L’ElzeMìro – Fablìole-I fiori rubati

NIEces per Fabliole

Questa storiella non ha nessun valore o interesse per i più giovani tra i lettori ancora in corso, ma vabbè, raccontarla vale in ogni modo la pena. E dunque…
Raggiunta e superata quella che molti chiamano una certa età e i più accorti un’età certa, dalla notte al giorno ci si sveglia nel letto mutati di forma, ovvero trasmutati. La metamorfosi non è così radicale come nel racconto di Kafka ma egualmente lenta, e lento il processo che porta alla scoperta sconcertante per chi, una volta fatta, se ne sconcerta: ci si sveglia in modo definitivo patetici. Il decorso di questa mutazione, bisogna ripeterlo, è lento abbastanza da confondere nel tempo il soggetto e da confondersi con la sospettosa sensazione che la persona avveduta si trascina tuttavia dentro di sé, e a differenza che in Kafka, non comporta affatto, o solo in rari casi, una sostanziosa variazione sul tema dell’aspetto nel colui o colei che distratti si presentano allo specchio ogni mattina per lavarsi, asciugarsi, pettinarsi, se è il caso sbarbarsi, vestirsi infine, ma dell’aspettativa. Il patetico sa e non sa di essere diventato tale agli occhi del mondo altrui quando, o per sotterranea decisione o per pertinace volontà persista nell’assomigliarsi ogni mattina all’immagine originaria che di lui crede abbia immagazzinato il suo specchio e con la quale magari si rincuora. Al contrario la tonalità, la patina patetica rimbalza dalla superficie speculare alla sua vista come, è il caso di dirlo, una sagace riflessione, il bagliore di un’intuizione, si presenterebbe agli occhi della mente attenta.

La fattispecie di patetico in questione ha una targhetta sulla casella postale, quella che serve per depositare volantini pubblicitari e lettere di dubbia o inutile natura, e un’altra sulla placca del citofono: A. Mandrìno. È una placchetta vecchia perché A. Mandrìno è stato tra i primi a comperare con un mutuo, e a un prezzo al tempo vantaggioso, il suo non grande appartamento; per fortuna perché oggi con la sua pensione come unico reddito non potrebbe sostenere in quello stesso condominio il peso di un affitto. Molti degli attuali proprietari di appartamenti lo incontrano per i corridoi o in ascensore, sempre con nel passo e negli occhi un che di anima del purgatorio in cerca del girone smarrito. Nessuno di preciso sa a che piano abiti tranne lui stesso. Ilpatetico lo chiamano per l’appunto tra loro tutte le coppie intorno ai quarant’anni e con almeno un bambino di dieci che piano su piano hanno gentrizzato il vecchio condominio. Se capita di  entrare in ascensore con lui, con Ilpatetico non con il bambino, appena al momento di scegliere il pulsante di partenza egli attende dell’altro l’affermazione, Io vado al terzo, calata nell’angustia della cabina come sul Sinai la voce del signore – o della signora, maiuscoli però in ogni caso nel parlare – ed ecco che Ilpatetico Amandrìno lascia fare, dirà che sì va bene ma poi, una volta al terzo piano, accennerà una polka, simulerà una decisione, o al contrario una hesitation come di chi abbia scordato qualcosa e all’improvviso se ne stia ricordando, una necessità, e non varcherà la soglia dell’ascensore, lascerà che gli si richiuda  sul naso e poi con  lentezza capitale pigerà il bottone del suo piano. Sappiamo che è il settimo, l’ultimo. Poi c’è una rampa di scale da salire a piedi per arrivare all’ottavo. Un piano dalla cui altitudine uno potrebbe essere già indotto a immaginare di potersi librare nel cielo, con tutto l’appartamento appresso a prescindere dalla metroquadratura. Non è così, è ovvio, ma da lassù, dalla terrazza che completa l’appartamento, l’orizzonte orizzontale che si può raggiungere  con una sola o con molte occhiate ripetute come indagini è particolare, vasto e confuso: là vicino i tetti, le parabole, i comignoli e molto laggiù, una cordigliera, ora nebbiosa, ora nuvolosa, ora brillante di luce e di cime talvolta innevate nonostante il riscaldamento globale, delimita il campo visivo alla concretezza della roccia. Come a significare, Oltre da me non più.

È ovvio che anche i bambini intorno ai dieci anni chiamino il patetico Amandrìno, Ilpatetico. Sanno che una distrazione della sorte o meglio una determinazione della stessa lo hanno privato a un certo punto della consorte. Questo qualche anno fa; nel condominio, del funerale l’immagine è sfumata come sfumano la dizione, le mie condoglianze – con quel, mie, detto forse per trattenerle un poco – e i fumi del crematorio. Non capiscono i bambini come mai con variabile puntualità e frequenza rispetto a un ordine che forse si è dato o forse no ma quasi sempre coincidente con le loro partenze per la scuola, nelle stesse fredde o calde mattine Ilpatetico, ossia il pensionato Amandrìno, esca di casa; e non sanno capacitarsi per quale destinazione né a quale scopo; ma scende a terra dal suo limbo con l’andatura, in questo caso, di uno che da fare ne ha, Amandrìno. Ai piedi gli notano le scarpe di tela blu genova con suola di para, sempre le stesse, di un modello forse comune in certe bancarelle di mercato; e altrimenti strane scarpe di cuoio marron testa di moro cingolate per l’inverno o in caso di pioggia; di strano queste ultime calzature hanno che paiono a li regazzini fatte per un piede molto più lungo di quello di Amandrìno, tali che in punta si imbarcano verso l’alto, un po’ come gli scarponi dei clown. Un po’ soltanto. Da una mano di Amandrìno penzola una busta di plastica compostabile da supermercato e, fossero mediamente impiccioni e curiosi, i bimbi constaterebbero che la busta è gonfia di altre buste, carta appallottolata, rifiuti docilmente indifferenziati, di qualsiasi cosa faccia volume senza peso. Se lo seguissero saprebbero che Amandrìno il patetico si avvia sempre verso il vicino capolinea di autobus. Deve conoscerne i tempi perché arriva sempre che il mezzo è lì in sosta, lui monta in vettura, mostra il tesserino di abbonamento al guidatore, si fa largo tra altri viaggiatori, a volte trova un posto a sedere. Patetico. Poi scende a un certa fermata e lì ne aspetta un altro di autobus e poi un altro ancora fino a raggiungere dopo un viaggio di tre quarti d’ora la sua meta: il cimitero. Uno dei cimiteri della città.

Sempre se lo seguissero i bambini constaterebbero che egli si aggira con calma tra le file di tombe, svuota in un cestino a portata  la sua busta compostabile e raggiunge  le più remote di solito tra le sepolture; con aria guardinga si china ora su questa ora su quella ne raccoglie i fiori più freschi e più belli, ne scorcia un poco il gambo con una forbicìcchia che cava da una tasca del suo giacchétto in estate, del paletot d’inverno, e dei fiori riempie la busta di plastica. A raccolto terminato Amandrìno si avvia calmo ai cancelli del camposanto: il guardiano di solito non guarda. A che scopo Ilpatetico raccolga, rubi di fatto quei fiori è una domanda per cui i bambini di certo vorrebbero un risposta: lo fa per avere fiori freschi con i quali acconcia una sorta di altarino che ha costituito in casa sua per la cassetta di zinco standard con le ceneri della moglie. Per devozione domestica. Perché la moglie amava i fiori. Dei fiori rubati riempie anche il resto dell’appartamento e via via che sfioriscono li sfronda e getta nell’umido. Poi di nuovo parte per un nuovo raccolto.

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35

In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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