Autore: Arben Dedja
Data di pubbl.: 2020
Casa Editrice: Vague edizioni
Genere: narrativa contemporanea
Traduttore: Arben Dedja
Pagine: 144
Prezzo: € 15,00
Chi è, realmente, il paziente steso in sala operatoria nei racconti di Arben Dedja? Il malato è un singolo individuo o, piuttosto, un intero popolo? Fin dove si spingono le radici politiche del male? Quale linea invisibile lega il dolore alla cura?
In Siamesi, un medico è inviato nel freddissimo entroterra albanese. Un giorno, un ragazzino irrompe nel bar, dove l’uomo sta discutendo con il maestro di matematica su come riscaldare la stanza che i due condividono (il carbone è pericoloso? Si rischia l’avvelenamento?) Il medico è atteso dall’ostetrica in sala parto. Una giovane donna ha appena dato alla luce una coppia di gemelli, sfortunatamente uniti per la pancia e destinati a perire nel giro di poche ore. Che fare, se l’obiettivo del Partito è abbassare la soglia di mortalità infantile, responsabilità “politica” che ricade sui medici stessi? Che fare, se l’obiettivo dell’uomo è evitare, a se stesso, un soggiorno prolungato, di stampo punitivo, lontano dalla capitale? In genere, la soluzione è una sola, pragmatica e assurda allo stesso tempo: convincere i genitori a dichiarare il decesso del figlio non prima di quattro anni, soglia stabilita per inserire i morti nella colonna “prematuri”. Come metterla, però, con i siamesi?
Arben Dedja, ora ricercatore dopo una carriera da chirurgo, è poeta, scrittore, traduttore trapiantato in Italia dal 1999. Nel suo Trattato di medicina, Dedja ritrae l’Albania nella fase terminale della farsesca e feroce dittatura comunista di ispirazione ideologica filocinese. In Esercitazioni di anatomia, cadaveri di dissidenti, con la pallottola ancora conficcata tra le carni, sono messi a disposizione degli studenti per le pratiche di autopsia. Il tecnico di laboratorio “pesca”, con una sorta di uncino, i corpi da un “pozzo”. Il ricambio è garantito. Soldati a presidio dei confini sparano sempre più di frequente ai fuggiaschi, a loro volta, spesso, soldati. Dedja adotta l’ironia per stemperare l’inevitabile cinismo suggerito dagli argomenti. Gli specializzandi inventano una scommessa repellente e oscena (“La lama spaccò la cute secca, grigia, e penetrò la carne dura”), una lotteria tanto simile a una prova di iniziazione o ad un esperimento di selezione naturale.
La realtà si confonde con l’incubo. L’Albania comunista è una nazione sfatta, in piena implosione e in preda ad istinti autodistruttivi. Nello splendido Morgue, racconto che evoca l’estetica cinematografica horror degli anni Ottanta, zombie armati di bisturi, coltelli e motoseghe si fronteggiano all’interno di un obitorio.
Ci precipitammo verso l’obitorio per verificare con i nostri occhi – cosa che se fosse stata resa possibile dai nostri occhi ben sviluppati di sicuro avremmo svolto con dovizia di dettagli – e vedemmo i due clan di morti (chiamiamoli comunque realmente morti) simili a sciami umani dirigersi (uno dei due clan al completo sopra un camion) chi da una parte chi dall’altra verso l’obitorio per mettere in atto ciò a cui abbiamo assistito e che ormai tutti hanno appreso dalla stampa e cioè la rovina come quella già avvenuta nel bar in cui era scoppiato il fatale litigio dell’intero obitorio e il tutto perché erano disperati e perché temevano un’autopsia.
Il tessuto sociale albanese, a dispetto delle promesse di cambiamento rivoluzionario e nonostante l’impegno realista in letteratura, resta ancorato a regole arcaiche. Nella torre della carne, un racconto strutturato in forma di diario di appunti (troviamo il giorno, il mese, ma non è mai precisato l’anno, a sottolineare la possibilità che quegli eventi si collochino in un ciclo di stagioni qualsiasi), il personale del Pronto Soccorso deve fronteggiare sgarri, ritorsioni e agguati di famiglie coinvolte in sanguinosissime faide. Se il rivale è rimasto in vita, allora l’obiettivo dei raid è “finire il lavoro”. Le irruzioni punitive possono però riguardare anche i medici, rei, a detta dei parenti, di non aver curato a dovere il congiunto ferito. Capita che le gang si intrufolino, a colpi di kalashnikov, nei reparti per requisire oppiacei. I furbi anestesisti scovano la soluzione migliore: dare la morfina in custodia, personalmente, ai pazienti più bisognosi. Davanti alla canna fredda della pistola, l’infermiere di turno indica lo scaffale delle medicine semivuoto, gettando la responsabilità di cotanta penuria sulla direzione. L’autore rammenta anche una parentesi gotica:
Dovevano essere le due di notte quando il pipistrello irruppe nella sala operatoria. Non si è mai saputo come avesse fatto ad arrivarci, dovendo attraversare il corridoio e le due anticamere. Si sentì un primo colpo, forte e irregolare, alla porta; poi un altro. Il paziente era un vecchio con un megacolon ostruttivo ed era accompagnato dalla moglie che sembrava più vecchia e stremata di lui […] Il pipistrello, che non era riuscito ad aggrapparsi al soffitto, saltò sulla lampada operatoria. Fatosh, per un riflesso incondizionato, balzò sopra il paziente e coprì l’incisione con il suo corpo.
