Speciale Giorno della Memoria: tutti i libri per non dimenticare

Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici,

finchè non si è spenta la voce di chi può raccontarle.

Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato.

 

 

Queste raccolta di novità è stata realizzata perché in questo giorno torni alla memoria il passato – un passato poco remoto – affinché possano riecheggiare le voci di coloro che hanno vissuto – direttamente o indirettamente – le atrocità di quel tempo.

 

ROMANZI

Alberto ha cambiato vita. Il suo passato nei servizi segreti è ormai alle spalle, per quanto possa esserlo un’esistenza di quel tipo. Perché lui è il migliore, e qualcuno se n’è accorto, tanto da offrirgli un incarico inatteso: la sorveglianza notturna, in una clinica, di un uomo molto anziano e molto ricco. La sua vita è in pericolo, e non solo per il cancro che lo sta consumando. Inverno 1939. Emile, nato a Parigi nel 1921, ebreo da chissà quante generazioni. Non ricorda il giorno in cui ha iniziato ad avere paura, ma sa che da quel giorno non ha più smesso. A unire le due vicende, un quaderno azzurro cui è affidata una verità che non tutti hanno il coraggio di guardare in faccia. La storia di un’ossessione. Un romanzo sulla vendetta e sul perdono. Che non sempre sono agli estremi opposti della bilancia.

“Dovrei essere fumo” di Patrick Fogli. Piemme edizioni.

Membro della resistenza polacca, il capitano Witold Pilecki nel 1940 si fa volontariamente arrestare durante una retata per essere imprigionato ad Auschwitz, con il proposito di raccogliere informazioni sulla struttura del campo e organizzare una rivolta. Auschwitz è ancora in fase di costruzione, e i prigionieri che non vengono liquidati immediatamente sono costretti a turni di lavoro estenuanti, soggetti a punizioni crudeli, decimati dalle malattie. Witold subisce come tutti il freddo e la fame, assiste impotente a crudeltà inaudite, ma la sua forte fibra e la sua determinazione lo aiutano a sopravvivere. A poco a poco comincia a tessere la sua rete clandestina, “arruolando” compatrioti e organizzandoli in cellule indipendenti e sconosciute le une alle altre. Intanto Auschwitz continua a crescere, le camere a gas e i forni crematori lavorano a pieno ritmo, la terribile macchina del campo è sempre più organizzata, cominciano gli esperimenti medici. Per tre anni, Pilecki aspetta in quell’inferno il momento di dare il via alla rivolta, ma l’ordine non arriva mai. Nel 1943 decide che non può più fare nulla nel lager e, con l’aiuto dei suoi amici, riesce a scappare. Dopo una fuga rocambolesca ritrova la libertà e prosegue a lavorare per la resistenza. Witold Pilecki, nato in Polonia nel 1901, di origini nobili, arruolato nell’Armata Polacca, dopo l’occupazione tedesca e la capitolazione di Varsavia, si unì alla resistenza antinazista. Nel 1940 si fece arrestare per poter entrare ad Auschwitz e organizzare una rete di resistenza e inviare rapporti sulla situazione nel campo, da cui fuggì tre anni dopo. Nell’autunno 1945, per conto del governo polacco in esilio a Londra, fu spedito nuovamente in missione nella Polonia occupata dalle truppe sovietiche. Finito in un campo di lavoro sovietico come prigioniero politico, fu scoperto, processato e giustiziato nel maggio del 1948. Fino al 1989 le informazioni riguardanti l’attività di Witold Pilecki furono censurate.

“Il volontario di Auschwitz” di Witold Pilecki. Piemme edizoni.

Anne Frank (1929-1945) è diventata celebre grazie al suo diario, che ha commosso e continua a commuovere lettori di tutte le età. Mirjam Pressler ne fa un ritratto biografico a tutto tondo, soffermandosi sulle contraddizioni e facendo emergere i talenti e le aspirazioni di questa giovane ebrea nata in Germania. Partendo da numerosi documenti e testimonianze, e anche grazie all’inserto fotografico, la storia di Anne prende vita davanti ai nostri occhi, nella prima biografia ufficiale e senza censure della vittima del nazismo più famosa al mondo. La storia sconvolgente di una ragazzina diventata donna nel periodo più cupo della storia dell’umanità e che Mirjam Pressler ha avuto il coraggio di trasformare in un romanzo avvincente.

