinse a leggere tutto I promessi sposi, una bellissima edizione curata da Natalino Sapegno. Da quel giorno non ho smesso più di innamorarmi dei libri.

Dietro le vicende che racconti, c’è di fondo un problema generazionale?

Io credo di sì. È il motivo per cui ho scritto gli ultimi due romanzi. Per dirla con Freud, una nevrosi, una forma di coazione a ripetere generazionale.

Perché scrivi libri? E, in particolare, perché hai scritto questo libro? Sostanzialmente, qual è la tua dichiarazione di poetica?

Non so perché scrivo libri. L’unica cosa che so con certezza è che non riesco a stare senza scrivere libri. Questo libro l’ho scritto perché sentivo la necessità di una storia centrata sull’amore e sulla ricerca della felicità, e di scriverla in forma introspettiva, perché servisse anche a me, per ritrovarmi. Fino a L’abito da sposa, la mia poetica era l’impegno sociale e la denuncia. Una sorta di letteratura civile. Adesso sono più ripiegato in me stesso. Credo che la letteratura debba servire a un solo scopo, l’arte e la creazione in sè, il più possibile libera e spontanea.

Il finale è una sconfitta, una dichiarazione dell’impossibilità di essere felici, o è una “rinascita”, per quanto dolorosa e “azzerante”?

Una sconfitta. Ovvero la dichiarazione che la felicità sia irrealizzabile. Ma è anche una rinascita. Nel sorriso compiaciuto di Giacomo che sorseggia un po’ di vino e mangia. Giacomo  e Alice ricominciano la loro vita. Il guaio vero è che nessuno dei due e forse l’intera generazione, non riesce più a vedere un noi nel rapporto di coppia. Si rimane legati a un individualismo fortissimo e invincibile.

La ricerca della felicità del protagonista, è la stessa che stai compiendo tu?

Assolutamente sì. O meglio la stessa ricerca compiuta qualche anno addietro. Adesso sono felicemente sposato e con prole.

E’ Napoli una sorta di Pietroburgo dostoevskijana?

Così mi è parso sia in Pater Familias che ne L’ubbidienza, con la tua attenzione alla cronaca su cui innesti le vicende polifoniche dei personaggi, che nel perbenismo borghese de L’abito da sposa, che nella realistica descrizione della città di Esco presto la mattina.

Perché invece Non molto lontano da qui è ambientato a Roma?

Napoli mi ha stancato. È una città insostenibile, insopportabile e ti ritorna in faccia sempre. Se ambienti un romanzo a Napoli rischi di perdere tutto il resto. Perché è la città  a farla da padrone, rumorosa, roboante, pervasiva. Non riesci a staccarle gli occhi da dosso. Nel bene e soprattutto nel male. E poi credo che sia una città poco interessante, ormai. Sono oltre trent’anni che vive con gli stessi meccanismi, le stesse dinamiche.

Mi sono anche saltati agli occhi dei punti di contatto tra Matteo e Rosa di Pater Familias con il principe Myškin e Nastas’ja de L’idiota, nella dinamica “principe salvatore-fanciulla da salvare”, che però appare irrimediabilmente corrotta dalla mescolanza tra vita e morte, tra purezza e corruzione. Era un parallelismo voluto, o forse queste mescolanze sono un’inevitabile e naturale risvolto drammatico di questo tipo di dinamiche?

Mi piace pensare che sia il naturale risvolto di queste dinamiche. Il che equivarrebbe a elevare i miei personaggi nell’ambito dell’universale. Una cosa meravigliosa… comunque al di là di tutto Dostoevskji  ha sicuramente segnato la mia vita, se non altro facendola virare decisamente verso la letteratura.

Le città in cui ambienti i tuoi romanzi, vista la loro vera e propria “capacità d’azione” sul destino dei personaggi, possono venir definite esse stesse come dei “personaggi”?

Sicuramente sì. È quello che ti dicevo poco sopra riguardo all’ambientazione  del romanzo. In Esco presto la mattina, i miei personaggi agivano e compivano scelte importanti della loro vita anche e soprattuto in funzione della città. Lo stesso accade, anche se con minore evidenza, in Non molto lontano da qui.

In Non molto lontano da qui è il trasferimento da una città all’altra di Alice che provoca una catena di eventi inarrestabile, il cui ultimo approdo è il totale ripensamento di Giacomo sul senso della sua vita e della sua felicità. Pensi che il contesto “geografico”, storico e sociale sia così importante per il destino dell’individuo? L’individuo è quindi un “tipo sociale”, come direbbe Balzac, in cui l’ambiente “crea” la persona, o è piuttosto un mistero irriducibile, relativamente indipendente dalla realtà che lo circonda, che mai si esaurisce nelle dinamiche sociali che subisce, come direbbe Dostoevskij?

 Sono più balzachiano sotto questo aspetto. L’uomo contemporaneo è sempre più un animale sociale e le sue “funzioni” fondamentali sono strettamente correlate alla società in cui vive e alle opportunità che essa offre. Se vogliamo è un po’ il concetto di cultura in antropologia, anche se molto esteso.

Le scene di sesso hanno un ruolo piuttosto importante nei tuoi libri, così come la morte, la vendetta, l’incesto, insomma i caratteri tipici della tragedia. Ti senti accomunato in qualcosa con la tragedia antica? La sessualità ha molteplici valenze, dalla redenzione, come lo è per Matteo di Pater familias, alla mutilazione interiore, come ne L’ubbidienza. Perché nei tuoi personaggi non si verifica mai un equilibrio tra i due estremi? Perché credi che sia impossibile realizzare un equilibrio, o perché ti interessa sondare gli estremi, ancora oscuri e poco indagati?

Credo che il dramma contemporaneo, dall’ottocento in poi, discenda direttamente dalla tragedia antica. E come tale sia in antitesi all’equilibrio. L’equilibrio richiede una sorta di mediazione e dunque un annullamneto della drammaticità insita nella maggior parte delle azioni umane. E francamente mi intriga poco. Mi piace di più lo scontro. La protesta. La lotta diretta. Lo scontro.  È la parte oscura, non solo nel senso di poco indagata, dell’anima umana. Il nero che c’è in ognuno di noi.

Ringraziamo Massimo Cacciapuoti per la sua disponibilità e cortesia.

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