L’ElzemMìro – Favolette brechtiane-Le vacche di Enea

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                                                                                                       John Currin- The Lobster, 2001

 

C’era una volta e due e tre, nel voivodato di Kluji-Napoẑa il proprietario di vacche da latte Enea. È storia breve, mica preoccuparsi, e si riassumerebbe in quattro e quattrotto non fosse che le vacche erano ottanta e più sicché avevano a disposizione immensi prati al sole della primavera e dell’autunno e, a voler stare all’ombra d’estate, tutta la foresta di abeti di Kluji-Napoẑa; poi, in inverno, due calde stalle di legno massiccio, non si sa se di abete o di che, appena fuori dal paese e in vista del castello del signore di Kluji-Napoẑa e della chiesa tutta cupole e pinnacoli e della moschea tutta cupole e pinnacoli; le chiese si sa che gareggiano per il cielo, di più ma meno brillantemente dei missili.

Enea era un uomo rettangolare e benestante, curava le vacche di persona convinto non a torto che se vuoi una cosa fatta per bene te la fai da te, al massino approfitti di qualcuno ma che ubbidisca alla lettera agli ordini che dai; questo era il pensiero di Enea allevatore. Curava le vacche come, anzi più di una madre che si affannasse a pomponare le figliolette per la festa del santo patrono. Le mungeva tutte le mattine, le vacche, non le figliolette di cui peraltro era sprovvisto; quasi sempre appunto di persona, poi il latte, chiuso nei bidoni da latte e caricato sui carri della latteria comunale si avviava verso detta latteria per diventare burro, yoghurt e formaggi di rara delizia. Una piccola quota del bianco mangiare Enea la teneva per sé, da bere, battere a burro e per fare i propri formaggi grand cru. Oltre alla bella casa dalle grandi vetrate e tutta di travi incrociate tra loro all’antica senza un chiodo e con una luminosa  veranda davanti che in inverno diventava serra popolata di fiori, Enea possedeva oltre ai prati un bosco immenso; difficile stimarlo in ettari moderni perché a Kluji-Napoẑa usavano pesi e misure ancora anteriori al metrico decimale; ma in ettari stare sicuri che di ettari ce n’erano a sfare e boscaioli per tagliare e segare e imbarcare i tronchi sul fiume Napoẑa fino alle fabbrica di Turmunds. Con quel che guadagnava Enea poteva permettersi di mantenere il figlio Attico all’università. Studiava medicina Attico, a Vienna o da quella parti là, ed Enea si rallegrava all’idea che un giorno il figlio avrebbe saputo rimettere in dima le ossa del suo corpo rettangolare e farlo durare ancora a lungo e non solo. Enea possedeva una moglie, Diana la madre di Attico, donna di grande bellezza a suo tempo ma con un grave difetto, quasi quasi ci si scordava di dirlo, che non era del tutto a posto col cervello; spesso cadeva in lunghi periodi di prostrazione e furore; allora si chiudeva al buio da sé in una cameretta, con bagno en suite, e lì restava finché con un po’ di fortuna e pazienza da parte di Enea, le passava la mattàna. Per il resto era ancora una bella donna, tonda adesso e che, nonostante Enea non si fosse a suo tempo lesinato, aveva prodotto solo quell’Attico, maschio e di carattere piuttosto isoscele.

Se Dio lo avesse chiamato, così riguardo alla morte si esprimevano il pope e anche lo strano muezzino barbisino e il rabbino nondimeno, nemmeno con quei loro dii ci avessero tutti e tre giocato a briscola carpatica e avessero saputo per sicuro che c’era un dopo-la-morte- garantito-non-sai-come, Enea era sicuro di due cose, che Diana in caso di sua premorte – la chiamano così invece gli assicuratori e non si sa perché – sarebbe rimasta nelle buone mani del figliolo così che lui si sarebbe presentato sereno e senza bagagli alla stazione capolinea, di preciso come il treno arrivava alla stazione di Bauš e si fermava lì perché fino a  Kluji-Napoẑa la linea non era stata ancora messa in cantiere. Né mai, diceva Enea all’osteria del sabato, verrà messa, Chi verrebbe mai in treno fino qui e a vedere che cosa poi… abetaie… le montagne… belle sì per le capre ma a un avvocato di città che servono le montagne… mica ci camperebbe… un castello bello sissì ma non si può visitare perché ci abitano ancora i Kluji-Napoẑa e i Kluji-Napoẑa oh ben sappiamo… mezzi dràculi. Peraltro e per esaurire l’argomento dio, Enea, non credeva possibile che tutto questo mondo e gli animali che conteneva e le piante e l’acqua e i draculi fosse stato creato per morire. Nessuno costruisce una casa proprio per farla andare in malora. Quindi Enea concludeva che nessun dio aveva creato mai niente e che le cose esistevano e rovinavano o per caso o per poco più o poco men che meno di un caso o di un furfante, o solamente perché così andava loro a genio. Questi argomenti facevano andare in bestia il pope e il muezzino i quali, benché in cuor loro fossero d’accordo in pubblico che Enea era stato a sufficienza maledetto con quella sua moglie dal cervello obliquo ’n coppa, però invidiavano le sue vacche e si stropicciavano le mani per i suoi ettari di bosco e i tronchi che solo a scivolare giù per il fiume fino a Turmunds gli facevano guadagnare dei bei soldoni, entità che si guardavano bene dal considerare blasfema – anzi – soprattutto quando Enea senza distinzioni oggi per un’icona, domani per un tappeto, una cupola, un affresco una miniatura, non lesinava soldi a nessuno dei due. Così, come si dice, menava i cani per l’aia. Il buffo rabbino di  Kluji-Napoẑa (buffo non perché rabbino ma perché bassetto come un corno e sempre dondolante sul suo talmud o quel che era)  che invece amava le barzellette e il contraddittorio, si divertiva e sudava a ribaltare ogni convinzione di Enea con l’abilità puntigliosa di un Socrate o di un avvocato di Fox-crime. Enea non ci capiva niente, dopo un po’ non ascoltava più e vuoi per il vino vuoi per la noia, tenendo beninteso aperti gli occhi, sonnecchiava ma, stante la sua struttura rettangolare aveva concluso da tempo che non c’erano strade per dimostrare a una mela rossa e matura di essere al contrario una pera verde e dura o la pelle di un fico, senza fico. Ovvio che si trattasse di gabole e bubbole cui Enea dedicava il tempo di una bella bevuta e di un’amabile pipata; Enea aveva il gusto del tabacco col rabbino all’osteria. Quanto al pope e al muezzino non bevevano che acqua e quindi nix.

