L’ElzeMìro – Dopo Mezzanotte-La terza stanza

Bonaparta fu a lungo il soprannome diffuso tra i suoi compagni di scuola; un po’ per il gusto, non abbandonato negli anni, di mettersi alla testa di ogni cosa, dai giochi in giardino fin su, più tardi, ai gruppi di studio e alle manifestazioni. Un po’ perché più tardi quando tutti coloro crebbero in statura, la fata della crescita sembrò aver altro da fare che accorgersi di lei e quando parve invece attenta, che fosse intervenuta alla visita scolastica per tenerle la testa schiacciata sotto all’asticella del metro e cinquantacinque; malizie di fate. Lì si attestò Bonaparta in una sorta di sua piccola Elba, di esilio lontano dalla pallavolo e dalla pallacanestro. Raggiunta l’età per lavorare, ebbe il vantaggio però non di cento ma di mille e più giorni da primo console, in comando dunque, attitudine e desiderio coltivati con voluttà da un carattere imperioso e non di rado autocelebrativo – Logico che sbaglino perché sono degli stolti io invece… ( io lo si intuisca con una forte eco) – ; rimase Bonaparta in spiritu insomma benché nessuno certo osasse più chiamarla così bensì, come le competeva, dottoressa Floris, che era il suo nome di ragazza, Floris non dottoressa.

Tutto questo presentare il personaggio è funzionale a una lettura romantica, per non dire idealistica di questo racconto; a un sillabare quasi il discorso come in un racconto di mezzanotte di quelli che andavano in onda per radio, non si sa più quanti e quanti anni fa, decenni, e che in realtà erano spesso gli estratti di approssimativi gialli americani ; di quelli che talvolta cominciavano così, Jennifer si riempì di ghiaccio il bicchiere di scotch… le sue unghie dipinte di un rosso acceso e volgare scintillarono per un attimo sotto la luce dell’abat-jour… sorrise maligna( chi l’abat-jour?)… si voltò verso Daniel ( sempre l’abat-jour?) ma ora invece del bicchiere puntava la canna di una calibro 22( l’abat-jour è intraprendente)… con disinvoltura tirò il grilletto…. sulla camicia di Daniel si allargò una grossa macchia rossa… cadde di colpo(la macchia?)… non vide più nulla(idem). Si immagini che di prose consimili il regista o una redazione dovessero aggiustare o riscrivere il testo in una forma che salvasse con lo stesso salvagente la sintassi, prima mentale che grammaticale, e il narratore dalla fatica di far intendere il soggetto di ogni frase.

Dunque la piccola Floris : a 25 anni apriva la sua prima agenzia di marketing e pubbliche relazioni, questo per dire che Bonaparta appunto era rimasta. E a 35 la succursale. A quaranta è noto che la Floris si invaghì, e la si comprenda e giustifichi, della sua amministratrice – non succede spesso alle amministratrici di suscitare rigogli di passione – persona di una bellezza che erano due, non solo per tutti i maschi dello studio – peraltro pochissimi, a libro paga ne risultavano tre su una squadra di venti persone : il manutentore, l’informatico, il fattorino – ma per tutte le signorine che frullavano per l’agenzia come fagiani, tali e tante erano le piume che pareva le adornassero ; su quella riserva Bonaparta dominava indisturbata da guardiacaccia : guardava appunto, senza osare la caccia, tutte erano più alte di lei e in genere non solo più magre, magre e basta. Dopo un certo numero di anni di buona condotta e di oculate manovre l’amministratrice, dalle mises fantasiose e dalla francesine con tacco a rocchetto – il mormorio comune era che la rendessero di un irresistibile sex-appeal dai piedi alla testa – una certa sera chiuse libri e conti, liberò gli occhi dalle lentine e indossò gli occhiali, si abbottonò la giacchina del tailleur, controllò la cravatta che spesso portava al lavoro, chiamò un taxi e lasciò l’agenzia ; al mattino seguente, l’uomo delle pulizie aveva appena finito di lustrare i vetri, quando in serie dalle banche arrivarono squilli di allarme : i conti risultarono desertificati. Pochissimo tempo dopo, la bella amministrosa dai tacchi a rocchetto ebbe l’impudenza di mandare un video di sé, rifilata da un costume intero snello come un geroglifico – a rendere l’idea c’è una statua di tale Sekhmet al Louvre – sulla spiaggia luccicante di una qualche Giamaica, Cuba, Tonga, da cui con totale certezza essere estradati per frode fiscale e furto sarebbe stato impossibile. La Floris rimase senza la sua antitesi statuaria e senza un soldo per fermare la complessa macchina dei debiti aziendali ; fu travolta dal desiderio inappagato e dagli obblighi di pagamento, si arrampicò sugli specchi per saldare tutto e tutti fino all’ultimo soldo, vendendo e svendendo del suo, compresi i suoi due cavalli e la casa di campagna, e impiegandosi poco dopo e per fortuna a padrone, si dice, e messa sotto ricatto dalla realtà; il fisco la perseguitò indifesa, l’unico avvocato pronto a farle credito abbandonò la causa perché irredimibile, dovette vendere la casa di città a quel punto e si trasferì in un appartamento ridimensionato benché sempre esagerato dato che l’ego di Floris restava quello di Bonaparta e tendeva a occupare più spazio di quanto di solito tollerabile per quella figura retorica della psicologia corrente.

