Autore: Sergio Nelli
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: Tunué
Genere: Romanzo sperimentale, romanzo-diario
Pagine: 117
Prezzo: € 15,00
Ricrescite di Sergio Nelli è un diario sui generis, una testimonianza di vita lunga un anno scritta in prima persona, un’autobiografia della coscienza nei dintorni di una malattia. Sono pagine attraversate da un dolore oscuro, che nell’espressione del disagio acquisisce un senso e, lentamente, si scioglie. Impossibile non pensare al termine ‘resilienza’, leggendo questo originale pastiche letterario composto al sorgere del terzo millennio, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2004 e ora riproposto da Tunué, nell’ambito di un progetto editoriale di ripresa di testi italiani “smarriti”, curato da Vanni Santoni. Opere che occupano una posizione periferica rispetto alle mode, vitali, anomale, eccentriche, opere espunte dai cataloghi, esiliate in un limbo di immeritato, per fortuna in taluni casi provvisorio, oblio. Ricrescite è un romanzo complesso, scritto in uno stile intelligentemente “postmoderno”, caldo di emozioni nei contenuti. Onore alla casa editrice di Latina per questa felice intuizione.
Un professore non più giovanissimo, homo viator gettato in un’epoca di passioni tristi, dialoga con se stesso, con il figlio di pochi anni, Federico, e con l’ambiente che lo circonda. Riflessioni strutturate, oscillanti attorno a un argomento-ossessione, la vulcanologia, si accavallano a pensieri superficialmente affiorati, presi al volo come si fa con i sogni sopravvissuti al dormiveglia. L’autore-narratore consegna alle pagine un sé ancorato alle circostanze, ai contorni spesso sfumati e alle cornici mobili del vivere. Incontriamo contrade, paesi, boschi, colline, strade e autostrade, quasi sempre appartenenti all’ecosistema naturale e sociale toscano, salvo un’incursione sulla sponda adriatica, placida e opaca, a scollinare dagli Appennini, in periodo d’estate. E poi, l’idea di intervistare gli alcolisti ospitati in una comunità di recupero, uomini e donne colti nel tentativo di resuscitare faticosamente dal vizio del bere, con l’obiettivo di raccogliere le conversazioni in un volume immaginario dal (sotto)titolo shakespeariano: Quando finirà la tempesta?
L’autore-narratore occupa il vuoto delle soste in auto, interstizi scavati da tregue e pause salutari, con escursioni poetiche di singolare bellezza e autenticità. Attorno, vibra il quotidiano con i suoi richiami, a tratti banali, a tratti sorprendenti. Ricrescite è un libro di frammenti incastrati nel deserto delle abitudini, un diario-scandaglio di poveri resti, una lucidatura filosofica di ricordi feriti. Federico interviene e ogni volta pronuncia parole che smascherano il pudore, oppure, nel ferino candore tipico dell’ingenuità, manifesta il suo essere bambino in atti di misurato scandalo, in battute cariche di folgorante, puntuta, involontaria saggezza. Il bambino educa il padre, lo tempra nel dialogo e nello scambio disarmante, disarmato, indirizzandolo verso un personale percorso di rinascita, di riaffermazione vigile, un camminamento sul sentiero, reale e metaforico, dei luoghi amati, odiati, consumati nella cenere. È una ricognizione del corpo e della mente, una meditazione di vita offesa, una perlustrazione di segni indicanti potenza inespressa, una mappatura di ciò che resta dopo la bufera, oltre il naufragio, al cospetto dei canti, mai sopiti, di pianto e di morte. Antiche depressioni sembrano divampare nel caos di un nuovo inizio, fino a polverizzarsi in materia cellulare, cosmica. È un big bang, un’esplosione che mobilita lo scrittore lungo il crinale irto della ricrescita, in risalita.
