L’ElzeMìro – Dopo mezzanotte-Le fanciulle di vetro

Lo straordinario non sta nell’orrore che anzi, fece notare una persona di qualche ingegno, è il ricostituente dell’ordinario. In un tempo andato a male durante il quale tutti si impegnavano a nuocere all’altro in tutti i modi, un po’ come adesso ma con diverso riguardo per l’ipocrisia e i formalismi della politica lessicale, visse l’arcivescovo di Puy d’Ogres. Puy d’Ogres è oggi una amena località capitale di una plaga di monti e boschi e paesetti e ville e stradine che si attorcigliano su e giù per rupi e dirupi e canyon, di qua di là dei molti torrenti e fiumicelli che nutrono il bel fiume Ogres, via da campi abbandonati e quindi senza altro sbocco economico, il Puy, che non sia il turismo con tutte le sue implicazioni : alberghetti e più pretenziosi hotels de charme vi prosperano, e poi si sa com’è, trattorie e ristorantini, negozietti che vendono saponi, carillons che simulano il frinire della cicala e souvenirs e botteghe di artigianato locale, del vetro nello specifico benché tutto quello che si vende non viene più soffiato o stampato nelle due vetrerie locali da tempo fallite e chiuse ma importato ora dalla Cina ora persino da Bellagio, località del lago di Como nota anch’essa a tutti i turismi del mondo. Quindi leva a Puy d’Ogres tutto questo sopra, sotto non resta niente. Chi un tempo era contadino o di famiglia contadina o artigiano o di famiglia di artigiani oggi è agente turistico e qualcuno ha fatto carriera nella cultura, così si dice, è assessore alla stessa, allestisce rassegne musicali o teatrali o custodisce le memorie del paese chiuse nel locale museo di storia. Storia che coincide con lo splendore sotto il dominio dell’arcivescovo, Filippo conte di Puy d’Ogres et Mêmezelles. Avrebbe potuto adire una carriera più faticosa ma di prestigio a Roma Filippo, infilandosi nelle stanze vaticane, in tutti i sensi che il riflessivo infilarsi può assumere, o in qualche importante congregazione religiosa ; coltivare amicizie importanti e frequentare palazzi e chissà, di là dalla soddisfazione che una vita fastosa può procurare, un giorno annaffiare la speranza di entrare nel novero dei papabili. Ma Filippo, con la saggezza che la modestia porta con sé e registra nella colonna dei profitti, preferì l’oscurità del suo paese dove già era dòmino per nascita. Gli studi umanistici, la conoscenza, quasi mnemonica ma opportunamente occultata di Lucrezio e una ferrea osservanza di una disciplina esteriore, ovvero dell’ordinario cattolico, lo fecero salire e nemmeno tanto pianino la scala della gerarchia. In breve salì tutti i santi gradini della Chiesa fino appunto all’onore arcivescovile.

Filippo viveva in un bel palazzo cui diversi architetti negli anni avevano messo mano. Così dell’originale corpo gotico essi avevano via via smussato gli spigoli, arrotondato gli angoli, sfumato le asprezze, curato la vertigine del disadorno conferendogli poco a poco la venustà di una creazione rinascimentale e, almeno nel parco nascosto dietro la sua corte, il guizzo della insofferenza barocca al rigore. Un percorso che alludeva, senza costituirsi tale, al labirinto era segnato da parecchie statue o concrezioni statuarie, qua e là colossali, nel gusto eccentrico, inquietante e mostruoso che ormai dominava l’Europa fin nei suoi più oscuri recessi, da Napoli ai Grigioni fin su nei Carpazi, fino ai ghiacci lituani. Tutte opera di un artista locale, noto allora solo al vescovo e dimenticato oggi, tal Adamo Boitlâme – la grafia è incerta –, le statue ovvero i gruppi statuari non avevano soggetti mitologici, né per carità religiosi, ma di fantasia, una fantasia di cui si sarebbe forse compiaciuto Dalì, ed erano cavate dalla roccia duttile del parco vescovile così che non poggiavano, nessuna, su un piedistallo, né sulla terra erano appoggiate ma dalla terra sorgevano, là dove la terra aveva scoperte le sue sue gengive malleabili ; come alberi che nessuno abbia conficcato nel terreno ma che da sé soli siano dal terreno sorti. Fatto che avviene per solito nelle foreste di cui nessuno può dire chi le abbia fatte sorgere salvo si accetti finalmente che la natura stessa fa di codeste allegrezze, solo per caso o necessità.