 “Io voglio vivere. La vera storia di Anna Frank” di Mirjam Pressler. Edizioni Sonda.

 Nel 1945, alla fine della 2nd Guerra Mondiale, Adolf Eichmann, uno dei capi della campagna nazista “soluzione finale”, sparisce nel nulla. Sedici anni dopo viene rapito alla fermata di un autobus in Argentina da un gruppo scelto di spie del Mossad, i servizi segreti israeliani, e trasportato di nascosto in Israele. Li sarà oggetto di uno dei più importanti e significativi processi contro criminali nazisti che avviene proprio negli anni in cui sta sorgendo un potente e pericoloso movimento negazionista dell’olocausto. Il libro narra come tutto ciò è avvenuto: il sopravvissuto Simon Wiesenthal riapre il caso Eichmann, un avvocato di origine ebraica, emigrato in Argentina, insieme alla bellissima figlia adolescente forniscono preziose informazioni per la sua individuazione; infine, un gruppo di agenti segreti, molti dei quali sono dei sopravvissuti o hanno perso familiari nell’Olocausto, partono da Israele per effettuare il rapimento. Un’avvincente spy story, piena di colpi di scena, battute d’arresto ed entusiasmanti recuperi, che si basa però su una profondissima e dettagliatissima ricerca storica.

“Nazi hunters. L’avventurosa cattura del criminale nazista Adolf  Eichmann” di Neal Bascomb. Giunti editore.

Settembre 1938. Nedo Fiano è un tredicenne sereno e felice che vive a Firenze con la sua famiglia. Improvvisamente le leggi razziali cambiano completamente la sua vita: Nedo è costretto a lasciare la scuola e gli amici, mentre il padre e la madre perdono il lavoro. Nel giro di pochi anni la famiglia Fiano è costretta a nascondersi per sfuggire alle retate dei fascisti. Purtroppo, però, una denuncia li fa arrestare. Inizia così la terribile odissea che li conduce ad Auschwitz. La madre viene uccisa all’arrivo e il padre, a breve, subisce la stessa sorte. Nedo si difende con l’ottimismo della giovinezza, le sue doti di cantante, la conoscenza della lingua tedesca imparata dal nonno e con il sostegno morale di un ristretto numero di amici che, come lui, hanno la sola colpa di essere ebrei.Questo libro rappresenta la preziosa testimonianza di un viaggio a ritroso nella memoria, un viaggio doloroso e faticoso, ma per Nedo ricordare è un dovere, un debito alla memoria dei suoi familiari sterminati ad Auschwitz.Accanto alla severa denuncia del razzismo e della barbarie umana si impone su tutto il monito a non dimenticare.

“Il coraggio di vivere” di Nedo Fiano. Monti editore.

«T4 non è una tragedia classica, ma una raccolta di storie tragiche che si possono comprendere soltanto fornendo una chiave della logica che l’ha ispirata e l’ha guidata. Le vittime sono quasi tutte anonime, i carnefici sembrano solo aguzzini e sadici, ma dietro quella mostruosità c’è una normalità colpevole, ed è solo rendendola familiare e umana che si può comprendere e riconoscerne i segni anche fuori dalla storia, nel presente».

Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute” di Marco Paolini. Einaudi editore.

Degli oltre quindicimila bambini rinchiusi nel campo di Terezín e in seguito deportati ad Auschwitz, solo un centinaio è sopravvissuto all’Olocausto. Helga è una di questi. Il diario che Helga non smette di tenere anche durante la prigionia racconta la forza e la lucidità di una bambina capace di trovare le parole per trasformare la memoria in Storia, e la Storia in un monito eterno.

“Il diario di Helga” di Helga Weiss. Einaudi editore.