Ora, nel senso di allora nel c’era una volta, accadde che all’approssimarsi del Natale – a Kluji-Napoẑa come altrove, con la Pasqua e il compleanno dell’Imperatore, la festa di maggior riguardo per la maggioranza della popolazione e anche per la minoranza che così, mentre gli altri baldorie, tacchini, capponi, farce e ripieni e crème renversée, continuava ad attendere ai propri affari e per quei giorni si giovava di vendite come durante l’anno mai – accadde dunque che all’approssimarsi del Natale e come avevano previsto già da tempo i regi e imperiali astronomi accademici della scienze, nel cielo accadde dunque che si presentasse un grosso punto tondo e luminoso con a seguire una brillante coda blu ghiaccio. Si trattava, avranno capito i piccoli lettori, di una cometa e l’evento a quei tempi non era più preso per un nefasto semaforo nel cielo, se mai, diceva il pope umettandosi le labbra, un pro memoria celestiale, come il carnet da ballo di una debuttante profumata di virtù. Tutte queste parranno chiacchiere eh sì ma è che Enea, entrando nella stalla la sera in cui comparve in cielo la cometa, fu preso da un certo non sapeva che. Un’inquietudine, un disagio, un sospetto, un malestare mai provato. In qualche anfratto della sua testa prese ad apparire la cometa di un pensiero negro e piuttosto antico per la verità; che la cometa non fosse né il punto geografico di betlemmi e mangiatoie, né un semplice fenomeno celeste; ma propriamente il simbolo di una sventura appunto, pronta a cascarti in un quadrante incerto tra collo e capo. È difficile da dire perché in un uomo rettangolare come lui potesse formarsi un pensiero così a zig zag – avrebbe scritto un giorno uno scrittore birichino –; difficile e forse impossibile. A dar retta a Enea, questo accadeva dopotutto solo perché aveva voglia di accadere. Quando il figlio Attico, che studiava medicina a Vienna o giù di là, venne a trovare i genitori per le accademiche vacanze  trovò il padre come non l’aveva mai visto prima, cupo e fisso sul pensiero e nell’attesa che qualcosa di grave fosse lì lì per accadere così che beveva come mai aveva fatto. Grappa. E la madre, fosse il figliolo prodigo oppure no,  chiusa nella sua stanzetta a delirare.

La sera della vigilia di Natale, gran luci di candele alle finestre di ogni casetta del paese, soli nella grande casa in cui ogni tanto risuonavano le smanie della madre, seduti al tavolo in una splendida cornice di piatti scintillanti e di posate buone, il figlio sorseggiando un vinellino d’Ungheria, disse al padre, Padre mi stai diventando superstizioso o è che forse il male dal cervello di mia madre sta emigrando… disse così  ridendo un poco e senza chiudere la frase né propriamente con un punto di domanda né con un punto quale fosse. A cena terminata entrambi si augurarono buon sonno e ah sì buon natale. Cioè no. Nella notte e in mezzo alla neve, che per l’occasione turbinava, il vecchio Enea uscì di casa con la bottiglia della grappa in tasca. Andò dritto alle stalle e passò in rivista tutte le sue belle mucche. Ahi ahi ahi ahi che muggiti e che febbre;  in ognuna scorse i segnali che preludono a un male, l’afta da Aphtovirus, famiglia delle Picornaviridae. Enea fu preso dall’orrore e perse quello che della testa gli restava. Passò per ogni posta a parlare alle sue vacche, le poverette  parvero gradire che a ciascuna egli dicesse una parola buona cercando in tutte altri segni del male. Poi corse in casa a prendere il fucile e poi, una per una, bam bam bam scarica e carica scarica e carica, Enea piantò loro in capo un proiettile accurato, bam bam.

Poi, diede fuoco alle stalle e partì verso la montagna; a mezza costa si fermò a guardare, sentì suonare le campane che chiamavano a raccolta, fermo nella neve vide l’agitazione di minuscole formiche, si levò  berretto e guanti, la giacca e gli stivali, poi prese a bere grappa a canna dalla bottiglia che portava con sé e si sedette nella neve finché il gelo non lo congedò dal mondo. Perché fece così nessun lo capì, i preti tutti e tre ebbero in proposito la teoria più consona al loro credo. Del fatto fecero l’adeguata pubblicità per rinforzare nel paese la fede in un bijeboje dai pensieri oscuri e indiscutibili e infine tutto tornò come prima. Tranne che per il figlio. In men che non si dica il giovane vendette casa e boschi, in parti eguali non diciamo a chi, fece le valige e con la madre appresso abbandonò il paese e più non vi tornò. Fatti non foste per farvi congetture.

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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