Autore: Sabbatini Walter
Casa Editrice: Casadei
Genere: Romanzo
Pagine: 312
Prezzo: 14.90
La narrazione sensoriale avvolgente di questo romanzo cattura fin da subito l’attenzione del lettore che si trova a leggere ogni capitolo come se fosse un affresco ricco di sfumature che danno vita a colori cangianti. Il Casolare della Serpa, antica osteria di pianura che riflette gli umori della natura e dell’ambiente fluviale che ha accanto, è lo scenario dominante in cui si muovono i padroni della locanda e i suoi avventori che fanno del piacere della tavola una massima di vita. Pagina dopo pagina, ci si ritrova ad osservare da vicino l’affascinante ostessa Amalia Morosini – attorno a cui svolazzano molti “calabroni” – e il fratello Genio che si occupa della cucina, uno l’alter ego dell’altro anche nel ricordare il rapporto con il padre Fervido che ha avviato la locanda. Quasi sorprende il modo così argutamente femminile in cui l’autore ha tratteggiato Amalia, che spesso rievoca con nostalgia movimenti, parole e atteggiamenti del padre che amava leggere e documentarsi. “Il gusto, in lei, era una capacità umana interamente dedita alla convivialità” (p. 14).
Alla Serpa si riunisce l’allegra brigata dei Giustizieri Nuovi, che ama il cibo e disquisire sull’essenza delle vivande e ciò che più delizia il palato: attraverso di loro l’autore ci permette di leggere piacevoli intermezzi filosofeggianti sul piacere culinario. Vi è poi la matrigna Cecilia: la donna, dapprima descritta come una macchiolina che sferza il quadro con toni acidi, con l’incresparsi della routine alla locanda si fa fiabescamente dolce con un sorriso velato di ironia e mistero. La vita di Amalia si scontra e s’intreccia con quella di Paolo Vantapane, suo storico spasimante che tenta di riconquistare un improbabile amore e tende forse un po’ troppo ad attorcigliarsi sui suoi pensieri. Figura chiave è Bart che, con la sua riservatezza ed il suo vivere in modo distaccato, riesce ad intrigare Amalia: “Sì, era bello stare ad osservarlo. Gli occhi, però, erano ristretti e appiattiti. Magri. Spenti. Occhi che, infedeli alle loro più naturali competenze, impedivano la leggibilità di quel viso, lo rattrappivano e ne asciugavano l’umanità” (p. 41). Amalia, guardando quegli “occhi magri”, si innamora di Bart ma lo ammette lentamente a se stessa. E’ l’arrivo di quest’uomo “senza pretese” che dà movimento alla scena e smuove le trame delle vite di Amalia e Paolo; in un crescendo di sensazioni, l’ostessa arriva però anche a vedere Bart sotto una luce che incute paura e dalla quale vuole fuggire per tornare ad una sorta di silenzio interiore che la mette in comunicazione con i suoi desideri più autentici.
Gli occhi magri è un romanzo che parla di cambiamenti, cammini di crescita attraverso gli incontri e di passioni, un romanzo in cui nessuno alla fine sarà come era all’inizio. E alcuni interrogativi nasceranno anche al lettore. Non ci si aspetti il classico happy ending perché sarebbe banale e forse irreale per questa composizione di personaggi. L’inizio è particolarmente coinvolgente dal punto di vista narrativo ed i capitoli (ognuno introdotto da un titolo) sono ben cuciti tra loro, ma due o tre a metà dell’opera si presentano come una parentesi che pare smorzare l’incedere della lettura; il ritmo incalza invece nell’ultimo centinaio di pagine, caratterizzate da una maggior immediatezza. Colpiscono soprattutto la notevole cura nella descrizione dei dettagli e la ricchezza lessicale. Linguisticamente, davvero piacevole.