3a Puntata
Ma dove l’è il Pinìn ma dov’è’l Pinìn dov’l’è dov’l’è. All’incirca come ne La Scomparsa di Patò – ay Camilleri ay – Pinìn, il, Pinìn arrivato ed entrato in un suo decennio non identificato scomparve. Fatto, antefatto ed epilogo. Per chiarire da subito la cosa, intorno a questa scomparsa non se ne sa più oggi di quanto nelle congetture di ieri. La polizia all’opera fece le indagini sue proprie e di là dalle indagini passò a conclusioni nulle ; un avvocato di famiglia sì e no, scrisse, parlò, indagò a sua volta, interrogò chi di dovere e anche chi non aveva alcun dovere, pagò mance e bakschisch, viaggiò di qua di là sempre con la scarsella generosa per ottenere bruscoli avari di notizie. Poi amen e arrivederci. Ma dove l’è il Pinìn ma dov’è’l Pinìn dov’l’è dov’l’è fu la tiritera appresa e fatta circolare da tutte le bocche di tutti gli apparenti parenti, cugini e zie, coniugate e non Di Curzio ; continuò a scorrere come il vino nei raduni domenicali e festivi collettivi e per un bel po’; e l’impossibile replica e ogni tanto una nuova congettura afflissero per il lungo e per il largo babbo e babbà, sulle labbra dei quali la tiritera alla lunga si appannò come sul filo del gelo un vetro. Alla Despina, la madre, le viscere tremarono a lungo e con qualche ragione al pensiero – ché si pensa anche con l’intestino dicono e non per scherzo – al pensiero che il suo omariello fosse finito, anzi che in senso proprio fosse stato finito, ossia terminato da un una divinità avversa e magari armata di coltellazzo da gola non di falce. Despina maritata Di Curzio era, in quanto e non solo in parte neaopolèa, era in buona sostanza pagana più che animista, e i nomi cattolicissimi che la sua e la fede popolare generale avevano attribuito e importato nei secoli nel pantheon degli antichi per kelle terre e kelli fini erano solo una copertura per chilli divi dal carattere e dall’agire misterioso e inspiegabile, vanitoso, crudele, come chilli d’o’mero. In testa alli quali sta, presente e indicativo, il loro prìncipe ereditario, il figlio per sempre trafitto, irredento e buggerato dall’indifferenza dell’eternità, lo spiritus Dei che ferebatur super aquas. El filius intanto che pendebat pure presiede(va) una tavola calda di santi, ognuno con una sua funzione di servizio o accudente, una sua abilità e per contrappasso una sua antipatia e un suo limite, non disgiunti da un’attitudine a nuocere in ragione delle preferenze che ciascun santo o santa accorda(va) a questa o a quella pia e senza ragioni proprie ; il cosmo dell’antica e della nuovamente declinata Magna Grecia, benché non del tutto femminile per genere, per caratteri e aspirazioni femminili prevale, sì che la componente maschile pare trascurabile, ma non abbastanza da starsene quieta ; quando un qualcuno intuì che dio lassù in alto è madre, perlomeno madre, qui in basso, in una congerie paternalistica di padri, si poteva mica transigere ; le donne, maltrattate e trattenute per abitudine in un purgatorio senza redenzione, o in un’anticamera dell’inferno nella comune vita terrena, si vede ovvero parrebbe abbiano sempre intraveduto, e intravedano, un mondo di possibilità segrete al di là di quel mondo di frustrazioni, fustigazioni e pugnalate, un mondo tuttavia frutto di superstizione e speranze che della superstizione sono il sostegno ; Maria mater dèi era del resto la capa di un gineceo di patrone e matrone appisolate a ogni cantonata, risalente per lo meno a Rea Silvia e che riscuoteva la fiducia ottenebrata di Despina. Col beneplacito dei padri della chiessa.
