Quando mi hanno proposto di scrivere questo contributo, ho pensato: «Accidenti, se l’avessi saputo tre ore fa, avrei indossato le mie scarpe da running, sarei andata a passeggiare lungo i viali del parco e sarei tornata con il pezzo finito». Ma erano ormai passate le dieci di sera e dubitavo che nell’oscurità mi sarei imbattuta in scrittori in cerca d’ispirazione.
Quasi tutte le idee delle cose che scrivo – dai racconti per “Confidenze” alle bandelle dei libri che curo – nascono molto lontano dal computer: per le vie del centro, tra gli alberi del parco, sull’asfalto rabberciato nei dintorni di casa, mentre sono diretta in biblioteca o di ritorno dal supermercato.
Per questo, se mi chiedono qual è, per me, lo strumento indispensabile per scrivere, rispondo: «Le scarpe da corsa».
Esco sempre con l’intenzione di non pensare a quello che devo scrivere. Indosso gli auricolari e lascio che la mente sia libera di vagare dove le pare, senza un senso, una logica, un obiettivo. Gli occhi si posano sulle foglie che svolazzano a terra, gli escrementi di cane, le facce della gente, i cancelli arrugginiti, le insegne dei negozi, le auto parcheggiate in doppia fila, i lampioni che svettano verso il cielo. Forse canticchio, ma non me ne accorgo. Poi l’idea arriva, improvvisa, repentina, completa, come se ci fosse sempre stata e bastava non pensarci per ritrovarla. Nel caso di una bandella, è la scaletta delle informazioni; di un racconto, è la trama, qualche volta l’incipit.
Naturalmente, la cosa migliore è farlo per un romanzo, perché non basta una sola passeggiata e, quando l’idea arriva, poi è come cadere dentro la storia. E così cammino cammino, ma non so dove sono. Anzi, lo so: sono nel mio romanzo, ci vivo dentro e me lo godo tutto.
La tentazione è tornare a casa, sedermi al computer e fissare tutto sulla carta. Non lo faccio mai: aspetto fino all’ultimo istante, quando davvero non ne posso più, mi prudono le mani e la trama è completa sin nei dettagli. Passano giorni, settimane, mesi.
E anche allora non scrivo. Perché quando hai la storia pronta e vedi i personaggi ballarti davanti agli occhi come burattini in uno spettacolo di cui conosci le battute a memoria, è il momento di leggere. Parlo, naturalmente, di letture mirate, di mera formazione: cosa è già stato scritto sull’argomento? Cosa non so e dovrei sapere? Da chi potrei imparare qualcosa? Decine di libri, dalle ricette per il römertopf ai manuali di patologia forense, in base a quel che mi serve e secondo un criterio preciso: non si scrive di ciò che non si conosce.
Passano mesi di completo assorbimento, in cui la storia cresce e matura come il pane in lievitazione, senza che scriva una sola riga. Alla fine, dopo un periodo di incubazione anche molto lungo, la trama è dentro di me come se si fosse svolta realmente, perfezionata da letture tecniche, limata dal paragone con gli altri, pulita, cresciuta.
E allora non resta che sedersi al computer e…
Alessandra Selmi è nata a Monza nel 1977. È editor free lance e collabora con diverse case editrici, tra cui Bietti, Harlequin Mondadori, Garzanti. Scrive racconti e storie vere per il settimanale “Confidenze”. Il suo primo libro, E così vorresti lavorare nell’editoria. I dolori di un giovane editor, è stato da poco pubblicato dalla Editrice Bibliografica. Nel 2015, per i tipi di Baldini & Castoldi, uscirà La terza e ultima vita di Aiace Pardon, un giallo ambientato a Milano.