Il vescovo Filippo aveva suggerito ad Adamo tutte o quasi tutte le raffigurazioni da scolpire e questi aveva eseguito e al tempo eseguiva con precisione il dettato del vescovo, un po’ perché di quella attività aveva preso a campare alla grande, un po’ perché per quella lapidaria si sentiva portato fino da quando, piccinissimo, si divertiva a preoccupare i propri genitori, scavando dai ceppi di scarto della falegnameria paterna figurine mostruose e deformi. E i nodi del legno, le sue venature, le sue bozze, gli intrecci e gli intralci parevano gli suggerissero allora le più strane e difformi raffigurazioni, tali che lui stesso, Adamo, diceva di trovarle ; si sentiva un esecutore non altro – questa dicerìa avrebbe potuto destare la sonnacchiosa ma tremenda attività dell’Inquisizione ma non accadde –. Del resto non era ancora in voga, e la mente di Adamo non avrebbe potuto trarne qualche beneficio, l’attitudine della scienza medica di conservare in formalina – non era nota né la definizione né l’oggetto definito – come trofei cognitivi : aborti o cuccioli d’uomo deformi o nati e morti o uccisi per pietà o raccapriccio in segreto ; non esistevano esposizioni riservate di tali trofei nelle facoltà di medicina, la più vicina della quali poi distava da Puy forse ottocento chilometri. Solo esistevano sfortunati viventi cui una malattia o altro accidente avevano assegnato uno stigma di orrore e diversità pericolosa e, si sa, di punizione divina per qualche tenebroso peccato, persino dei genitori o ancora dei nonni ; e questo si copriva il volto butterato dal vaiolo, e quello evitava il commercio con gli uomini se non di sera, quando una sua qualche deformità si confondeva col buio delle strade di allora.

A Puy d’Ogres esisteva dunque una tavernaccia detta dell’Abbacìo che poco dopo il calar del sole si popolava di incubi più che di esseri umani. Gente che per buona o mala sorte aveva trovato nel crimine la rivendicazione alla propria esistenza in vita : capaci quindi di sgraffignare, rubare, rapire e anche di dare la morte con raffinata o brutale abilità ; il tutto a pagamento. Lo scultore Adamo frequentava tali ceffi di cui prediligeva gli umori grevi, lo sguardo distorto ora e subito dopo lo sghignazzo sboccato, esseri cui Goya avrebbe dedicato perlomeno uno dei suoi caprichos ; e dei loro rutti e brontolii Adamo si beava, ascoltava i loro discorsi con passione : il vantarsi di questo o quell’efferato delitto e subito il piagnucolare per un amore rifiutato o ridacchiare per un altro ma conquistato con la violenza e senza pietà magari con il contributo di indegni compari. A quella loggia di mostri il vescovo Filippo, appena ne ebbe notizia chiese di essere iniziato. Stufo di strofinii e baciamano, di mollezze e cene piccanti, di convenevoli e sguardi compiacenti, sazio delle concessioni che al suo potere si facevano per interesse se non volentieri, aveva scoperto il desiderio. Non di qualcosa ma del desiderio in sé. Con un gioco di parole, e purtroppo stando alla periferia del concetto, si potrebbe dire che il vescovo desiderava molto desiderare. Desiderava che il desiderio fosse la più preziosa tra le gemme che possedeva o indossava sulle dita inguantate di fresco ; l’unica che, non tanto la vergogna, quanto la voluttà dell’ascondimento potesse custodire come e più della più segreta tra le segrete. Ambienti questi di cui il palazzo non mancava e in cui non pochi disgraziati languivano del tutto dimenticati se non addirittura ignoti al vescovo che a Puy d’Ogres esercitava anche le funzioni di Inquisitore. Ma questo onere, cui adempiva di malavoglia e con distrazione, gli procurava solo noia e non gli suscitava appunto il desiderio. Ciò che avrebbe invece esaltato il vescovo sarebbe stata la trasgressione, la guerra totale ai vincoli, l’andare oltre le facoltà conferitegli da un sistema che premiava l’eccesso nel piagare, storpiare, a volte assassinare ma tutto sottotraccia, con modestia e reverenza ribaltate a beneficio del pentimento e quindi, che male c’è. Il vescovo bramava l’oscurità. Avrebbe potuto esercitare il suo ministero, ben lo sapeva, nel buio del confessionale, mais à quoi bon. Oggi un personaggio siffatto navigherebbe intatto e forse a lungo intoccabile per il labirinto del dark web e/o si arruolerebbe in un tercio extranjero de los pederastas. Ma allora la tenebra era tenebra, un luogo della mente dove, per dirla come il vescovo stesso avrebbe gradito, Lucifero spandeva la sua nera luce e dava sollievo ai delinquenti.