Ai termini oltre i quali l’età è un ostacolo nel proseguire o mantenere qualsiasi posizione di lavoro, da questo impiego Floris fu licenziata. Ridimensionamento aziendale. Titolare di un passato fastoso, ma senza potere contare adesso su una vera fonte di reddito tranne un l’altalenarsi, negli anni a seguire, di consulenze che la costringevano a dribbling arditi tra regolamenti e nuove richieste del fisco, nei 180 metri quadri dell’appartamento in affitto – la piccola Floris non si sarebbe adattata a niente di meno – ammassò la parte minore dei suoi passati acquisti di ricco design. Il vantaggio fu che a periodi riusciva ancora a vendere ora una lampada ora un tavolino ora una seggiola firmati da questa o quella star del design, e soprattutto che di straforo aveva tre stanze del suo appartamento da affittare. Una era occupata stabilmente da un professore di sociologia all’università, e l’altra da una giovane Barlady, nota in città per i complessissimi cocktail che preparava quasi ogni notte in un locale per hipsters. Per evitare le tasse Floris spacciava gli inquilini per parenti in visita. Il primo usava la sua stanza solo nel periodo denso degli esami e dei corsi. C’era e non c’era il professore ma era il tipo di inquilino che un affittuario sposerebbe, maniacale com’era nel tenere in ordine e pulito il bagno e la propria stanza ; un tipo per dire che va immaginato ripiegare gli abiti dismessi del giorno come una commessa di negozio fa coi capi che le si affollano sul banco dopo il passaggio di una sola cliente ma lei, igitur igitur, ecco che li fa tornare alla magia dell’ordine nei loro scaffali. La seconda stanza, per motivi opposti, era terreno di vari malintesi e scontri per lo scarso senso dell’ordine e della pulizia della giovane Barlady. Occorre ricordare che Floris a candidati e candidate affittuari proponeva sempre un decalogo di doveri cui attenersi e da seguire alla lettera, precisava : aspirapolvere, spic e span del bagno e dei pavimenti, accesso ristretto alla cucina. L’affitto richiesto poi era dai più considerato eccessivo, sicché la maggior parte delle persone tentennava all’orale preliminare e subito dopo cadeva sulla pratica. La Barlady aveva pagato però in anticipo per due anni, e poi era bella e di più, statura, portamento e sprezzatura da mannequin di un tempo passato, di giorno dormiva e Floris fantasticava spesso sui suoi meriggiare chissà se pallidi e assorti nella penombra della sua stanzetta ; talvolta però, auscultandone la porta con sussulti di Romeo sotto il balcone, Floris percepiva l’eco di un russare adenoideo.