Fernande e André si sono fatti una promessa che è insieme un gesto d’amore e di speranza: se sopravviveranno alle persecuzioni, torneranno insieme alla casa sotto il faro. Non importa se il futuro che li aspetta è diverso da quello che avevano immaginato. Il futuro è un tempo vivo, a dispetto di tutto. Dopo Conta le stelle, se puoi, in cui aveva cancellato la guerra e la Shoah per regalare ai suoi personaggi un destino diverso e piú giusto, Elena Loewenthal ha sentito il bisogno di affrontare di nuovo quel buco nero della Storia. Di raccontarlo nel suo durante e nel suo dopo in cui nulla passa, tutto resta. La lenta nevicata dei giorni riesce nel miracolo di mettere al centro la vita, di farla attecchire dove sembrava impossibile potesse nascere ancora qualcosa.

“La lenta nevicata dei giorni” di Elena Loewenthal. Einaudi editore.

Franz Stangl, nato in Austria nel 1908, ottimo poliziotto, arruolato nella Gestapo dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich di Adolf Hitler, capace di fare una rapidissima carriera che lo porta a diventare prima sovrintendente e poi luogotenente del programma di sterminio T4, e infine comandante dei campi di Sobibor e Treblinka. La sua ultima promozione. Poi la disfatta, la fuga in Italia, i documenti e un’identità falsa, una seconda fuga in Brasile, ventidue anni di anonimato fino all’arresto nel 1967, e poi l’estradizione in Germania, il processo, la condanna all’ergastolo. Poco prima di morire rilascia una lunga intervista, che si conclude con una frase strana: «Per la prima volta oggi ho detto tutto, e adesso non ho più nessuna speranza». Speranza di cosa? Di un perdono? Di una dignità ancora possibile? Di dare agli altri una chiave per capire l’inaccettabile di ciò che è stato? Dominique Sigaud, giornalista e scrittrice con all’attivo già una ventina tra saggi, romanzi, reportage, coglie in quel dubbio finale qualcosa di completamente diverso da quanto è stato detto, negli anni, dai tanti altri assassini nazisti. Non ultimo Erich Priebke, come noi sappiamo bene. E allora decide di cercare di capire, e si mette sulle tracce di quest’uomo, ricostruendone tutto il percorso, la coerenza e la metodicità di un umile funzionario della follia, fino all’abisso. Un libro densissimo, inconsueto, inquieto, che racconta una ricerca e un’ossessione, che non cerca facili risposte ma si spinge in profondità nei dubbi, nelle paranoie, nell’inspiegabile che accomuna tutti gli episodi più sconvolgenti della storia del Novecento, partendo dalla Shoah per arrivare in Ruanda e nei Balcani. Il caso di Franz Stangl diventa così il paradigma di tutti quegli uomini x che “impeccabili, sull’attenti, si schierano dalla parte della catastrofe”.

“Il caso di Franz Stangl” di Dominique Sigaud. Edizioni Clichy.

«Sono convinta che la Storia è come un riassunto ben fatto: mette in risalto quanto c’è di più importante, seleziona ciò che ha contato da ciò che è stato insignificante; nella sostanza non mente. La vita invece è il libro intero: contiene tutti i gesti, i pensieri, le occasioni, gli avvenimenti, senza la capacità di metterli in ordine di importanza. E questo è molto pericoloso.» Nelle parole di Miriam – appassionata, indomita protagonista – è racchiuso il senso di questo romanzo: uno scavo nella Storia per recuperare le storie, quelle vive, pulsanti, ricche di dettagli che cambiano il senso di tutto, se li si sa ascoltare. Il dottor Capecchi, bibliotecario e storico a tempo perso, in cerca di una passione che gli accenda la vita, si sta dedicando alla stesura della biografia di Antonio Manca, uno dei più importanti politici italiani della seconda metà del Novecento, un padre della Repubblica. Ormai anziano e accudito da un infermiere, durante uno degli incontri con il suo aspirante biografo Manca pronuncia il nome di Enrico Foà, e le antenne del bibliotecario ne captano l’importanza. Chi era Foà? E perché non compare in nessun libro, in nessun archivio? Grazie a questo nome – e a una visita al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano – Capecchi incontra Miriam, ebrea emigrata da decenni in Argentina. Lei Enrico Foà l’ha conosciuto. Lo ha amato. E lo ha perduto. E se quando si incontrano Miriam non confessa nulla a Capecchi, sarà proprio la sua voce registrata ad attraversare l’oceano grazie a una chiavetta usb svelandogli infine il segreto nascosto tra le pieghe del passato, nelle vie operose del Ghetto di Roma prima del fatidico 16 ottobre 1943, per le strade di quella città che a ogni angolo offriva a due ragazzi ardenti uno scorcio di speranza. Un amore forte come solo da giovani, e in guerra, lo si può provare emerge dal buio e ci consegna la chiave del proprio significato, della propria stessa fine, di una scelta radicale di cui il mondo non sentirà mai parlare. Giorgio Van Straten scrive un romanzo in cui la nostra grande Storia, quella dell’orrore e della liberazione, si intreccia a una vicenda di struggente intensità emotiva e civile, rievocata sul filo di una memoria lucidissima. Dà voce alle accensioni emotive e agli slanci ideali dei suoi protagonisti e insieme alza lo sguardo per restituirci un’immagine coraggiosa di quello che siamo stati, di quello che siamo voluti diventare.