Il Di Curzio padre invece più che alla comunione dei santi pensò allora che, a saperne qualcosa dei quel suo figliolo smarrito, fosse utile rivolgersi al ministero della difesa da cui peraltro ottenne l’equivalente delle preghiere ovvero delle risposte famobbenefratelli: stiamo provvedendo stia sicuro che luce sarà fatta con ogni mezzo ; il tono fu poco convinto e di conseguenza poco convincente per il Di Curzio che, d’altronde, all’Esercito Italiano come comunione di santi non credeva ed era, per sentimento acquisito, poco portato a dargli credito, come se si trattasse di una declinazione di quell’esercito regio e savoiardo che, a suo tempo e come cattivo pagatore, si era sostituito a quel puntualissimo imperial e regio e austro e ungarico, el del Radèzchi, di cui lui Di Curzio in persona non poteva avere nessun ricordo e nemmeno tanto suo padre, il nonno di Pinìn lo degli scaracchi in secchio, ma che nell’epica di famiglia era una costante, con variabili e addenda, e sempre epitome di onestà e puntualità ; del resto si narrava a veglia e fu pur vero che fino al 1918 e alla fine di una vita spesa nel lavoro il suddito asburgico riceveva il giorno appresso la sua liquidazione in fiorini d’oro ; al contrario il Di Curzio sapeva fin da giovane che la pensione della Repubblica italiana, vabbè due euro però mi fa comodo, e mica ci avrebbe rinunciato nonostante la pensione vera che si è costruito nel tempo a furia di fatture di comodo e fondi edge-or-not-edge ; né del resto avrebbe rinunciato di recente alle previdenze dello Stato durante la pausa Covid – tutti in cassa integrazione i suoi cinque dipendenti e a lui di persona personalmente qualche bajocco per mancato guadagno, vabbè due euro però mi fa comodo – so ist es auch im Leben. Non ancora pronto per il ritiro dagli affari, anzi proprio in virtù del fatto che era ancora in attività e che, dopotutto, poteva vantare un titolo repubblicano, ossia cavaliere del lavoro, il Di Curzio provò a rivolgersi anche alla Farnesina, quella degli affari esteri ; ma anche lì nonostante intonazioni e stile diversi dal militaresco fu accarezzato dagli stessi stiamo provvedendo stia sicuro che luce sarà fatta con ogni mezzo. Unica variante : cavaliere… in questo momento stesso un nostro funzionario… asserzione rispondente a un fatto e che per davvero aprì all’avvocato di famiglia sì e no e per un poco uno spiraglio di… ma appena dopo, hmm.
Il Di Curzio babbo poi, giunto più tardi all’età dei racconti accanto al fuoco anche in carenza di camini o stufe, ricordava che secondo lui tutto, dove per tutto intendeva lo scarligamento del figlio Pinìn nel dove si sa mica dove, ricordava che tutto era cominciato in un dicembre al piombo di quelli di quando in città ancora faceva freddo, un freddo ad aghi di nebbia, di asfalto vitreo, di stare attenti a uscire nel cortile del magazzeno all’alba che anche lì c’era di scarligazzi il pericolo ; tutto, un po’ prima quindi che si avverasse l’odierna e duplice inversione, di clima e percezione, quella che fa dire a tutti va’ che bella giornata nei primi gennài con ventuno gradi, e all’ombra di vette secche come mammelle esauste. Orbene in quel dicembre, narrava ti dicevo il babbo, Pinìn si era impallinato, certo in ritardo di un trentennio sulle loro apparizioni, con i film di Bruce Lee – ohi ohi L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente –; sicché gira e rigira in un oscuro sito industriale Pinìn aveva trovato, si era avvicinato e iscritto nella scuola di Kung Fu fondata e retta da decrepito maggiore dell’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek che da laggiù a Taiwan vai a sapere perché se n’era venuto poi a Milàn a portar’ lo Shaolìn. Il babbo precisava pure che Pinìn dopo la terza media si era confermato nella sua primitiva intuizione di bambino, ossia di poco adatto a qualsiasi tipo di studio che non fosse una pratica senza grammatica, diceva a suo modo e non senza esattezza il Di Curzio. Tuttavia, intanto che faceva il magazziniere di famiglia, passato come apprendistato regionale e quindi come studio a tutti gli effetti, non che Pinìn disdegnasse del tutto la lettura tota, ma questa era funzionale ai suoi mutevoli interessi, e momentanei e imprevisti quanto erano o non erano. Sicché la vista di una stellata primaverile allo Spluga – inquinamento luminoso al minimo – lo aveva portato a leggere di astronomia e tanto meglio, nei pomeriggi domenicali d’inverno, a frequentare il civico planetario a riveder le stelle ; gli piacque anche collezionare minerali, ovvero sassi che confrontava con le foto di un manuale Hoepli ; in pianura trovava pietre che si sa impossibile somigliassero a quarzi ialini, ametiste o anmmoniti ma sì qualche volta dalle vacanze alpine traeva piccole soddisfazioni mineralogiche, un pezzetto di feldspato, una porzione di amianto, un quarzetto con una