La terza stanza era per lo più sfitta : meno favorita dalla posizione a picco sull’angusto cortile condominiale col suo traffico di bidoni della spazzatura all’alba, di tapparelle villane al mattino, di chiacchiere fino a notte fonda, col caldo, amplificate dalle mura di tutti i palazzi intorno al cortile e che prima o poi gli affittuari scoprivano, e per causa del pretenzioso decalogo e pertanto del prezzo. Ma Floris sulle cifre non transigeva, a costo di farsi del male ; aveva tutto un suo elucubrare sul quanto fosse giusto un prezzo, una pretesa, una richiesta : nella sua vita aveva sempre preso per esosi e profittatori gli altri, chiunque, e nel valutare le sue richieste di denaro o negoziare accordi, in pratica solo lei stessa la giusta senza giusti intorno ; specie dopo il fallimento si sentiva circondata da rapaci, negozianti, il parrucchiere, il fisco ovviamente e supermercati. Benché avesse lavorato sempre per il capitale se ne sentiva vittima, l’unica, la migliore si capisce, la più terzo stato, la più à-la-lanterne delle Bonaparte. Teneva tuttavia la terza stanza in uno stato di shining quotidiano, forse degno di miglior causa ma non è il caso qui di sindacare sulle manie delle persone. Si fosse anche sentita poco bene per via dei suoi frequenti attacchi di depressione, panico, ansia (i fatti non la incoraggiavano a non averli, e forse una dose di ipocrondria li sosteneva), le era necessario però passare almeno l’aspirapolvere. Lei, che aveva studi classici nella sua testa, chiamava questi spruzza e spazza quotidiani ergoterapia, terapia del lavoro.

Tutta questo preambolo è il contesto. I più grandi delitti e deliri e disastri pare siano solo questione di contesto. È il contesto che porta a precipitose concatenazioni di fatti che deflagrano in atti. In una bella mattina rannuvolata e incerta sul da farsi – alle 8:30 del 2 di ottobre per essere precisi – all’aprire come al solito la porta della terza stanza e questa volta con una pesantezza nelle gambe che alla sua età cominciavano a dare a Floris tra l’altro problemi di circolazione, all’aprirla insomma, da subito si sorprese e spaventò come colui che aprendo il forno caldo dove sfrigola l’arrosto venga colto, aggredito dal vapore caldissimo e unto e salti indietro con gli occhi o gli occhiali accecati ; poi pensò alle traveggole che il bugiardino del suo farmaco antiepilettico (anche questa sì) descriveva come effetti secondari e indesiderati e dopotutto era in piena menopausa, ahi. Però fatti : sul lettino 180 per 70 in dotazione alla stanza era allungato un, come definirlo, un coso, una specie di protozoo traslucido, un’ameba, una medusa spiaggiata e ancora gonfia d’acqua, più larga che lunga : una bolla di sapone atipica, ecco. Non si muoveva e non pareva respirare o forse sì ma chissà, chi avrebbe potuto dirlo. Non era nemmeno schifosa, nessuno prova repulsione per quel bell’incanto di tensione superficiale dei fluidi che è una bolla di sapone. Ma c’era che nella stanza aleggiava un non si sa che di inquietante, una ipertensione di quel fluido che è l’aria o una carica di minacce implicite in quell’oggetto incerto ma denso di oggettività sul letto. Benché la Bonaparta che era in lei avesse subito pensato di aggredire e voler gettare via quel coso, la piccola Floris, convenne con sé stessa che il coso non era cosa da potersi eliminare, così chissà in pattumiera o alla discarica comunale tra gli ingombranti o alle brutte giù per il gabinetto. A parte l’idea di toccare quell’oggetto… siccome aveva prediletto le storie fantastiche in vita sua e viste miriadi di film di fantascienza, fu subito incline a credere che chissà si trovasse alle prese con un alien, un body snatcher, un vampiro dello spazio. Di furia varcò all’indietro la soglia della stanza la Floris, tirò con forza la maniglia della porta verso di sé, diede due giri di chiave alla pur modesta serratura e lasciò la chiave nella toppa, casomai al coso venisse l’uzzolo di transitare per quell’impossibile pertugio. Poi andò in cucina a pensare, o così credette ; in realtà ad evitare di farlo : cavò dal fondo di un armadietto l’unica riserva di alcool presente in casa, una bottiglia antichissima di super-cognac che lei aveva evitato fino ad allora di incignàre : ne stroncò il sigillo di stagno, stappò se ne versò un bicchierone e giù giù glù. Ore 8:45.