“Storia d’amore in tempo di guerra” di Giorgio Van Straten. Mondadori editore.

«Sono nato due volte. Alla mia prima nascita non c’ero. Il mio corpo è venuto al mondo il 26 luglio 1937 a Bordeaux. Me l’hanno detto. E devo crederlo poiché non ne ho alcun ricordo. La mia seconda nascita, invece, è fissa nella mia memoria. Una notte, sono stato arrestato da alcuni uomini armati che circondavano il mio letto. Mi stavano cercando per uccidermi. La mia storia è nata quella notte.» Boris Cyrulnik, celebre psichiatra francese, ha un passato tormentato alle spalle: i genitori, di origine ebraica, sono stati rinchiusi e assassinati nel campo di concentramento di Auschwitz quando lui era ancora un bambino. Rimasto solo, è caduto prigioniero dei nazisti ma è riuscito a salvarsi per miracolo nascondendosi nel bagno della sinagoga della sua città. Dopo aver trascorso l’infanzia come un fuggitivo, in casa di famiglie che lo ospitavano e in orfanotrofio, terminata la guerra ha scelto di diventare psichiatra. Pur lavorando ogni giorno con traumi e sofferenze da superare, soltanto di recente è riuscito ad affrontare il proprio passato, per testimoniare a voce alta l’orrore vissuto e le conseguenze dolorose che ha dovuto affrontare crescendo. La vita dopo Auschwitz è un viaggio nella memoria, un’esplorazione profonda dei ricordi di un passato che emerge dopo un lungo silenzio. La memoria, ci dice Cyrulnik, non racconta la verità storica dei fatti, ma un’altra verità, soggettiva ma non per questo meno reale: un meccanismo dal potere salvifico che cancella, seleziona e modifica quello che è accaduto e che nel tempo ha plasmato i nostri ricordi per rendere il dolore accettabile aiutandoci a superare i traumi vissuti. Attraverso la sua storia, Cyrulnik si rivolge a tutti coloro che cercano di scappare da un passato difficile: un lavoro paziente, in cui l’autore si è messo in gioco, accettando di essere per la prima volta soggetto e oggetto della propria ricerca. Un saggio che unisce le emozioni e la sofferenza di un sopravvissuto a una rigorosa analisi sulla costruzione della memoria, da cui emergono i segni di un’infanzia stravolta dalla guerra e, al tempo stesso, il desiderio di superare l’infelicità per rispondere con forza alla chiamata della vita.

“La vita dopo Auschwitz” di Boris Cyrulnik. Mondadori editore.

Un piccolo villaggio, i fratelli, gli amici, le corse nei campi, il bagno in un fiume limpido: questa è la storia vera di Leon, quella di un mondo spazzato via all’improvviso dall’invasione dei nazisti. Quando nel 1939 l’esercito tedesco occupa la Polonia, Leon infatti ha soltanto dieci anni. Ben presto lui e la sua famiglia vengono confinati nel ghetto di Cracovia insieme a migliaia di ebrei. Con coraggio e un pizzico di fortuna Leon riesce a sopravvivere in quello che ormai sembra l’inferno in terra e viene assunto nella fabbrica di Oskar Schindler, il famoso imprenditore che riuscì a salvare e sottrarre ai campi di concentramento oltre milleduecento ebrei. In questa testimonianza rimasta a lungo inedita, Leon Leyson racconta la propria storia straordinaria, in cui grazie alla forza di un bambino l’impossibile diventa possibile.