venuzza di pirite che lui scambiava per oro e ne era contento. Ci fu anche il periodo della fotografia ; al compleanno gli fu regalata un Leica M2 d’occasione che il babbo Di Curzio comprò con tre obbiettivi e una scatola di pellicola, Perutz, da un suo cliente che lubrificava con un suo petit commerce la già buona paga di corista alla Scala. Dai manuali su cui si documentava, dalle letture che tuttavia faceva nonostante lo scarso portato e lo scetticismo con cui le postillava di sì ma in pratica balle, e anche a scuola fin tanto che la frequentò, Pinìn era uno che capiva come decollare ancora prima di avere pigiato l’accensione e come atterrare mentre era ancora in volo. Grazie a quest’intuito che lo favoriva, a questa abilità nel moltiplicare ics per sé stesso per enne volte, di tutto il tutto si faceva persuaso di aver capito tutto ; ciò non gli evitava, né gli evitò, di cadere ovviamente in errori grossolani e in convinzioni discordanti o campate per aria. Per esempio, ricordava sempre babbo Di Curzio, dai colloqui con i genitori a scuola risultava che Pinìn a dieci anni era tipo da non aver ritegno a contraddire l’insegnante di turno, talvolta a ragione, talvolta per i più futili motivi e su per i bricchi dei più peregrini argomenti ; gli piaceva anticipare, andare contro e fuori tema, spessissimo e solo per il gusto di fare così, non afferrando però che a scuola gli insegnanti non sono lì esposti al dibattito, o alla scherma, ma alla fornitura di risposte a domande informulate, e che si pretendono patrimonio comune. Peraltro non gli era chiaro che per dibattere occorre dotarsi degli strumenti adatti. In definitiva, gli insuccessi scolastici portarono Pinìn, rammemorando la sua prima asserzione circa il suo futuro da grande, a dirgli, ai genitori, A scuola basta voglio lavorare nel magazzeno io, l’ho detto una volta ed è la volta buona. Siccome ai genitori era noto che Pinìn di radèrrimo si dava per convinto di poter uscire dai binari di un suo primo whatever, qualunque fosse l’occasione che lo avesse generato, fu così che gli lasciarono indossasse la gabbanella grigia da lavoro ; e fu affidato alla tutela del signor Attilio, l’anziano proto magazziniere, conoscitore di ogni loculo, scaffale, armadio e di ogni pezza, taglio, avanzo o scàmpolo di stoffa in deposito. Pinìn fu da subito felice di tutte le pratiche connesse al suo officio, consegne in motorino incluse, e crescere cresceva con lentezza e alla fine dell’età, detta appunto della crescita, risultò alto centimetri centosessantasette, non uno di più. Ciò nonostante, all’età giusta per il servizio militare, non per molto ancora ma a quel tempo obbligatorio, Pinìn fu vagliato dall’apposita commissione medica e considerato abile ; arruolato, partì lontano a custodire i confini orientali della patria. Però, prima che questo accadesse Pinìn, piccolo, magrissimo e si scoprì agilissimo, ebbe invece un successo personale in quella scuola di Shaolin in cui gli adepti del mmaaeestro scimmiottavano con aria fumata un rigore confuciano, e imponevano la disciplina dell’abito bianco a ragazzi di periferie tracagnotte, a fanciulle incarognite e a biondini in Vespa cui facevano sorbire tiritere di una loro fisiologia esoterica e di una filosofia detta cinese, così che imparassero a fare saluti e inchini, a giungere le mani e, per tutti non trascurabile vantaggio, a lavarsi i piedi ; vabbè Pinìn divenne un mago dei calci volanti e di ogni genere di quelle che a tutti gli osservatori parrebbero acrobazie ; stante la sua bassa statura e un’elasticità di scimmia, gli riusciva di confondere gli avversari e di ribaltarli con un dito. Poi si passionò e lesse i libri di Mìrcea Eliàde e si disorientò di oriente, tantra, mantra e chuchundra, Kipling e yoga del sesso, Gurdjieff, sette anni nel Tibet e il mattino dei maghi, cose così. Da militare divenne in breve l’idolo della sua compagnia ( la parco, ossia del parco automezzi ndr), un po’ perché preso di mira, subito ai primissimi tempi da dei bulli per vocazione, i nonni come approfittavano di chiamarsi ; sicché in una notte di giù dalla branda spine – un malvezzo notturno con cui si obbligavano le giovani reclute, le spine, a marce in pigiama e scarponi lungo lungo i corridoi della caserma – ebbene, Pinìn disse, No col cazzo, affrontò serafico un caporale maggiore e i suoi giannizzeri ubriachi e, in una specie di disfida di burletta, a tutti insieme alcuni ne slogò, altri martellò ben bene di calci un po’ ovunque e senza nemmeno tanto sudare ; nella compagnia si innescò una gara a regolare conti. Pinìn dapprima fu eletto dai compagni istruttore di arti marziali en cachette poi, visto che pur tuttavia trattavasi di marzialità, il comando pensò che quel genere di evoluzioni nel corpo a corpo fossero utili allo spirito del corpo e gli assegnò il compito ufficiale di fare un po’ di scuola.
