OLTRE LA PENNA di… Piersandro Pallavicini

In febbraio sono stato dentro San Vittore due volte. Nessun arresto, ci sono andato per parlare di libri con i detenuti. È accaduto due pomeriggi, di venerdì, a due settimane di distanza. Mi ci hanno portato Gli Amanti dei Libri, Barbara in particolare, che con una persona del carcere ci lavora – una persona stipendiata, voglio dire, addetta alle attività culturali dei detenuti. Questo per dire che io e Barbara, invece, abbiamo fatto tutto come volontariato. Provando a preparare un pezzo su quell’esperienza e volendo farne una cronaca,  mi sono accorto che avrei dovuto scrivere un romanzo breve. Tutto per me è stato nuovo e imprevisto e rimarchevole. Ma un romanzo breve, in un pomeriggio di domenica, non lo riesce a scrivere nessuno. Ho ripensato il taglio: mi limiterò a elencare le cose che mi sono rimaste, nella memoria, più vive.

1)     A pochi giorni dal primo incontro, io e Barbara, dalla persona che in carcere aveva organizzato le cose, non avevamo ricevuto alcuna informazione pratica. Quasi all’ultimo secondo abbiamo saputo che i detenuti i libri non li avevano e che il carcere non aveva modo di procurarseli. Di solito li portano gli autori, ci hanno detto. Ah. Non sapevo nemmeno dove comprarli, volendo, i miei libri, perché Romanzo per signora è di due anni fa, e quale libreria ne ha ancora una dozzina in blocco da vendere? Mi ha aiutato il mio editore. Avvisato della cosa me ne ha trovate dodici copie in magazzino e me le ha date da regalare al carcere.

2)     Siamo entrati da via Filangeri con la sportina dei libri e i nostri sguardi sperduti. Così sperduti che i primi due controlli li abbiamo passati senza che ci chiedessero chi fossimo, che volessimo, cosa cercassimo. Ci aprivano le blindate e basta. Con le due faccine che avevamo…

3)     Poi, passato un metal detector, siamo entrati nel carcere vero. Siamo transitati lungo una specie di zona di decompressione, un lungo corriodoio (sì, cupo e scuro) e poi ci hanno aperto una nuova porta blindata, questa volta solo grazie alla nostra accompagnatrice, l’addetta alle attività culturali, che era il nostro lasciapassare. Siamo finiti in una enorme sala ottagonale, ampia e soprattutto alta. Eravamo nel cuore del carcere. La sala era l’abside di una vecchia chiesa, evidentemente la chiesa di San Vittore, con mura infinite, affrescate, i toni scuri, che davano una sensazione di fresco, di blu. Da lì partivano i bracci del carcere. A noi hanno aperto la blindata sul numero tre.

4)     Dentro i detenuti circolavano liberamente. Non c’erano le guardie fuori e loro chiusi in cella. C’erano uomini e ragazzi, italiani e soprattutto non, in tuta, in jeans, in felpa e pantaloni, che andavano e venivano liberamente. Le guardie erano quelle in divisa ed erano una netta, netta minoranza.

5)     Il braccio in cui siamo entrati era un lungo orribile corridoio con le pareti giallo scuro scrostate. C’erano porte aperte su infermerie dentistiche che mettevano i brividi solo a guardare il color ghiaccio del neon. C’era persino un’infermeria neurologica, o psichiatrica, non ricordo con esattezza, di cui sono riuscito a intravvedere le pareti azzurre con l’intonaco bucherellato e le panche della sala d’attesa, che ti facevano rizzare i capelli sulla nuca (ed erano vuote, per carità, vuote: cosa avrei provato se ci avessi visto qualcuno seduto?).

6)     Siamo saliti alla biblioteca. Anche lì solo detenuti: che catalogavano, leggevano, discutevano. In mezzo ai libri mi sono parsi totalmente inoffensivi. Mi sono sembrati dalla mia parte. Il potere dei libri. La stessa sensazione di trent’anni fa, quando andavi ai concerti: il tizio ubriaco con il giubbotto di pelle sul petto nudo non poteva farti dei male, perché ascoltava la tua stessa musica, che vi affratellava. Qui, il detenuto rasato, sdentato, con le cicatrici, leggeva anche lui, e la fratellanza era lì.

7)     L’incontro, il primo venerdì, è stato con una dozzina di carcerati. Tre quarti erano stranieri. Tre neri, un paio di arabi, un albanese che non smetteva mai di parlare e ci ha recitato una poesia – in italiano, in rima – scritta per la figlia. Una figlia piccola con cui sognava di fare cose semplici come aspettare al balcone la moglie, e madre, che tornava a casa.