Per alcuni giorni evitò la terza stanza. Dell’apparizione non fece fiato con chicchessia. Non col professore che non le sembrava tipo da confidenze, né per imbarazzo con la Barlady – hanno nomi che li identificano per soggetti umani, ma nomi di nessuna rilevanza narrativa – né con la sua erborista, né. Quanto alla propria inquietudine Floris cercò di ricacciarla in qualche focolare interiore dove però una volta accesa le si alimentava da sé in corpo : le spuntarono dei puntini rossi sulle braccia, l’erborista le consigliò una pomata. Floris pensò che la cosa nella terza stanza fosse non una traveggola ma una allucinazione… scartata dal suo involucro mitologico la menopausa, la colpì l’idea di essere caduta nella follia – ; oh se per questo ne conosceva, sua sorella per esempio di dieci anni più anziana, un giorno si era inventata l’amante del marito, aveva dato forma e nome e indirizzo a quel fantasma e lo inseguì nella hall di un albergo, fu domata da una pattuglia di polizia, in preda a strepiti e furia aveva tentato di assassinare il consorte colpendolo più e più volte alla testa con un lungo calzascarpe di acciaio ; dopo una lunga degenza iniziale viveva da quel dì di ricoveri periodici e per il restante tempo accudita dal, ricco, marito che amanti non ne aveva e non ne aveva mai avute, ma una cicatrice in testa sì. Floris fu toccata dall’idea di ricorrere a una psicoterapista ma l’idea le si arenò così come era salpata. Con che soldi.

Quella costruzione, quel mosaico o puzzle cui mancano delle tessere è il presupposto dell’intrigo il cui scopo è rintracciarle. L’antefatto è il delitto, o il mostro inteso come evento numinoso, di portata estrema e incomprensibile, non riconducibile alla normalità di una ragione cui si dà in genere poca ragione. Al contrario quando tutte le tessere si presentino a portata di mano, una dopo l’altra, allora… Floris ebbe il coraggio di riaprire la terza stanza. Il coso, la bolla era lì come il primo giorno. Floris si avvicinò al letto risoluta e, colpita da non si sa quale impulso neurologico toccò il coso : la sua mano affondò in un nulla, né morbido né niente ; la bolla non restituiva la sensazione della materia. Ritirò la mano. Prese subito a passare l’aspirapolvere. Prima di uscire dalla stanza, buttò un’occhiata di commiato al coso, varcò la soglia e chiuse a chiave. Dopo quello ci fu il giorno dopo. E, orribile a dirsi, il coso, la bolla per quanto distesa sul lettino come sempre, era mutata. Dal resto del suo impalpabile volume ora si distinguevano due braccia e un accenno di gambe. Poca roba ma sufficiente ad avvalorare in Floris il pensiero che dall’inizio, anche se celato, l’aveva disturbata : che quello la potesse copiare, che la stava copiando. Fuggì dalla stanza. Richiuse a chiave, fece di nuovo ricorso alla bottiglia di cognac. Si calmò e nel tentativo di riflettere si ingarbugliò. Che fare non le fu per niente chiaro benché pensasse che liberarsi di quell’aggeggio fosse urgente. Ma se a toccarlo, si domandò, se a toccarlo le avesse rubato altre informazioni sulla sua forma e condizione. Si ricordò di aver letto da qualche parte un non so, un articolo divulgativo su un argomento che dopo poche righe le si era rivoltato contro ; la teoria, la supposizione, il paradosso, non si ricordava come era chiamata, del gatto di Schrödinger – fisico, matematico, cagliostro chi era mah – gatto che era nello stesso tempo morto dentro e vivo fuori da una scatola. Versandosi un altro goccio di cognac domandò al vuoto della cucina, Ma chi metterebbe un gatto morto povera creatura in una scatola per accorgersi poi che il gatto è ben fuori ed è vivo… ostia… un matto. Il gatto era un gatto quantico o qualcosa del genere, spiegava l’articolo, ma quantico le aveva fatto tornare alla mente soltanto il nome di una cittadina americana in una serie televisiva di spionaggio ; sede di una base dei marines. Pace e amen.