Le testimonianze postume raccolte tra i compagni, dicono tutte che Pinìn sarebbe stato nato per l’esercito e l’esercizio delle armi. Gli piaceva la divisa a lui ; per la cosiddetta libera uscita gli altri non vedevano l’ora della doccia, sommaria per molti, a trarre dagli armadietti di metallo gli abiti loro civili, si sa, scarpe ginniche, jeans e un sopra secondo stagione ; si vergognavano i più della divisa che li qualificava, questa la voce comune, come sfigati, gente che una tipa non avrebbe nemmeno guardato in tralice, un approccio fisico figurarsi – puzzi di caserma che fanculo –. Pinìn no, macché, usciva dal quartiere del centosettesimo pionieri alle sei con la sua bella divisa ben stirata, la camicia impeccabile, la cravatta annodata stretta intorno al collo intriso di eau sauvage ; dal maresciallo di sartoria, un baffetino sottile e pugliese, prossimo alla pensione e affezionato alle belle cose del tempo che fu, si era fatto persino imparare il nodo detto Windsor, o scappino, e con quel nodo Pinìn si sentiva il principe di Galles in visita alle sue truppe. Gli mancavano all’inizio i gradi ma quando fu fatto caporale, ah, vederlo come ne andava orgoglioso delle sue spalline fregiate. Il detto siamo uomini o caporali volgeva per lui a siamo uomini in quanto caporali. Della milizia tutto gli piaceva, il fazzoletto coi colori del battaglione, nero e bordeaux, il basco con lo stemma, l’obbedienza meditata, la necessità del comando, quando sul tappeto dell’arte e nel piccolo orto del caporalato gli fu dato di comandare. Comandare e ubbidire erano per lui un binomio algebrico, ineludibile, insolvibile. Nella divisa si sentiva bello, più bello che a cavallo di un motorino da fattorino magazziniere se vuoi scopare ; più adatto quindi a broccolare e, soprattuto, più alto. Un angolo del suo cuore pompava inoltre la fierezza di un servitore dello stato, di un difensore – difensore di qualcosa, specie di paladino, paladino di frangia.
Insomma a Pinìn tutte le regole militari, i sssissignore-signor-capitano, la perfezione regolamentare del cubo di coperte e cuscino ai piedi del materasso sulla branda ogni mattina, le corvé e i pao, ah i pao, picchetti armati ordinari lungo il perimetro della grande muraglia di calcestruzzo che cingeva i quartieri, tre, e lo sconfinato parco mezzi del battaglione, anche autogru e gettaponti, quel camminare per due ore nel freddo col fucile sotto braccio, e poi dormire e poi svegliarsi e sotto le stelle di nuovo, aveva, senza che lui se ne volesse rendere conto, chissà un che di byroniano. Fatto sta che alle esercitazioni brillava Pinìn, conquistò senza difficoltà la patente di guida per gli autocarri, cosa che gli piaceva una cifra. E poi la rivelazione ai tiri su per le balze prossime alla ex cortina di ferro e che inspirava però aria di europa. Minchia Di Curzio, un terrorista sei, esclamò un tenente di Catania dopo il primo caricatore da otto di settesessantadue : a colpo singolo Pinìn a trecento metri mise tutte le otto palle a segno, cioè al cuore e alla testa del bersaglio. Poi, di 20 colpi a raffica, cinque si perdettero nel campo di tiro ma 15 segarono la testa della sagoma. In quell’anno di leva ci fu infine l’evento spettacolare, la decorazione e il passaggio di grado. Durante un notte di pao nel buio più buio e lontano del perimetro di mura, arriva a luci spente una jeep, si ferma a un cinquanta metri dal picchetto e qui sfanala di colpo con gli abbaglianti, qualcuno in vena di sciocchezze scende, grida qualcosa nel cono nero di là dai fari ; è un’ombra e dalla voce si capisce che ha bevuto. Alto-là chi-va-là-parola-d’ordine, grida Pinìn e al suo compare di pao soffia, Tu mira ai fari, e già imbracciano il fucile. Mavalàcoglionisonoio. Altolàchivalà…altolàfermosparo. Trink