Ci sono stradine tanto strette che il sole sfiora il selciato con qualche raggio e subito risale. Ho fatto tutto l’Oltrarno in bicicletta. Federico non aveva voglia di tornare a casa. Io penso sempre che questi saranno i suoi luoghi. Quando, verso l’una, da via della Chiesa siamo sboccati nel giardino di piazza Tasso non c’era quasi più nessuno: due bambini silenziosi sull’altalena e le mamme in una panchina, scoperte sotto il sole forte come due leonesse. Ho incrociato i loro occhi a fessura sonnacchiosi e vigili e passando oltre ho scrutato per terra. Forse avrei trovato della banconote accartocciate? Un portafoglio? Qualcosa di prezioso?
Tra le vertebre del romanzo (o postromanzo? Abbiamo una definizione per inquadrare una letteratura così ibrida?) soffia il vento di amori letterari, filosofici, artistici, venuti a galla come magma che più non si contiene. Già… i vulcani, il fluire rapido della lava, il terrore scatenato dalle eruzioni, la magnificenza scenografica dei lapilli sparati in cielo. Questa insistenza ha un valore, senza dubbio, metaforico, è adesione all’universo concettuale della vischiosità, della secrezione liquida, impressione confermata dal fascino manifestato per alcuni precisi elementi della sfera corporea: il sangue, lo sperma, le deiezioni. Allo stesso modo si spiega la passione, ironica e un po’ disperata, per le sorpresine dei famosi ovetti Kinder, simboli di rottura, spilli che bucano il microcosmo familiare, instillando in esso piccole meraviglie. L’essenza delle cose sta sempre in un involucro da scardinare. La dialettica si compie tra un dentro e un fuori, tra un’area di significati inquadrata, messa a fuoco nel verso poetico o nella prosa, ed un perimetro esterno di fenomeni vacillanti, appena intravisti, contrasti che mai giungono a sintesi, incapaci di risolversi in punti di chiarezza definitiva. La magia di Ricrescite sta in questa impermanenza, una dinamica di onde, di fruscii, di bagliori, di presenze sagomate nel buio. L’informe cede all’invenzione, il non-pronunciato si emancipa nell’espressione che nomina, nel verbo luminoso, ma di una luce prudente, quieta, che seduce le ombre. Le malinconie spiaggiate nella baia di nessuno si alternano alle gioie sgorgate da epifanie impreviste.
Gli alcolisti immolano la sofferenza fisica e psichica nella vertigine di nastri incisi durante le sessioni di registrazione, tardive purificazioni, paradossali confessioni che simulano una catarsi. Il dolore dell’esistenza è un fantasma sepolto. L’oscena memoria dell’abuso dilaga negli spazi aperti della condivisione. La cicatrice chiede ascolto. La parola si svincola dalla vergogna, alla ricerca di un porto sicuro.
Oggi ho ricominciato le interviste. Ancora più netta e distinta la sensazione che la storia da me ascoltata è, con tante cancellature e qualche improvvisazione, la storia che essi si sono già raccontati più e più volte, o hanno già dovuto raccontare. Una specie di schema e di guscio insieme, in cui il racconto, a forza di rimuginamenti e versioni contemplate, invece che essere elevato può tendere a perdere di vividezza e concretezza, a spogliarsi delle distinzioni, delle particolarità, e a mettere in campo, infine, uno sfondo generico che, oltre le intenzioni consapevoli, riassorbe anche gli eventi drammatici, smangia le accelerazioni, intuba gli sgorghi, allontana… come un cannocchiale rovesciato… Fuori stagione, una lucertola sulla strada, di fronte a un portone. E siamo dentro una favola.
Antonio Moresco, nella prefazione, rivela di essere rimasto colpito, durante la lettura, “dal sotterraneo tessuto di riflessioni” e dai “passaggi improvvisi e ariosi”. Tutto vero. Ricrescite, scritto vent’anni fa, inchioda l’Italia di inizio secolo alle sue indolenze, alle sue croci. È possibile associare un libro come questo, per poetica comune e affinità linguistiche, ad un disco recente, Il nuotatore dei bolognesi Massimo Volume. Ecco che il panorama letterario e culturale italiano appare, d’incanto, meno asfittico, e il nostro tempo più adeguato allo sparo, allo schiaffo, allo spietato giudizio che merita.