A tu per tu con…Francesco Pecoraro

Il sessantottenne Francesco Pecoraro è stato finalista al Premio Strega 2014 con “La vita in tempo di pace”, edito da Ponte alle Grazie: un romanzo distopico con cui attraversa le vicende del dopoguerra italiano attraverso la vita dell’ingegner Ivo Brandani, un tecnico non come molti disincantato, anzi uno che si fa domande sulla vita. Tramite il suo sguardo Pecoraro analizza la condizione umana in genere e quella del nostro paese in particolare gettando su entrambe un’ombra cupa e disperata.

Nel suo libro ci sono due voci narranti e una dimensione di flusso di coscienza. Come ha scelto queste differenti modalità di narrazione?

Ivo Brandani, il protagonista, da una parte guarda la realtà attorno a sé non come revisione della sua vita, ma come osservazione di ciò che lo circonda, in un momento di pausa mentre sta aspettando l’aereo. Ma tutto questo non sono altro che gli spazi di un colonnato. Le colonne sono scritte dal narratore, che racconta alcune parti della vita di Ivo in cui va a ritroso. Non ho una spiegazione precisa del perché ho deciso  così, probabilmente se avessi seguito la successione temporale sarebbe stata una semplice biografia, invece così è un po’ tutto causale.

Il romanzo vuole dare l’idea della vita di un uomo che si perde in milioni di altre vite.

Non volevo fosse lineare così il tempo presente di Ivo l’ho collocato nel futuro. In più lui non vive nel nostro stesso universo, ma in un universo parallelo, sfalsato in un mondo in cui alcuni nomi e situazioni sono diversi dalla realtà.

Come per esempio l’euro franco-tedesco…

In quel periodo c’era una forte intesa tra la Merkel e Sarkozy e sembrava che l’Europa a due velocità fosse una realtà vicina, così mi è piaciuto immaginare una realtà del genere. D’altra parte noi uomini siamo soliti ipotizzare con convinzione sul nostro futuro, salvo poi essere smentiti…

Alla base del suo libro c’è anche un ‘ossessione del suo protagonista per la catastrofe, in particolare quella avvenuta con la caduta di Bisanzio nel 1451. Che significato ha questa scelta?

La questione della catastrofe è abbastanza complicata, riguarda i due piani dell’esistenza. Da una parte Ivo ragiona continuamente del dovere che abbiamo in quanto umani di lottare contro la natura e contro il caos. Ogni situazione che riusciamo a costruire è un’asserzione contro la natura e contro il caos.

E questa è la catastrofe fisica. Poi c’è la catastrofe biologica: ciascuno di noi vive in un mondo che tende ad annullarlo fisicamente.

Questi due aspetti si legano nell’ossessione per la catastrofe, che è una presa di coscienza di questa situazione. L’idea di Costantinopoli mi è venuta in mente dall’intervista ad uno scrittore sudamericano di cui non ricordo il nome, che dichiarò: L’unica cosa di cui non so darmi pace è la caduta di Costantinopoli.

Qual è il suo rapporto coi premi letterari?

In realtà non me ne importa granché, a meno che diano un consistente premio in denaro. Cercano di stabilire una scala di valori letteraria in quasi conflitto con la critica. Chissà come mai abbiamo sempre bisogno di classificare… I premi comunque falliscono in questo perché è un obiettivo impossibile da raggiungere.

 Qual è invece il suo rapporto con la lettura?la vita in tempo di pace

Prima di diventare uno scrittore ero un lettore sereno, ora che sono scrittore non più…

Prendo in mano un libro, inizio a leggerlo poi lo abbandono perché mi accorgo che l’autore scrive meglio di me e mi deprimo… Non c’è nulla di competitivo, ma piuttosto tutte le mie non letture sono dovute alla mia insicurezza.

Per quanto riguarda i miei stessi libri mi assalgono i dubbi: tutte le volte che  li rileggo noto delle cose che vorrei cambiare.

Mentre scrivo cerco di non leggere nulla, da una parte per questa sorta di invidia e dall’altra perché sento troppo forte l’influenza degli altri scrittori. Quando stavo scrivendo questo libro per esempio avevo preso in mano “Quel pasticciaccio” di Gadda, ma l’ho aperto e l’ho richiuso: non potevo leggerlo perché troppo destabilizzante. Quando si scrive lo si fa sul filo di quello che arriva dalla mente, è la mente che scrive facendo a meno della coscienza. Se la coscienza è contemporaneamente occupata in qualcosa c’è una forma di interferenza.

Mi sento un po’ sdoppiato quando scrivo, tra creatore e revisore e il periodo in cui ottenevo dei rifiuti alla pubblicazione di questo libro è stato utile, perché avevo bisogno di tempo, di una maturazione lunga, qualche mese in più.

Che messaggio può lanciare agli amanti dei libri?

Un lettore deve essere sereno, disinvolto e modesto.  A volte un libro va mollato se non ci sta dando nulla, a volte invece bisogna avere la costanza di superare il muro di un’opera, aprire dei varchi e questo può dare immense soddisfazioni e godimenti. Penso a “Infinite Jest” di Wallace per esempio.

Chi ha detto poi che un libro va letto tutto d’un fiato? Bisogna a volte fare fatica per leggere…

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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