Massimo Roscia ha un sogno: riportare la lingua italiana sulla retta via. Esiste forse un modo migliore di un libro per riuscire nell’impresa? Nasce così La strage dei congiuntivi edito da Exòrma, un romanzo paradossale e divertente, una scrittura ineccepibile che diventa una vera delizia per la lingua. Noi abbiamo avuto il piacere di incontrato al Salone del libro, dove ci ha dimostrato che salvare la nostra lingua è possibile.
La strage dei congiuntivi, un titolo che lascia presagire un thriller o un noir che poi scopriamo essere scritto in chiave comica, come mai hai deciso di unire due stili così diversi per il tuo romanzo?
A rappresentazione letteraria della mia esistenza, è quasi una componente biografica, sono un personaggio da noir ma adoro sorridere e ridere. Non è un saggio, ci muoviamo in un altro genere che è appunto il romanzo, le tinte sono quelle proprie di un noir con una serie di delitti dove i confini tra bene e male di sovrappongono fino a scomparire. I lettori si immedesimano con questi bizzarri protagonisti che amano la lingua italiana fino al punto di ricorrere alle armi pur di difendere la sua integrità.
I personaggi, come ben hai detto anche tu, possono essere definiti bizzarri. A chi ti sei ispirato per rappresentarli?
Per scrivere un romanzo una componente essenziale è quella dell’osservazione e dell’esperienza, un’osservazione ahimé quotidiana perché basta ascoltare un dialogo ad un incrocio, o al bancone di un bar, leggere un giornale, vedere un telegiornale, essere presente in aula durante una lezione. Accade a tutti i livelli questa ignobile perpetrazione di una delle lingue più belle del mondo, e viene fatto da giornalisti, da rappresentanti delle istituzioni , da politici, da assessori alle politiche culturali. Tra l’altro un assessore alla cultura è proprio una delle prime vittime di questo sodalizio, e viene massacrato barbaramente con un bastone di legno di Olivo legno sacro ad Atena, dea della saggezza e patrona delle arti.
Possiamo quindi dire che questo non è un semplice romanzo da leggere per passare il tempo, è una vera e propria critica alla nostra società.
Volendo ampliare la metafora direi di sì, questo gruppo di persone si uniscono per difendere l’italiano combattono lo scadimento lessicale e il pattume semantico ma, non è solo questo. Se vogliamo allargare l’orizzonte di questa metafora c’è una crisi di valori, una crisi culturale profonda che non è soltanto nella produzione di un linguaggio che sembra più un susseguirsi di codici fiscali, di k che prendono il posto dei ch, di congiuntivi invertiti con i condizionali di gerundi sfregiati. La lingua non solo un insieme di codici e sottocodici, la lingua è tutto: amore, passione, poesia, è storia, è famiglia, è appartenenza, è identità, la lingua è patrimonio culturale.
Ma non credi che avendo raccontato questa storia in chiave comica possa, in qualche modo, essere sottovalutata dai tuoi lettori?
Purtroppo la salsa che arricchisce questo manicaretto letterario è una salsa agrodolce, a detta dei lettori sì ci sono dei passaggi che divertono e rallegrano, ma che generano rabbia e fastidio quasi epidermico. Quindi c’è questo sottofondo amaro.
Chi credi che siano i veri responsabili di questa strage? E chi o cosa può salvarci?
I responsabili siamo tutti noi, è un reato collettivo che lo stato, la società, la scuola, la famiglia e noi stessi sviliamo la lingua, la sottoutilizziamo e ci accontentiamo di settecento termini quando ne abbiamo cinquanta-sessanta mila. È una continua epifania di “stò” (con l’accento), “qual’e” (con l’apostrofo), “pultroppo” con la “l”. Sono comunque molto importanti i contesti linguistici, io non sono un purista o un reazionario, la lingua cambia è figlia del tempo si apre si contamina si arricchisce di tecnicismi, di neologismi. Dipende sempre dal contesto: “ke” scritto su un messaggino tra due giovani adolescenti al limite può passare, su una tesi di laurea no! Va bene il gergo, la battuta ma fino a un certo punto perché quello che accade è che “pultroppo” lo leggiamo su un quotidiano, con la convinzione da parte dell’autore che “pultroppo” sia la forma corretta. Chi potrebbe cambiare le cose? Beh, gli stessi responsabili, noi tutti. Leggendo, rinnamorandoci di questa lingua così bella, così ricca, così profonda, così sensuale e musicale. Ma anche attraverso lo scambio, il dialogo che usiamo poco e purtroppo lo usiamo male, dobbiamo riappropriarcene.
Perché secondo te si è perso l’amore per la lingua, per la nostra lingua?
Per tanti motivi, qualcuno la banalizza dicendo “per semplificazione e praticità”, io aggiungo per pigrizia, per ignoranza, per saccenza, per snobbismo perché non ce ne accorgiamo ma facciamo male a noi stessi. Leggiamo poco, pensiamo poco, scriviamo poco e parliamo male.
Chi credi che abbia più bisogno del tuo libro? Le nuove generazioni il pubblico di adulti?
Parlo con il conforto di una base empirica, secondo le statistiche di vendita è un libro longitudinale che interessa a tutti dal punto di vista anagrafico, culturale e sociale. Forse la motivazione è che ci sono diversi livelli di approccio alla lettura e alla storia, che ha un ritmo divertente e che garantisce un livello minimo di soddisfazione. Il giovane si riconosce nel luogo del “tvb”, salendo di livello la lettura diventa più ostica la lettura perché io sono un adoratore della finzione, dell’inganno, dei falsi indizi, e chi accetta e si ritrova in questo trova la soddisfazione più ampia.
Ma ci sono degli scrittori che potrebbero aiutarci davvero a riscoprire l’amore per la nostra lingua e chi ti spiri tu quando scrivi?
Di solito mi diverto a inventare i nomi degli autori, però per me l’autore degli autori è Benjamin Costance Chambellen con il libro “io sono io”.