Antonio Prete, per anni professore di Letterature comparate all’Università di Siena, è uno dei massimi esperti internazionali di Leopardi, Jabès e Baudelaire, oltre ad essere egli stesso poeta e traduttore.
Nel 1976 pubblicò un’edizione delle Operette Morali per Feltrinelli che viene tuttora regolarmente ristampata e in seguito numerosi saggi dedicati alla poetica leopardiana e non solo. Quest’anno è uscito per Bollati e Boringhieri “Compassione. Storia di un sentimento”.
Lei è di origine salentina e scrive anche componimenti in dialetto. Che tipo di suggestioni ha fornito questa meravigliosa terra alla sua poesia?
Innanzitutto, per quanto riguarda i colori, una certa luce del tutto particolare che è data dall’incontro dei due mari e dall’incanto dei paesi e della campagna, dalla terra agli ulivi. In secondo luogo vi è la presenza di una tradizione legata alla lingua dialettale con la compresenza di tre idiomi: italiano, salentino e soprattutto il griko, che viene parlato nei paesi della Grecìa. E’ chiaro come un luogo con tre lingue dia qualcosa di particolare alla poesia. Poi ci sono le mie radici, la memoria legata al rapporto con mio nonno materno che mi portava con sé per lunghi periodi in campagna, scriveva poesie in dialetto e le recitava nelle masserie alla sera. Talvolta le comunicava e le faceva imparare a memoria anche a me. Infine anche mia mamma era una grande affabulatrice e sapeva raccontare in dialetto.
Le sue grandi passioni, su cui si sono concentrati in particolare i suoi studi sono Baudelaire e Leopardi. Ci parli del rapporto con questi due poeti.
Io credo che i poeti per essere apprezzati vadano incontrati a partire dalle proprie domande. Baudelaire è straordinario per il ventaglio di registri stilistici, dall’abietto al sublime: apre la poesia moderna proprio perché li raccoglie e li propone alla modernità. Il mio interesse per Baudelaire e Leopardi risale al periodo in cui lavoravo per una rivista, fondata da Gianni Scalia, che aveva collaborato ad Officina con Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi. Sui banchi del liceo mi ero già innamorato di Leopardi, poi l’ho riscoperto lavorando molto sulle “Operette morali”. In esse c’è un Leopardi meditativo, fantastico, ironico, riflessivo, corrosivo della società. Ha una biblioteca fantastica reale e immaginaria, dialoga con i miti libri e personaggi di immaginazione. È un libro straordinario, uno dei più belli della nostra letteratura. Quando uscì “Palomar” di Italo Calvino nel 1983 io feci una lunga recensione sul manifesto, in cui avevo paragonato le varie situazioni di Palomar per l’appunto alle “Operette Morali” e Calvino mi scrisse una lettera ringraziandomi per questo accostamento e dicendomi che in effetti erano il libro che aveva sempre tenuto presente durante il suo lavoro. Ho lavorato poi sui “Canti” e sullo “Zibaldone”, cercando di mostrare come l’opera di Leopardi è pensiero nella poesia e pensiero della poesia. Per Feltrinelli ho scritto su questo argomento un saggio intitolato per l’appunto “Pensiero poetante”.
Il suo ultimo libro, Compassione, è un excursus sulla presenza di questo sentimento nella letteratura e nelle arti. Come mai questa scelta?
La compassione è un sentimento che mi ha sempre colpito perché mette il soggetto del sentire accanto ad un altro che si trova in una condizione particolare di dolore, sofferenza, disagio. La filosofia, tranne una linea tra Rousseau e Schopenauer, che non a caso guarda alla poesia romantica, ha riflettuto su questo sentimento solo in rapporto al soggetto che prova compassione vedendola come una passione debole, ambigua, ipocrita alle volte. Il soggetto ha compassione perché si sente orgoglioso, superiore: il suo gesto è offensivo, lede l’ autonomia e la dignità dell’altro, offende la sua discrezione e la sua riservatezza. Tanti filosofi, dagli Stoici fino a Nietsche la criticavano come sentimento di affermazione col soggetto. La letteratura e le arti invece hanno fatto altro, hanno guardato anche il soggetto destinatario della compassione. Esse accolgono il vivente e questo spiega la differenza dello sguardo.
Ha scritto libri simili su altre tematiche?
In passato mi ero occupato nel 1992 per Cortina della nostalgia e nel 2008 sempre per Bollati Boringhieri della lontananza, tema a me molto caro. Il tempo e lo spazio del lontano lo copriamo con l’immaginazione ed è importante che le tecniche del nostro tempo accolgano questo ritmo. Ciò è accaduto al cinema, che conserva in sé una lontananza che permette una certa immaginazione del lettore. Ciò è stato possibile perché il cinema ha imparato dal teatro, dalla letteratura, dalla pittura. La telematica invece schiaccia la lontananza e l’immaginazione non ha spazio, viene consumata. Posso chiedere un’informazione al mio telefono ed essa mi appare immediatamente sul display: televisione e internet portano tutto nell’unità domestica, ma è un’illusione. Questi mezzi hanno una grande utilità ma non bisogna perdere la creatività e la soggettività: un ragazzo che vede un paesaggio non deve perdere la curiosità di volerlo attraversare.
Per quanto riguarda la poesia purtroppo si tratta di una forma espressiva che oggi fatica a diffondersi e farsi conoscere. Secondo lei si deve fare qualcosa per migliorare questa situazione?
Secondo me si deve fare qualcosa non tanto per la sua diffusione, perché è bene che abbia i suoi margini e che non abbia grande consumo perché ne potrebbe rovinare il linguaggio, ma occorrerebbe dare senz’altro alla poesia più spazio nell’editoria.