Un “trattato”, quindi, nel quale il rigore della pratica medica, in senso stretto, sfugge. Un trattato comunque metodico nella catalogazione dei fatti, asciutto e ridotto all’osso, interamente ricondotto al caos dell’esperienza, al rapporto empirico con la realtà quotidiana, alla crudeltà del vissuto e alla dolcezza delle relazioni. Fatosh, Benny, Jimmy, Bakíe, i membri dell’equipe citati dal narratore, spettro letterario dello stesso Dedja, sono gli officianti dei riti della sala operatoria, tempio laico non esente da offese ed effrazioni. Ognuno, nella squadra, dà fondo alle proprie risorse professionali e umane, tentando di ovviare ai disservizi, al degrado, alla carenza di strumentazione adeguata, ai molteplici segnali di collasso del sistema. Un opportuno spirito di improvvisazione, quasi attoriale, calibrato sulle frequenze di una stoica saggezza, sostiene le scelte e le azioni dei medici.
Momenti esilaranti e strazianti incrociano la routine giornaliera dei chirurghi e dei loro assistenti, episodi in genere risolti con scaltrezza: un padre-bestia tenuto all’oscuro della gravidanza extrauterina della figlia minorenne non fidanzata, un paziente che prende fuoco a causa di un elettrobisturi difettoso e comunque salvato, un intervento portato a termine al chiarore di candele acquistate in un minimarket nel cuore della notte… E poi, la pietà per le sorti del prossimo, rappresentata dalla vista dei parenti dei prigionieri politici, giunti in pellegrinaggio alla ricerca dei miseri resti dei giustiziati, o ancora dalla fine di un senzatetto, mangiato dai vermi e crepato nell’assordante silenzio della povertà estrema, oppure dall’inaspettato gesto di ammenda di un marito fedifrago punito e oltraggiato nella propria virilità:
Non dovetti scervellarmi a lungo per capire il motivo della sua visita, visto che la ferita si era del tutto rimarginata. Mi raccontò, a voce bassa, ma senza nascondere toni di grande determinazione, che aveva scelto di tornare a vivere con la moglie. Era venuto a dirmi solo questo. Non mi chiese di approvare questa decisione, cosa che invece feci, con un filo di voce. Allora ero ancora celibe e non conoscevo quel sentimento di catarsi provato dai pazienti nei confronti di chi gli svuotava le budella o toccava o trattava loro certe parti delicate e intime.
Arben Dedja ha tradotto da sé il suo Trattato di medicina in italiano.“Ho talvolta riso fino alle lacrime”, scrive Giulio Mozzi nell’introduzione al volume, individuando l’origine del riso “nella sensualità (e sessualità) perversa che mi pare lampeggi, serpeggi in ogni racconto”. La prosa di Dedja, in effetti, più che descrivere, incide. La sua scrittura è epidermica, piacevolmente elettrizzante. Dedja sa unire, con luciferina astuzia, il miraggio del paradiso socialista al concreto inferno delle viscere. La lezione di J. Rodolfo Wilcock, scrittore tradotto di recente dall’autore, è presente e rintracciabile, quantomeno, nel distillato di humour nero somministrato goccia a goccia al lettore. Tra le altre riflessioni, è opportuno ricordare la diatriba WC alla turca vs WC alla francese (una sostituzione, dei primi a favore dei secondi, che causa un’ecatombe di infortuni in virtù della scarsissima qualità dei cessi importati in Albania), l’excursus in Phallus sugli oggetti estratti dal pene, compresa una carta di riso con la frase di Mao, durante le operazioni, la dotta digressione sul meteorismo in Piccole esplosioni, con riferimenti a Giotto, Dante e Burchiello, l’omaggio al dottor Achille Botti, eccentrico specialista in cure alternative e il “mezzo” racconto di chiusura, Professioni, una stele eretta alla faccia tosta e all’intelligenza “superiore” dei medici non laureati.
Ma un equilibrio sorregge il mondo. Posso testimoniare di aver conosciuto nella mia vita paggi, dame di compagnia, maggiordomi, bagnini, balie, macellai, necrofori, netturbini, supplenti, buttafuori, baristi, amanuensi, assaggiatori di tè, giostrai, circensi, domatori, parrucchieri, guardiacaccia, stallieri con due o più lauree, con dottorati di ricerca e master di primo e secondo livello.