“Il bambino di Schindler” di Leon Leyson. Mondadori editore.

La «breve sosta» che dà il titolo a questo libro è quella del suo protagonista, Dawid, un giovane ebreo sopravvissuto al campo di sterminio. Dawid ormai non c’è più e, a distanza di anni, suo figlio Göran cerca di farlo rivivere attraverso il ricordo, attraverso il potente strumento della parola e del racconto. Aggrappandosi con forza a qualsiasi traccia ne attesti l’esistenza, i giorni di gioia e quelli della tragedia indicibile, Göran ne ricostruisce il viaggio «di ritorno» da Auschwitz, il suo disperato tentativo di riprendere a vivere in una cittadina svedese, perché come scrive l’autore «visto che i pochi rimasti in vita alla fine del viaggio raramente hanno seguito lo stesso tragitto, è facile che le strade di ritorno da Auschwitz scompaiano nell’oblio». Tra pagine di rabbia e di affetto, di commozione e di indignazione, Rosenberg mantiene vivo fino all’ultimo il profondo dialogo con il padre, consegnandoci una storia solo apparentemente familiare, una storia che parla al cuore e alla mente dell’umanità intera, di ogni epoca e latitudine. Per non dimenticare. Per non ripetere.

“Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz” di Göran Rosenberg. Ponte Alle Grazie editore.

Frank è un poeta, un idealista, l’ultimo di quattro figli di un agiato commerciante ebreo di Lvov, in Polonia. Studia medicina e sta ultimando il suo tirocinio quando nel settembre del 1939 le prime bombe tedesche lo sorprendono presso l’ospedale ebraico della sua città. Da un giorno all’altro la situazione precipita: prima l’invasione russa, poi quella tedesca, il trasferimento nel ghetto di Varsavia e, infine, la deportazione a Treblinka dove perderà tutti i suoi cari. Frank riesce a fuggire, ma viene nuovamente catturato e deportato ad Auschwitz. Sopravvivrà e incontrerà una donna cambierà per sempre la sua vita, la stessa donna che accompagna i suoi sogni dai giorni terribili di Treblinka, lo stesso volto incastonato nell’anello da cui non si separerà fino alla fine dei suoi giorni. Questo libro è la sua testimonianza, una vita salvata dalla tragedia giorno per giorno, grazie a una speranza inesauribile e alla forza della scrittura: parole strappate alla morte scritte fortunosamente su avanzi di sapone e sugli stracci dei prigionieri destinati alla camera a gas, talvolta pezzetti di carta barattati al mercato nero del campo con un pezzo di pane.

“Il racconto dell’anello” di Frank Stiffel. Edizioni E/O.

Estate 1939, l’Austria è già territorio tedesco. Mentre la Storia affila i coltelli, Otto J. Steiner trascorre i suoi giorni in un sanatorio di Salisburgo. Austriaco, ebreo, completamente solo, Otto ha un unico amore: la musica. La tubercolosi lo divora, la malattia lo umilia, le privazioni lo costringono ai margini del mondo. Un mondo dissonante per il suo orecchio da melomane, una mancanza di gusto imperdonabile per quest’anima libera, testimone privilegiata e involontaria di una certa visione dell’uomo ormai in disfacimento. Tutto sembra perduto, quando un evento inatteso porterà Otto a un passo dal cambiare i destini del secolo. E se l’unico da salvare fosse Mozart? Con umorismo raggelante, puntigliosa ferocia e una gravità non priva di malizia, Raphaël Jerusalmy firma un primo romanzo crudelmente sovversivo.

“Salvare Mozart” di Raphaël Jerusalmy. Edizioni E/O.