trunk ecco il proiettile in canna e Pinìn in ginocchio in posizione di tiro. L’altro ragazzo trinketetrunk anche lui e punta. Altolàchivalà…altolàfermosparo. Bang e krling clinks uno dei fanali della jeep e zang e, ah porca di quella troia stro… ma stunf. Cadde lo spiritoso, o la carogna non fu chiaro, un tenente in servizio permanente, preso dal preciso Pinìn tra clavicola e succlavia, là da dove arrivava la voce e da una seconda palla che la clavicola frantumò. Un po’ più a destra avrebbe centrato la trachea e sbriciolato la colonna cervicale. Fu fortunato il tenente. Pinìn e compagno furono decorati nel piazzale del comando territoriale, truppa schierata, guanti bianchi, capitani, colonnelli, un generale, medaglia, encomio, rinfresco e caporal maggiore, a un passo da graduato si volessero raffermare, Bene – due parole a parte del colonnello comandante il battaglione 107 – Lei ha un talento naturale firmi per la ferma e la mandiamo alla scuola per tiratori scelti… è un’opzione di lavoro e di carriera. Pinìn fu attraversato da un cinema di sprizzi e scoppi e polveri e fumi tra i quali intravide levarsi l’immagine icsicselle del nume Destino. E si rafferma. Poi scuola di sniper. Lì superò il test del bersaglio a mille metri, poi a milleduecento – dai da stare lì a guardarlo come sparava se non come un dio, come un angelo… io ti pentirò – indi indi in un dì di vento avverso bucò per scommessa un bersaglio a duemila metri. Come calcolò il tiro non si sa. Pinìn c’è da dire era astemio. Mai toccato alcool che credeva una scemenza, un addiction. La gente vai che muore più per il vino che per il fucile.
Saluti da Kabul saluti da Beirut saluti, un ricordo e abbraccioni dadadadà… sfilano in bell’ordine nella credenza della sala da pranzo le cartoline e la buste della posta militare spedite alla signora Despina Di Curzio da Pinìn figlio. Tutte cominciano con cara mamma, io sto bene e così spero di te e del papà, tutte finiscono con bacioni tuo – no vostro – Pinìn. Tra le due espressioni di vago affetto brevi sequenze di un niente generico, con una grammatica e un’ortografia nella norma ; epistolario senza scosse arrivato da una geografia traballante, non sempre riferibile a una qualche missione di pace nato nota. Si seppe dalle indagini e dalla congetture che a un certo punto Pinìn aveva superato il muro dei duemilatrecento metri al tiro e gli esami di inglese. Che per questo una società di contractors, di Londra, la F&F – che però non significava fast and furious ma qualcosa d’altro che non si doveva sapere – lo aveva contattato e contrattato. Fu a partire da quella occasione che Pinìn si dissolse lungo le vie della posta ordinaria. L’avvocato dei Di Curzio crede di aver potuto affermare alla fine che Pinìn da qualche parte sta, mirabile congettura, è vivo forse in Giappone, a Singapore, Sumatra, forse in Corea, sposato non è chiaro, abbastanza ricco, fa la sua vita, ma, ecco il punto, tornare da dovunque sia non può. Di lui l’avvocato è riuscito a recuperare qualche istantanea. In una di queste, la più recente, Pinìn sfoggia per l’occasione dei baffi che vogliono sembrare veri, dei profondi occhiali da sole Persol, un spezzato sobrio, autunnale, un tweeddone sopra con pantaloni di un vellutone a coste sotto, ricordo dei tempi da magazziniere chissà. Ora, tutta questa storia non è altro che l’esposizione di quelle che, anche a volere aggiungere l’avverbio altrimenti, non sono da considerare che serie di coincidenze, le stesse che fanno di ognuno di noi coincidenze in serie ; dunque, ti raccomando di non pensarla per nessun motivo una metafora ovvero, se si vuole giocare al gioco delle parole, accetta che sia mèta senza fòra e che non nasconda un senso che a nascondersi giochi tra le righe. Ti sia chiaro. Fine.