8)     Ai detenuti non importava pressoché nulla del libro che gli avevo portato. Non c’era alcun programma preciso di lettura o di studio. Non c’erano compiti assegnati, schemi di lavoro. C’eravamo io e Barbara con cui chiacchierare. Due persone con cui soddisfare alcune curiosità (quando si scrive, quanto tempo ci vuole a scrivere un libro, quante copie se ne vendono, quanto si guadagna) e soprattutto due persone cui raccontare di sé. Non della propria vita, nessuno ha detto una parola del proprio passato, del perché era in carcere, dei crimini commessi. Io e Barbara eravamo due persone cui raccontare della propria esperienza con la lettura, con la scrittura, con le poesie, i racconti, il teatro che si fa in carcere.

9)     L’impressione riportata è stata di tenerezza. Mi aspettavo dei mostri (se erano lì, qualcosa dovevano pur aver fatto), mi aspettavo tensione, aggressività, e invece ho trovato delle persone che, tutto sommato, avrei detto inoffensive. Potenziali compagni per innocue chiacchierate al bar, su programmi televisivi e campionato di calcio. E persone con una voglia di comunicare, una scoperta ingenuità, un candore d’animo (almeno sulle questioni letterarie ed editoriali) che appunto, forse anche per reazione alla tensione non provata, facevano tenerezza.

10)  Tutti si sono comunque fatti lasciare il libro. Non si aspettavano che quelle copie fossero per loro. Se lo sono portato in cella, e prima se lo sono fatti dedicare, con tanto di nome e cognome.

11)  Quindici giorni dopo, dei dodici della prima settimana ce n’erano solo quattro. Un ragazzo africano, il poeta albanese, un istrionico italo-spagnolo-danese, grande lettore, e un signore italiano sui cinquant’anni, appassionato di filosofia. Abbiamo parlato del mio libro? No. Non l’aveva letto nessuno, nemmeno quei quattro, salvo forse una pagina o due. Non gli era piaciuto? Non avevano avuto tempo? Non gli interessava? In un carcere, diresti, ci sono ore e ore da far passare, o così vuole l’ampia letteratura al riguardo, e veniva facile immaginarseli chini sulle pagine che gli avevo portato. Invece no. Forse avevano avuto altro da fare. O forse Romanzo per signora gli aveva fatto schifo. Sicuramente non esisteva un programma di attività, con gli scrittori ospiti, da svolgere, con scadenze precise e relazioni da scrivere, come invece avevo creduto. Ma non mi è importato, nemmeno un po’. L’importante, evidentemente, era essere lì, far girare idee, far passare due ore in cui si provava a ragionare sulla cultura, sui libri, su un possibile modo di portare curiosità per la bellezza della lettura in vite di certo non adagiate sulla bambagia.

12)  E poi, c’era lui. Il rapinatore. È bastato raccontare una mia esperienza di vita, che comportava l’informazione che mio padre aveva lavorato in banca, per sentirlo raccontare che in banca lavorava pure lui. Ma in un altro modo, naturalmente. Era un ragazzo, gli avrei dato meno di trent’anni. Italiano, senza accento, originario della zona a nord di Milano. Per nulla pentito, avrei detto, anzi persino orgoglioso del “lavoro” che aveva fatto fuori di lì, dei soldi “guadagnati”. Poi il discorso è scivolato stranamente sulla legge contro lo stalking e contro l’emergenza della violenza sulle donne. Mi sono accorto che avevo opinioni molto diverse da quelle di alcuni dei detenuti lì riuniti. Mi sono accorto che non avevo voglia di sostenerle, le mie opinioni molto democratiche. Mi sono accorto che stavo diventando nervoso e che – anche se probabilmente non ce n’era realmente motivo – il nervosismo si stava trasformando in paura. Mi sono accorto che volevo cambiare discorso e che guardavo ogni cinque minuti l’orologio. E ho capito che a un certo punto anche il libri non bastano più. Che il senso di fratellanza provato in biblioteca era per la più parte infondato. E mi sono ricordato che in effetti, dopotutto, ai concerti, trent’anni fa, con il tipo ubriaco col giubbotto sul petto nudo si finiva per litigare.

13)  Quando siamo usciti mi sono sentito sollevato. E colpevole perché mi sentivo così.

14)  Fuori si stava bene, era quasi primavera

 

 

 

Piersandro Pallavicini è nato a Vigevano nel 1962. È docente all’Università di Pavia, dove svolge ricerche nel campo della nanochimica inorganica. Con Feltrinelli ha pubblicato i romanzi Madre nostra che sarai nei cieli (2002), Atomico dandy (2005), African inferno (2009), Romanzo per signora (2012) e, nella collana digitale Zoom, London Angel (2012) e Racconti per signora (2013). Collabora con “TuttoLibri”, supplemento culturale de “La Stampa”. Lo trovate su Facebook (facebook.com/piersandro.pallavicini) e su Twitter (twitter.com/Piersandropalla). E’ da poco tornato in libreria con il suo nuovo romanzo Una commedia italiana, sempre per Feltrinelli.

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