Adam e Thomas hanno nove anni, frequentano la stessa classe, eppure sono bambini quanto mai diversi. Adam è estroverso e ottimista, ama la natura e gli animali, ha dentro di sé la saggezza concreta del padre falegname. Thomas è più insicuro, spesso goffo, ma per la sua età straordinariamente maturo e riflessivo; figlio di insegnanti, è abituato a farsi molte domande, a chiedersi, per esempio, perché gli ebrei vengono perseguitati. Il destino li fa incontrare nel bosco dove le loro madri li hanno portati per metterli in salvo dalla deportazione degli abitanti del ghetto, promettendo che torneranno a riprenderli. Solo facendosi forza a vicenda Adam e Thomas potranno affrontare la fame e il freddo dell’inverno, vincere la paura della guerra, costruirsi un rifugio, tenere viva la speranza. Fino all’incontro con una bambina molto speciale, che non sembra essere di questo mondo…

“Una bambina da un altro mondo” di Aharon Appelfeld. Guanda editore.

È la sera della prima al grande teatro dell’Opera di Chicago. Morbide stole e sete fruscianti si scostano per far largo al vecchio Elliot Rosenweig, il più ricco e importante mecenate della città. All’improvviso fra la folla appare un uomo anziano in uno smoking rattoppato. Tra le mani stringe convulsamente una pistola che punta alla testa di Rosenweig. La voce trema per la rabbia, ma lo sguardo è risoluto quando lo accusa di essere in realtà Otto Piatek, il macellaio di Zamosc, feroce criminale nazista. Ma nessuno sparo riecheggia tra i cristalli e gli specchi del sontuoso atrio. E Ben Solomon, un ebreo scampato ai campi di sterminio, viene atterrato dalla sicurezza e trascinato in prigione. Nessuno crede alle sue accuse, nessuno vuole ascoltarlo. Tranne Catherine Lockhart, una giovane avvocatessa alle prese con una scelta difficile della sua vita. Catherine conosce l’olocausto esclusivamente dai libri di scuola, eppure solo lei riesce a leggere la forza della verità negli occhi velati di Ben, solo lei è disposta ad ascoltare la sua storia. Una storia che la porta nella fredda e ventosa Polonia degli anni Trenta, a un bambino tedesco tremante e con le scarpe di cartone che viene accolto e curato come un figlio nella ricca casa della famiglia ebrea dei Solomon. Ma anche agli occhi ambrati di una ragazza coraggiosa e a una storia di amore, amicizia e gelosia che affonda le radici del suo segreto in un passato tragico.

“Volevo solo averti accanto” di Ronald H. Balson. Garzanti editore.

«Quanta stella c’è nel cielo» non è un errore, è il primo verso di una ballata amara del giovane Petöfi, il grande poeta ungherese. Quei versi sono tra le poche cose che Anita porta con sé, insieme a molti ricordi laceranti. Anita non ha ancora sedici anni. è una sopravvissuta ai campi. è bella, è sensibile, le prove della vita le hanno tatuato l’anima. Sta fuggendo da un orfanotrofio ungherese per andare a vivere a casa di una zia, Monika. Eli, il giovane cognato di Monika, è venuto a prenderla al confine per accompagnarla nel viaggio in Cecoslovacchia, dove si ritrova clandestina in un mondo ancora in subbuglio. Ma tutto questo a Eli non interessa: lo attira solo il corpo di quella ragazza e già sul treno, affollato di una moltitudine randagia, inizia a insidiarla in un gioco cinico e crudele. Quanta stella c’è nel cielo è un romanzo dai risvolti inattesi. Racconta come si possa tornare dalla morte alla vita. E come, a volte, il cammino per ritrovare la speranza possa seguire trame imprevedibili. Protagonista, intorno ad Anita, è un’umanità dolente, alla ricerca di una nuova esistenza: c’è chi vuole dimenticare e chi vuole ricordare, chi mette radici e chi si imbarca per la terra promessa, chi vuole rifiutare per sempre ogni violenza e chi invece pensa che l’unico dovere è, dopo tutto, imbracciare il fucile per non essere mai più vittima. Edith Bruck offre in queste pagine la storia palpitante di un’epoca cruciale del dopoguerra, quando tutto era in fermento tra mille difficoltà. Un’altissima meditazione sulla speranza, sulla straordinaria forza e fragilità di chi va verso una rinascita. E la grande capacità della Bruck è il risvegliare violente emozioni nel lettore.

