A tu per tu con… Fulvio Ervas

Una chiacchierata –seppur telefonica– con Fulvio Ervas, autore di “Se ti abbraccio non aver paura”, ti arricchisce, ti sorprende, e apre orizzonti inscindibilmente complementari alla sua opera letteraria. Un dialogo cordiale e rivelatore, nel quale si è parlato di autismo, scuola, scrittura, metafore, ma soprattutto di coincidenze. Partendo da quella che ha portato alla stesura del suo ultimo libro.

Come nasce questo romanzo? Intendo dire, la sua produzione precedente non ha molti punti di contatto con quest’opera, sia per l’argomento sia per la potenza espressiva che qui è riuscito a raggiungere. Quindi le chiedo: è sufficiente una storia?

Bella domanda! (ride, ndr) Questa storia mi è arrivata addosso travolgendomi. Franco Antonello mi telefonò al suo rientro dall’America: voleva scrivere un diario di viaggio da consegnare a parenti e compagni di scuola di Andrea (una sorta di pubblicità per suo figlio, per metterne in evidenza lo spessore interiore e per far capire a tutti quanto sia “speciale”). E, soprattutto, Franco voleva far capire che Andrea è un ragazzo aperto, desideroso di fare nuove esperienze, uno che se vede un po’ di mondo, insomma, gli fa bene. Franco e io ci siamo conosciuti per caso, attraverso un amico comune, e, dopo quella telefonata, ci siamo incontrati ogni venerdì mattina per 11 mesi e abbiamo parlato a lungo. L’idea, come dicevo, era quella di scrivere un diario intimo, da stampare in poche copie, qualcosa come cento esemplari. Ma quasi subito mi sono reso conto che la storia era più forte, che sfondava gli argini e apriva un mondo; conclusi i nostri incontri settimanali, mi sono messo a elaborare tutto quel materiale e, dopo un anno di intenso lavoro, sono riuscito a trasformarlo in un romanzo.

GRANDE COMPLICITA’. Ha parlato di un dialogo serrato con il protagonista della storia: si è trattato di un dialogo a 2 voci o si è esteso talvolta anche ad Andrea?

Andrea era spesso a casa mia, ma non è semplice avvicinarsi a lui. Si tratta sempre di un rapporto unidirezionale, di lui verso di te, difficilmente riesce ad aprirsi e ad accettare un rapporto di te verso di lui. È una cartina al tornasole: un figlio difficile, che ti obbliga a fare degli scalini. E per me dar voce alle emozioni di Franco è stata una grande simulazione di difficoltà.

L’IMMEDESIMAZIONE. Una delle cose che più mi hanno colpito è stata appunto la sua capacità di fondere insieme Autore e Narratore. Quanto c’è della sua voce nella voce narrante?

Si è trattato per me di una sfida: riesco a essere “dentro la storia”? Come esprimo le emozioni di Franco? Come posso diventare il “padre narrativo” di Andrea? A scuola (insegno chimica e biologia in un liceo) mi ero fatto una buona esperienza di ragazzi autistici, quindi ho messo insieme i pezzi e devo dire che mi riconoscevo molto nel padre, nel suo coraggio. Non so se al suo posto avrei fatto le stesse cose, se avrei saputo resistere, però ho provato a mettermi nei suoi panni e a fare il viaggio con lui.

IL VIAGGIO. Anche in altri suoi libri avevi affrontato il tema del viaggio. Quanto di questo materiale ha recuperato? Ha fatto personalmente un viaggio in America? Quanto è riuscito a farlo mentalmente con Franco e Andrea?

Indubbiamente è un tema che avevo già fatto mio in passato, ma in questo caso c’erano diverse difficoltà, come la mia paura della moto, o la necessità di descrivere posti che non avevo mai visto di persona. Mi sono ripromesso, quindi, di fare un viaggio nel viaggio, sfogliando le foto di Franco e Andrea (innumerevoli, davvero, e le avrò viste una dozzina di volte), leggendo e interessandomi molto ai deserti americani (il deserto è un tema che da sempre mi ha appassionato). Però ho soprattutto cercato di dare parole letterarie a una storia vera: un viaggio di Franco, che entra “fisicamente” dentro l’autismo (anche pagine in cui prova a mettersi nei panni del figlio); un bildungsroman del padre, la cui crescita -sia interna, sia nel rapporto col figlio- si avverte nettamente nel corso del romanzo. Il viaggio ha agevolato una discesa nell’intimità e un ampliamento della loro relazione (perché ha costretto i due a una grande intensità relazionale). Gestire Andrea nella rete familiare è diverso, puoi permetterti di affidarlo ad altri, di “riposarti”. Qui no! Sei trascinato nel suo mondo, è un incessante tirare e mollare la corda, un’esperienza in cui l’amore è fondamentale, direi quasi un’esperienza primitiva.

L’AMORE, APPUNTO. Credo non sia un caso se l’ultima scena del libro offre un messaggio positivo, di apertura: dopo aver mostrato di poter essere espansivo e disponibile a nuove esperienze, Andrea sembra cedere anche all’amore.

Andrea è molto bello, e per tutto il viaggio ci sono state ragazze che l’hanno apprezzato e gliel’hanno fatto capire. In più, in America Latina c’è una particolare accettazione della diversità. Per la prima volta Andrea è stato vicino a una ragazza, un momento di vicinanza su un terreno complesso per gli autistici. Amore? Mah, difficile dirlo. Anche perché, passato il momento, per Andrea è stato come se nulla fosse successo. E questo era uno dei tormenti principali di suo padre. Sai, ti aspetti e ti auguri sempre che, da un momento all’altro, tuo figlio “guarisca”, tornando a un’esperienza di vita “normale”, o comunque più comprensibile per noi. Invece la sua mente va su e giù come un ottovolante, e con questo romanzo ho cercato almeno di “avvicinarmi” ad alcune situazioni veramente difficili da percepire per le persone comuni.

Leggi anche la nostra recensione di “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas

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Intellettuale engagée un po' d'antan, leggo, scrivo, traduco e assaporo, e nel farlo alimento una passione che è prima di tutto personale, vitale.

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