Autore: Éric Chevillard
Data di pubbl.: 2020
Casa Editrice: Prehistorica Editore
Genere: Narrativa
Traduttore: Gianmaria Finardi
Pagine: 80
Prezzo: € 10,00
Éric Chevillard è uno dei più originali e innovativi scrittori della nuova scena letteraria francese.
Qualche anno fa Del Vecchio pubblicò nella magnifica traduzione di Gianmaria Finardi Sul soffitto, un romanzo surreale in cui un uomo ordinario angosciato dal grigiore esistenziale vede il mondo andando in giro con una sedia rovesciata sulla testa.
Una magnifica incursione nell’assurdo letterario. Infatti l’autore non nasconde il suo grande amore per Queneau e Ionesco. La finzione nei suoi libri è pervasa da un sentimento dell’assurdo. La sua prosa ricorda molto i mondi kafkiani.
Chevillard è uno scrittore che spiazza e meraviglia noi lettori fino a demolire tutte le nostre certezze.
«La messa in scena di un bizzarro narratore omodiegetico, prima impegnato a tenere pesantemente una sedia rovesciata sopra la testa, poi capace di sistemarsi con un manipolo di altri squinternati sul soffitto di un appartamento borghese, suona come un grido di rivolta lanciato dall’autore contro il romanzo a ispirazione realista» così scrisse Gianmaria Finardi nella nota al romanzo.
Chevillard è uno scrittore tutto da scoprire Prehistorica Editore dedica una collana allo scrittore francese che finalmente potrà essere letto e apprezzato anche da noi nella sua interezza.
Dopo aver pubblicato Sul riccio, in questi giorni arriva in libreria Sine die: cronaca del confinamento.
In anteprima mondiale questa raccolta di cronache che lo scrittore francese ha tenuto quotidianamente su Le Monde e successivamente sul suo seguitissimo blog.
Chevillard annota per gli oltre cinquanta giorni della quarantena il suo umore attraverso riflessioni che diventano il racconto di un quotidiano sconcertato dalla noia e dall’assurdo che ci ha costretto a fare i conti con le nostre precarie dimensioni umane.
Scritto tra il 19 marzo e il 21 maggio 2020, questo piccolo libro contiene tutto il mondo dello scrittore che guarda dalla prigionia della coscienza la vita e il suo mutamento di spaventi.
La legge spietata del confinamento ha disperso il gregge, Chevillard una la scrittura come anticorpo per tentare un ordine nella nuova esistenza gregaria. Riempie pagine per suonare assoli malinconici, per mettere nero su bianco inquietudini e sogni, per continuare a viver mentre fuori il mondo sopravvive.
Come belve in gabbia, forse non siamo mai stati estranei alla condizione animale, questo scrive l’autore nelle sue cronache mentre il confinamento si fa opprimente e sembra che non voglia abbassare la guardia.
A questo punto riporta un passo del suo amato Cioran da Sommario di decomposizione: «Se i pomeriggi domenicali si protraessero per mesi, dove andrebbe a finire l’umanità, emancipata dal sudore, libera dal peso della prima maledizione?» La sua prognosi è poco incoraggiante: «È più che probabile che il crimine diventerebbe l’unico divertimento, che la dissolutezza parrebbe candore, l’urlo melodia e il ghigno tenerezza. La sensazione dell’immensità del tempo farebbe di ogni secondo un intollerabile supplizio, un plotone di esecuzione.
Nei cuori imbevuti di poesia, si instaurerebbe un cannibalismo disgustato, una tristezza da iena (…) L’esistenza, nella vacanza assoluta, mostra tutta la propria finzione».
Chevillard scrive le sue cronaca con tutto la disillusione di cui è capace la sua scrittura che non rinuncia mai alla visione dell’assurdo.
È categorico e spietato, quindi tremendamente vero, quando il trentacinquesimo giorno di confinamento scrive che da questa prova non usciremo migliori, non modificheremo le nostri abitudini e il nostro carattere è ben temprato per piegarsi sotto l’influenza del virus.
Saremo gli stessi davanti alle nostre abitudini. Infatti così è accaduto.
Il confinamento è stato propizio per lo scrittore. Sine die è il risultato. Per Chevillard la scrittura è l’antidoto al virus, la via di fuga dalla pandemia.
«Il giorno della fine del confinamento, come faremo a comprendere i nostri simili? In quale lingua ci parleremo?».
Il confinamento è finito, ma l’assurdo kafkiano è sempre in mezzo a noi. Per Éric Chevillard quello che funziona sulla carta ha sempre costituito la realtà possibile.
Nelle sue cronache, come nei suoi romanzi, troviamo le parole giuste, quelle coraggiose di uno scrittore che chiama ogni cosa con il suo nome anche e soprattutto davanti a un’esperienza radicale della nostra vita, come la privazione della libertà.