Si dà il caso che Adamo Boitlâme avesse imparato a produrre e lavorare il vetro. La materia prima, il silicio, abbondava in valle d’Ogres e la curiosità per il lavoro, che riteneva alchemico, di trasformare opaca sabbia in lucente vetro aveva in lui attizzato la voluttà di abbellire le proprie opere anche con intarsi di tale materia, nonché di fabbricare per quelle occhi traslucidi che, alle figure di pietra avrebbero conferito, e lo conferivano senz’altro, un carattere molto minaccioso e non poco squietante. L’arte del vetro gliel’aveva insegnata uno degli avventori della taverna. Detto l’Oxymore era un barattolo corto, a pena più di un nano ma dotato di un torace da tenore e di braccia da wrestler. Costui aveva commesso a suo tempo il doppio delitto di fuggire da Murano dopo avere assassinato sconciandone il busto insino a le vregogne, una ragazza con nessun altra colpa se non di averlo rifiutato : i cacciatori non sprovveduti della Serenissima lo ricercavano per questo e soprattutto per il delitto di avere per certo esportato dall’isola i segreti dell’arte vetraria ; ma laggiù tra quei monti e fiumi e foreste e persino alla taverna dell’Abbacìo era confuso con l’ambiente come un lupo solitario, invisibile ; non diverso dai molti sventurati della sua risma a Puy d’Ogres campava di piccoli e grandi delitti. L’impunità era quasi sempre garantita dai loro quasi sempre e più o meno importanzosi committenti. Come si è detto fare del male altrui per garantirsi agi e posizioni e terre e fattorie era allora pratica comune. Il vescovo Filippo, all’approcciare quella congrega aveva un piano ancora confuso ma questa incertezza soffiava sul proprio fuoco e lo popolava di figure danzanti. Il bello. Non si creda, possedere una dama, intesa femmina, di qualche peso e condizione sociale, era consuetudine diffusa e poco cruenta per lo più, al fine prudente e ragionato di non sciupare l’oggetto ; occorreva che il padre, la famiglia o l’eventuale marito della bella fossero o discreti nel sorvolare o volubili nell’accettare premi ; l’oro o una qualsivoglia compensazione di privilegi e cariche, erano bastevole sutura delle ferite inflitte al loro amor proprio, all’orgoglio e di alcuni, quasi tutti, all’onore di cui molti si vantavano possedere una ragguardevole scorta senza sapere di preciso di che materia si trattasse : tutti a quel tempo però erano d’accordo nel situarne lo zenit tra il monte di Venere e il perineo delle loro donne. Alla dama bastava non averne subite di troppo luride o di superare l’imbarazzo per avere accondisceso, in ogni caso di garantirsi il perdono divino che sarebbe stato il vescovo stesso a distribuire loro, dunque in qualche modo con una garanzia ; il circolo famigliare poteva vantarsi dei vantaggi ottenuti agli occhi offuscati del mondo ; il sarcasmo di un’esigua minoranza magari di bottegai era se mai un male accessorio.

