Autore: Marco Tullio Cicerone
Titolo originale: Laelius de amicitia
Anno di composizione: 44 a.C.
Edizione usata per la recensione: BUR, Milano, 1985, a cura di Emanuele Narducci, traduzione di Carlo Saggio
Oltre ad una quantità indefinita di temi composti fra la fine delle scuole elementari e l’inizio delle medie, opera indefessa di autori rimasti oscuri al grande pubblico, la questione sulla vera amicizia ha anche fornito materiale a testi degni di memoria (pochi), fra i quali spicca il Laelius de amicitia, uno dei dialoghi più famosi di Marco Tullio Cicerone. In realtà, più che un vero e proprio “dialogo”, si tratta di una sorta di monologo che nella finzione letteraria è tenuto, al di là di alcune battute iniziali, da Lelio, un eminente uomo politico romano molto vicino a Scipione Emiliano.
Il valore aggiunto di questo volumetto, piacevole lettura di un pomeriggio, è l’osservare come un peso massimo della cultura e della retorica d’ogni tempo se la cavi con un argomento ampiamente inflazionato, e che pure si presta a riflessioni assai profonde, essendo centrale nella vita di ciascuno, al punto da spingere a ritenere che «ad eccezione [della virtù], niente vi sia di meglio dell’amicizia» (XXVII, 104).
In più, come accade per molte opere antiche di dotati autori, anche questa si presta bene a raccogliere frasi e citazioni memorabili, da spendere per impreziosire i dopocena, nel caso dei tradizionalisti, oppure da regalare sui social network, nel caso dei più aggiornati: ad esempio il celeberrimo «Amicus certus in re incerta cernitur» (“L’amico sicuro si riconosce nella situazione incerta”, XVII, 64, in realtà ripreso da Ennio), che con la figura etimologica fra certus e incerta e la forza della assonanza triplice di “cer” non si può nemmeno paragonare a “L’amico si riconosce nel momento del bisogno”, sebbene abbia lo stesso significato. Quindi, si tengano a portata di mano taccuino e matita per tutta la durata della lettura!
Questo approccio, tanto apprezzato nel Medio Evo, è però solo un livello di lettura e non ci deve indurre a pensare che il De amicitia sia una sorta di florilegio di frasi ad effetto. Cicerone, che è un artista della retorica, sa che queste, insieme ad aneddoti storici e citazioni letterarie, sono necessarie a “fissare” nella memoria i concetti fondamentali, ma le tratta alla stregua di monumenti, utili punti di riferimento sulla via di una riflessione (sebbene a tratti non del tutto organica, come vedremo) improntata ad un robusto realismo: in fondo, non è un filosofo greco, ma un uomo politico romano, e di conseguenza guarda, prima ancora che alle considerazioni teoriche, agli esiti pratici.
Primo fra tutti: non è che, affermando l’assoluta importanza dell’amicizia, si giustifica chi, da una posizione di potere, “dà una mano” agli amici, agli amici degli amici e così via? Grande modernità dei latini! La loro società ed i suoi problemi ci paiono così attuali: allora come e più di oggi, molte amicizie fra i potenti erano coltivate o millantate al solo scopo di favorire la propria carriera politica o l’interesse economico (e il nostro autore lo sapeva bene per esperienza diretta).
In verità, sostiene Cicerone, il bene dello Stato deve sempre essere considerato superiore al bene privato, quindi anche a quello degli amici. Del resto, un vero amico non potrebbe mai chiedere qualcosa di non onesto. Perché? Perché, e questo è il centro dell’idea ciceroniana, l’amicizia è possibile solo fra virtuosi: «esempio di virtù, non compagna di vizi ci fu data» (XXII, 83). Insomma, non è davvero facile potersi dire amici: ci sono molte finzioni dalle quali guardarsi, e in particolare da coloro che cercano la familiarità per il proprio utile, magari adulando, o quelli che sono solo compagni di crapula e di vizio. Di tutti questi, proprio non ci si può fidare, perché «obsequium amicos, veritas odium parit» (“L’ossequio genera amici, la verità l’odio”, XXIV, 89).
Il problema, per noi lettori, è aggravato in quanto Cicerone è assai sapido ed efficace nel delineare le amicizie false o pericolose, ma non è altrettanto efficace nel definire, in positivo, in cosa consista un simile sentimento. Il libretto, di fatto, risulta polemico, con un autore preoccupato soprattutto di denunciare vizi e difetti imperanti, anche a volte sacrificando in lunghe digressioni lo sviluppo organico dell’opera.
Quando Cicerone prova a definire l’amicizia, risulta come «omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio» (“un perfetto accordo nelle cose divine e umane, unito con un sentimento di benevolenza e di affetto”, VI, 20), ma è qualcosa di così paradossale che «et absentes adsunt et egentes abuntant et imbecilli valent et […] mortui vivunt» (“gli assenti sono presenti e i bisognosi sono ricchi e i deboli sono validi e i morti vivono”, VII, 23): la serie di ossimori sottolinea bene il carattere sfuggente di un sentimento che, in fondo, ha valore proprio quando e perché non si basa sulla razionalità.
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