“Quanta stella c’è nel cielo” di Edith Bruck. Garzanti editore.

SAGGI

Il lager nazista è l’emblema più tragico del secolo appena finito; l’esperienza che più costringe noi contemporanei, e soprattutto noi europei, a riflettere sugli aspetti bui della condizione umana, sul male e le sue radici. In questa conversazione – terminata pochi mesi prima della morte di Levi – Ferdinando Camon e l’autore di Se questo è un uomo affrontano l’argomento in tutta la sua vastità, ciascuno alla luce delle proprie convinzioni e della propria formazione (non sfugge al lettore l’insistenza sul concetto di «colpa» in una discussione in cui uno degli interlocutori è di matrice cattolica). La «colpa» di essere nati; la responsabilità di chi obbedisce; se la storia sia fatta dai capi o dai popoli; popolo ebreo e stato di Israele; lager nazista e lager comunista; le SS e la polizia di Stalin; se Auschwitz sia la prova della non-esistenza di Dio; scienza e letteratura; se scrivere possa guarire: in questo dialogo intenso e serrato tutte le questioni vengono toccate, e nel suo svolgersi non mancano i momenti di acuto e doloroso disaccordo. Ma anche qui, forse soprattutto qui, si misura la ricchezza di esiti di un confronto appassionato.

“Se c’è Auschwitz può esserci Dio?” di Ferdinando Camon e Primo Levi. Guanda editore.

Che cosa significa «noi»? In che modo si stratificano le appartenenze identitarie che nutrono le gerarchie e i sistemi politici, religiosi e ideologici? Come si declinano le affiliazioni e le esclusioni dell’umano, tra solidarietà e ferocia? Un dialogo tra un grande scienziato e una studiosa della Shoah sulle radici culturali del razzismo e sulle forme benefiche del «noi»

“Razzismo e noismo” di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan. Einaudi editore.

“È possibile descrivere una cosa così grande, così enorme come Auschwitz e Birkenau?” Per noi, la storia, la storia a noi contemporanea, noi è come se abitassimo tutti in un appartamento al settimo piano che dà su uno snodo ferroviario ma ci abitiamo da tanto di quel tempo che se ci chiedono «Ti dà fastidio, il rumore dei treni?» ci vien da rispondere «Il rumore dei treni? Che rumore? Che treni?» Questo  non vuol dire che i treni non facciano rumore. E non vuol dire che a concentrarsi, a tendere l’orecchio, come si dice, non si senta, quel rumore, il rumore che il treno della storia fa in questo preciso momento che noi siamo qui.

 “Si sente? Tre discorsi su Auschwitz” di Paolo Nori . Marcosultra editore.

Tante (forse troppe) volte commemorando lo sterminio degli ebrei perseguito dal regime nazista concludiamo con un «Mai piú» pericolosamente sospeso, impreciso. L’immensa barbarie della shoah spesso ci ammutolisce, riduce le nostre parole a una balbettante invocazione e trascura di spiegare con chiarezza quanto accaduto. E, invece, ciò di cui la storia ha assoluto bisogno non è uno sterile «dovere della memoria» ma un dovere di rigore storico che insegni a chi ancora non sa come e quando quell’atrocità si è consumata. Nell’Eredità di Auschwitz, Georges Bensoussan indaga con sguardo acuto e lucido non tanto la dinamica della shoah come fatto storico, quanto il modo in cui la civiltà occidentale ha gestito e gestisce la memoria dell’evento: una memoria spesso mistificante e conciliatrice, che tende ad attenuare il portato traumatico dell’accaduto, piuttosto che farsi responsabilità bruciante. Per eludere le trappole della retorica è necessario – secondo Bensoussan – iniziare a prendere in considerazione le questioni politiche che questa storia solleva, a cominciare dal problema del suo insegnamento alle generazioni presenti e venture, e ad adottare un approccio critico che potrebbe anche apparire impopolare: la shoah è stata un’aberrazione imprevista e unica nel corso della Storia, o piuttosto una sua inevitabile evoluzione?

“L’Eredità di Auschwitz” di Georges Bensoussan. Einaudi editore.