Passarono così sei giorni. Sei giorni di ansie e tremori al passare ogni volta davanti alla terza stanza. Già questa definizione, la terza stanza, pare evocare un disagio, un destino malevolo. Quella, chiamava in cuor suo il coso così, Quella, al femminile, Quella mi si vuole mangiare via ; e in quei sei giorni aveva preso a ripetersi questa frase Floris, a mezza voce, la sera quando era sola nel suo letto. Non osava starvi distesa per paura chi lo sa che quella fosse in grado di imitarla, rubarla per meglio dire, assorbirla a distanza… distesa le sembrava di essere nuda e indifendibile ; così prese a dormire vestita e con le scarpe e il più rannicchiata possibile, da feto ; oppure appoggiata a miriadi di cuscini, semi seduta ; una notte la passò a passeggiare su e giù per la propria camera, appisolandosi un’ora sì e una no nella poltrona dove di solito amava leggere, il lume da lettura acceso. Se quelli sarebbero stati i suoi ultimi sei giorni non lo sapeva, non poteva nemmeno prevederlo, ma lo temeva. Un poco per volta ogni notte svuotò la bottiglia del cognac. Il settimo giorno era come di consueto domenica. Il professore era tornato tardi la sera precedente e Barlady ancora più tardi del solito. Sicché entrambi gli inquilini dormivano più che profondamente quando ancora prima dell’alba la Floris smise di tentare il sonno a prendersi cura di lei. Si alzò frusciando via per la cucina come solo i gatti sanno fare. Vi si chiuse e prese a prepararsi la colazione. Aveva una fame impropria. Scongelò dei croissants buonissimi comprati mesi addietro in stock da un pasticcere prima che il suo medico le correggesse in senso francescano la dieta. Di caffè e in barba all’ipertensione, preparò una pignatta. Prese i croissants a spatolate di burro e miele e poi non soddisfatta, golosa integralista, si batté in un tegame sul fuoco quattro uova con burro e un po’ di latte finché non furono bavose ; a quel punto vi aggiunse rapida la marmellata di lamponi che centellinava di solito la mattina su tre fette biscottate ; rigirò quell’impasto con la forchetta fino a farlo rapprender ma non del tutto ; lo ritirò dalla fiamma e così, caldo com’era, lo sparse di zucchero a velo e uva passa : questa la ricetta approssimativa del Kaiserschmarren, la frittata dell’imperatore, di Francesco Giuseppe per la precisione.

Assatanata dagli zuccheri ingeriti decise di farla finita. Attenta a non fare rumore, nemmeno il più piccolo, spalancò la porta della terza stanza. Albeggiava e una luce ottobrina arrivava dalla finestra. Floris accese la luce e fu presa da uno spasmo. Forse era il suo inconscio imbizzarrito a crearle quell’immagine… l’Es o l’Id che nel Pianeta Proibito (The forbidden planet, 1956) creava mostri assassini e invisibili e, nonostante, pesanti tanto da piegare passerelle di metallo al loro passaggio. Quella invece era bene in vista, stesa nel lettino come sempre. Ed era una copia perfetta della Floris, tutta vestita e calzata. È un replicante un mio replicante qualcuno mi ha messo un replicante in casa. Fu il pensiero effimero di Floris che si avvicinò al letto come un coltello, benché disarmata. Toccò la cosa : solida, più di una libra di carne . Le passò le braccia sotto la schiena decisa a farla finita; la cosa, quella aprì gli occhi come fanno le bambole e per il resto niente, si lasciò fare. Ma era pesantissima e soda quanto un pugile. Lei la prese per un braccio allora, tirò e riuscì a farla cadere a terra. Si sentì un tonfo, la cosa, con gli occhi aperti e vigili, non ebbe nessuna reazione. Fissava Floris però che la prese con furia per i piedi e sempre sforzandosi riuscì a trascinarla fino alla finestra.

Il professore a giorno fatto e per la verità del tutto inaspettata anche Barlady si svegliarono. Osservarono non poco sbalorditi i resti in cucina della colazione di Floris. La chiamarono per educazione ma non ci fu risposta. L’ingresso di casa era chiuso col paletto. Hmm chiamarono ancora. Niente. Aperta e aperte le persiane, la camera di Floris era in un disordine improprio, i cuscini del letto in terra uno ; uno nella poltrona, le lenzuola arruffate, il pigiama e nessun vestito in vista. Mah. Si accorsero che anche la terza stanza era aperta. Si affacciarono alla soglia. Niente. Sul letto, il copriletto pendeva in malo modo là dove la cosa era stata trascinata a terra. Un urlo salì dal cortile interno del condominio, si udirono voci a seguire, un richiamo, Chiamate la polizia, un trambusto di persiane concitate… sul lastrico del cortile poco distante dai bidoni della spazzatura c’era un corpo, disossato si sarebbe detto, e assomigliava di preciso alla Floris. O alla Bonaparta.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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