Il vetro. Il vescovo scoprì la meraviglia della fabbricazione del vetro, la ialurgìa, e venne colto dalla bellezza che il fuoco – con la combustione dei corpi dava luogo  tuttalpiù un modesto concime – e una materia considerata semplice e abbondante in quella regione, il silicio, combinati producevano. Non che il vetro non adornasse le finestre del palazzo o non ostentasse il proprio splendore nei bicchieri in tavola. Ma la fabbricazione propria fu per FIlippo una rivelazione molto più potente di quella ottenuta con una qualsiasi caduta da cavallo a Damasco. Occorre capire quanto al vescovo fosse indifferente il possesso per quanto con la stessa radice in potere. Nulla ottundeva di più il desiderio in lui fino a sopprimerlo, nulla, più della cosiddetta soddisfazione della carne. Come a tavola, non si creda ; benché avesse a disposizione il maggiore cuoco della regione, le di colui creazioni non suscitavano in Filippo che un vago appetito ; piluccando ora in un piatto ora in un altro se ne dava ragione e si annoiava a vedere eventuali altri commensali strafogarsi come in seduta permanente all’ultima cena. Ciò che lo colpiva era sempre la perizia con cui il suo cuoco presentava le sue alzate, la forma degli sformati, l’accostamento dei colori, persino la mise en place. Tutto questo bello impermanente lo riconduceva al sentiero senza meta dell’alcova dove la consumazione dell’atto noto sciupava la dolcezza della quieta contemplazione del nudo altrui, della sua armonia, del tenero colore della pelle, dell’ombra sul pube ; sperando non nascondesse pidocchi. Lucrezio – de rerum natura/la natura delle cose – era la lettura nascosta del vescovo, bisogna ricordarsene ; sicché egli non riusciva a non vedere sotto la pelle più bella, la struttura della macchina, struttura di cui egli, come tutti, conosceva il decadimento ancora prima della sua morte, al procedere inesorabile oltre l’evento della quale aveva assistito in occasione di non poche esumazioni. E se ne crucciava. Il desiderio è forse la determinazione folle a trincerarsi dentro una bolla percettiva dove le cose, le rerum, restino in saecula saeculorum ferme nel loro più gradevole e protettivo aspetto ; a conservare la bellezza che il tempo lui sì è pronto a far trascolorare in tutte le figure cui ha facile ed effimero accesso. Tranne nel vetro. Durante un viaggio a Roma gli erano stati mostrati vetri antichissimi, sottratti alla polvere dei secoli : una spolverata, una lavata e risplendevano come nel giorno del loro raffreddamento. E a Napoli, il duca Caetani stesso gli aveva mostrato, nel suo piccolo gabinetto delle meraviglie, o Wunderkammer, una sorprendente mosca intrappolata per sempre nell’ambra con il suo ultimo respiro, se le mosche respirano. Quindi il vescovo in quel materiale così puro com’è scaturito dal fuoco e soffiato dallo spirito santo, per così dire, del soffiatore, intravide la possibilità di superare i lacci di quella che lui ereticamente, e lo sapeva, considerava una creazione molto imperfetta, divina sì ma non poco maligna se intrappolava le mosche e non solo : perché mai lo sviluppo della bellezza non si fermasse a diciassette o diciotto anni era per lui motivo di una intangibile sofferenza.