Al centro di questo “racconto fotografico” di Georges Didi-Huberman c’è il lavoro dello sguardo, sollecitato e messo alla prova proprio dove sembrerebbe non esserci piú niente da vedere e nessuna immagine ancora disponibile a significare: il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, in cui la tragedia della storia pare aver annientato, oltre ai segni di vita, anche le parole per raccontare. Quello che è visibile è oggi ridotto a un “museo della memoria” pronto all’uso – con i suoi “allestimenti”, ricostruzioni, segnaletiche, apparati didascalici che accerchiano lo sguardo. Eppure, scavando come un archeologo alla ricerca di tracce sparse e accidentali, l’autore scopre, attraverso e dentro le immagini che ha scattato, come la superficie parli del fondo. Le scorze di una betulla di Birkenau o il pavimento spaccato di una baracca sono “residui” o fenditure nella materia del presente che mettono a nudo pezzi di memoria, frammenti che ancora ci interpellano: segni fragili e tenaci come interrogazioni, come “le lettere di una scrittura che precede ogni alfabeto”.

“Scorze” di Georges Didi-Huberman. Nottetempo edizioni.

RAGAZZI

Riccardo e Lisetta, orfani, vivono con gli zii in due città diverse. Ma Riccardo ha fatto una promessa alla sorellina: “Se un giorno avrai bisogno di me, io ci sarò”. E in quali pericoli maggiori ci si può imbattere nella vita se non quello di essere dei bambini ebrei nel bel mezzo delle persecuzioni razziali e della guerra? Riccardo, deciso ad andare da Ferrara a Roma per raggiungere la sorella, incontrerà mille agguati, vedrà di fronte a sé i malvagi, gli indifferenti e anche i buoni, finché non saranno i partigiani ad aiutarlo a mantenere la sua promessa. Lisetta e gli zii verranno salvati all’ultimo minuto, con uno spettacolare colpo di mano, quando già stanno per essere deportati. E Riccardo sarà in prima fila tra i salvatori.

“Io ci sarò” di Lia Levi. Piemme edizioni.

 

 

 

POESIE

Quando nel 1942 dà alle stampe il suo primo volume di poesie Le chiare notti. Poesie dalla Francia, Hans Sahl ha quarant’anni. Alle sue spalle l’Europa in fiamme e nove lunghi anni di esilio, trascorsi per lo più a Parigi. Dalla Germania nazista era fuggito, unendosi alla schiera degli emigranti della prima ora, nel marzo 1933, «non solo come ebreo, ma anche come oppositore di Hitler», riparando dapprima a Praga, poi a Zurigo e infine a Parigi fino allo scoppio della guerra. All’invasione della Francia da parte delle truppe tedesche, fu internato nei campi di lavoro francesi, in uno dei quali condivise la drammatica esperienza con Walter Benjamin. Nel 1941 riuscì a fuggire e raggiungere Marsiglia, uno dei pochi porti d’Europa dal quale era ancora possibile salpare in direzione degli Stati Uniti. Approdò a New York e vi si stabilì, per rientrare in Germania definitivamente solo nel 1989. Cinquantasei anni di esilio in cui Sahl svolse prevalentemente il lavoro di corrispondente culturale da New York per diversi giornali e riviste. Si dedicò altrettanto proficuamente all’attività di traduttore, nell’ambigua consapevolezza di avere ormai «siglato un patto con l’estraneità». Nei versi di Sahl riecheggiano i momenti bui del Ventesimo secolo e la dolorosa esperienza dell’esilio, rielaborati celebrando il coraggio, la tenacia, la forza necessaria all’elaborazione e la potenza della parola poetica. Dal tempo e dalla sua rima mi sono estraniato, il tempo la mia rima mi ha rubato. Dove i mondi crollano e s’annientano popolazioni, per addensarsi in rima la parola non ha più occasioni. Mettere in canto l’orrore non è forse azzardato, strappare a ciò che non ha rima qualcosa di rimato, per chi ancora le parole possiede nella parola cacciar di frodo per illustrare la carie ossea della lingua trovare il modo, e dove tutte le parole vengono meno, scandire in sillabe la danza della morte a cuor sereno?

 “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo” di Hans Sahl. Del Vecchio editore.

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