Si accordò pertanto con Adamo per studiare e sperimentare la possibilità di conservare sotto vetro le più belle tra le fanciulle della contea. Con le dame locali l’esercizio sarebbe stato difficile senza dire pericoloso : quale famiglia avrebbe accettato la scomparse improvvisa delle propria figlia o consorte senza annusare  profumo di vescovo. Tra il popolo minuto e peggio tra i diseredati, i Lumpen, la sottrazione di una bocca al desco sfiorito sarebbe parsa una dolorosa mancanza da principio e una benedizione in seguito ma trovare il bello là in mezzo alla fame, alle privazioni, ai cenci, alla scabbia era cosa ardua. Così Adamo si incaricò di mettere su in gran segreto e fidando nel silenzio dei più biasimevoli tra i frequentatori della taverna dell’Abbacìo, di costituire una banda, un sonderkommando di pochi ma buoni e che non avessero grandi mancanze fisiche, con il compito di battere le plaghe più lontane, le malghe più isolate, di superare foreste e confini e setacciare paesi e, se possibile qualche grande città lontana alla cerca di esemplari notevoli del genere femminile. Oltre il compenso garantito anche il diritto alla violenza d’uso, come la chiama Marguerite Yourcenar, cioè all’abuso. Si procedette, gli uomini furono lavati e rasati e rivestiti perché l’aspetto esteriore non ne rivelasse fin dal primo ghigno l’intento sordido e fu loro ordinato di curare d’ora in poi il proprio aspetto nonostante le lunghe giornate a cavallo da affrontare. E così fu, gli uomini rapirono in breve alcune perle e divennero abilissimi tanto nel rifornirsi di primizie quanto nel far perdere le loro tracce, sicché le scorrerie che subito venivano intentate per acciuffarli non avevano né ebbero mai esito fausto.

In un luogo appartato del contado, in corrispondenza di un borgo tempo addietro spopolato da una peste e mai più ripopolato, il vescovo aveva fatto riattare quel complesso di edifici, uno per la fornace, uno a magazzino alimentare perché nulla mancasse al benessere della banda e delle fanciulle prigioniere e uno infine che facesse da reclusorio e mensa per quelle. Intanto Adamo e l’Oxymore avevano studiato per bene il processo cui intendevano sottoporre le ragazze, processo che doveva evitare in primis l’evaporazione del corpo o le ustioni più raccapriccianti. Fu messo in conto qualche fallimento così gli uomini procedettero su una fanciulla per volta. Dopo essere stata lavata in tutte le sue parti con un bagno da fiume giordano e pettinata e dopo essere stata molto ben drogata, la persona veniva soppressa con un cuscino sulla bocca e quindi avviata al folle esperimento. Inutile dire che la prima di tutte evaporò all’istante iniziale di metterla sotto vetro, e che la seconda si ridusse a una mummia carbonizzata. L’Oxymore studiò la possibilità di ungere il corpo eletto con generose dosi di un unguento per solito usato per abbassare la temperatura del vetro. Il piano iniziale di modellare sui corpi, senza bruciarli, un vaso di nobile fattura, tapparne la bocca scaldandola per levare l’aria, fu via via modificato, semplificato, aggiornato, portato a compimento. L’operazione sotto vuoto avrebbe nelle intenzioni garantito la conservazione e preservato il bello della creatura perché smettesse di essere un divenire e consistesse in un eternità. Qualche difficoltà fu data dalla forza di gravità : qualunque fosse la posa leggiadra che si fosse deciso di dare alla cavia, l’inerzia del corpo lo precipitava ad afflosciarsi. Ma la tenacia del mezzo nano Oxymore, la perizia dello scultore Adamo e la voluttà del primo motore, Filippo conte di Puy d’Ogres et Mêmezelles trasformarono presto l’esperimento in un industria di successo finché al vescovo restò una bella collezione di fanciulle sotto vetro. I loro volti non tradirono mai l’agonia ma una dolce indifferenza. Il desiderio di desiderare fu appagato a usura.

In una cupa giornata di tempesta, il vescovo, ormai non più giovane, morì di ritorno a palazzo : una saetta scoccata da un nuvola accorta ne colse alla sprovvista il cavallo che si imbizzarrì e in pratica lanciò per aria il vescovo ormai non più tanto agile ; da quel fulmine Filippo d’Ogres e Mêmezelles non ebbe il tempo di avere rivelazioni, precipitò in un vedo e svedo e si spaccò testa e schiena. Al suo ufficio fu nominato poco tempo dopo da fuori un sostituto. Il museo delle fanciulle in vetro venne scoperto per caso, ma c’è chi dice in seguito a una soffiata, e tanto velocemente coperto da un coltrone di non detto-non visto-non fatto. Qualche esitazione comportò il dubbio se e quale funerale officiare e con quanta segretezza a quei resti.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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