
Autore: Ramiro Pinilla
Data di pubbl.: 2020
Casa Editrice: Fazi
Genere: Letteratura spagnola, Romanzo
Traduttore: Raul Schenardi
Prezzo: € 18,00
Nel giugno del 1937 la città di Bilbao cade nelle mani dei franchisti. Il Cinturone di Ferro (Cinturón de Hierro), un sistema di fortificazioni composto da tunnel, trincee, bunker deputato a proteggere la città dall’attacco delle truppe di Franco, si sfalda, rivelando tutta la sua insufficienza. I Paesi Baschi sono presto infestati da squadracce di falangisti, sguinzagliate in operazioni di rappresaglia contro “rossi”, repubblicani, anarchici e nazionalisti locali. È questo il contesto storico de L’albero della vergogna, un romanzo sul dolore e sulle ferite del Novecento spagnolo.
Ramiro Pinilla (1923 – 2014), autore schivo e appartato, tra i maggiori scrittori iberici del secolo scorso, molto apprezzato da Fernando Aramburu, affida alla voce di Mercedes Azkorra, una maestra, il compito di introdurre l’antefatto. Nel 1966 il sindaco e la giunta di Gexto, cittadina affacciata sul Golfo di Biscaglia, individuano nella piana di Fadura il punto ideale dove edificare un istituto per l’insegnamento secondario. Un eremita conosciuto in gioventù come Ficodindia è raggiunto da un provvedimento di esproprio. Ficodindia, installatosi laggiù da decenni, in una misera baracca all’ombra di un fico carico di fioroni, ha guadagnato suo malgrado la fama di santone capace di miracoli. Rogelio Céron, questo il vero nome del solitario, si mostra da subito contrario all’idea di andarsene: non abbandonerà mai quella radura, non si staccherà mai da quel fico frondoso da lui stesso innestato trent’anni prima, un albero curato, protetto, di cui, peraltro, non ha mai gustato i succulenti frutti (anzi, fiori, perché la scrittura puntigliosa di Pinilla ci rammenta che del fico si mangiano i fiori e non i frutti). Un’ostinazione che non muta anche quando il comune propone, in cambio, di donargli appezzamenti di terra sensibilmente più grandi.
Dietro quell’uomo c’è una storia. La narrazione si traduce in una ricognizione degli eventi accaduti, in una testimonianza distillata goccia a goccia, in una sfida all’oblio. La memoria di Mercedes ritorna agli anni della guerra civile. È un viaggio, a ritroso, verso le radici della sofferenza sociale e politica di una comunità.
Guerra civil. Mercedes ricorda… A Las Arenas, una frazione di Gexto, vive il maestro Simón Garcia, socialista, uno che preferisce “una scuola senza crocifissi”, con sua moglie, i suoi figli e un’anziana madre. La casa è modesta e si fa notare per un grande albero di fico che si erge baldanzoso nel giardino. La narrazione riprende i dialoghi timorosi, sensibili, con l’amato Manuel, uscito di galera nel 1938, una volta acquietatesi le sfuriate falangiste. Sbocciano, dissepolti dalla dimenticanza, i resoconti drammatici di Pascuala, un’altra collega, accorsa presso l’abitazione di Simón una volta appurata la sua scomparsa.
Mercedes ricorda… Una sera sei falangisti, guidati da una spia del luogo, Joseba Ermo, bussano alla porta di Simón. I falangisti, davanti agli occhi sgomenti dei familiari, arrestano il maestro e lo portano via, insieme al figlio primogenito di sedici anni, un’età giudicata lo spartiacque tra il bambino e l’adulto, tra l’innocenza e la colpa. Rogelio, figura misteriosa, ieratica, compare nella radura poco dopo quell’evento e desta la curiosità dei suoi alunni, molti dei quali gravati da un lutto a causa delle violenze falangiste, un padre, un fratello o uno zio triturati dal fascismo. L’ostinazione di Rogelio è un enigma. Mercedes ripercorre il catalogo di interrogativi, e di parziali risposte, scaturite dalle apparizioni di altri soggetti, accorsi laggiù presso il fico, con regolarità sospetta, sempre allo scopo di distogliere l’eremita dalla sua mania, con esiti invariabilmente fallimentari. Cinque uomini raccolti in una losca congrega, una donna pia, una ragazza di città… Ramiro Pinilla assegna, quindi, a Rogelio l’onere del racconto diretto, in prima persona. La lunga parte centrale affronta i fatti e smaschera l’orrore.
Il viaggio procede nel silenzio più assoluto. Qualcuno si schiarisce la gola… Non è la prima volta che passiamo per le armi un maestro; il primo è stato a Valladolid, il secondo a Segovia. Non è difficile liquidare una persona. Si decide e lo si fa. Nel momento cruciale ci guardiamo l’un l’altro e senza parlare sappiamo chi premerà il grilletto…
In principio furono gli occhi di Gabino, bambino di dieci anni, occhi puntati sul giovane Rogelio, falangista di Valladolid, freddi come la pietra. Gabino è il figlio minore del maestro Simón. Nessuno degli altri falangisti, anch’essi poco più che ragazzi, si accorge di quello sguardo senza lacrime che osserva, accumula, registra gli eventi, fotografa l’immagine atroce ed eterna di un padre e di un fratello presi con brutalità e condotti al macello tre le fauci di una notte nerissima. A poca distanza, i due sono freddati con un colpo alla nuca. Fructuoso Ordóñez, Eduardo García, Salvador Fernández, Luis Ceberio, Rogelio Céron sono comandati da Pedro Alberto, rampollo di una famiglia ricchissima, gli Echabarri, proprietari di un palazzo nobiliare a Neguri, in Biscaglia. Dio, patria e famiglia. Il franchismo si racchiude in un motto poco intellegibile ai suoi stessi accoliti: ‘La Spagna è un’unità di destino nell’universale’. Per Rogelio liberare la nazione da atei e comunisti è un dovere assoluto da compiere con naturalezza. Fino all’incontro con gli occhi di Gabino. Solo Rogelio, tra i sei lì convenuti per ‘ripulire’, per assassinare, avverte il peso della maledizione, il marchio a fuoco della futura vendetta. A sedici anni, pensa Rogelio, il ragazzo lo cercherà per ammazzarlo.
Ma dov’è quel terreno? Non conosco Gexto, mi ci hanno portato in macchina. Era una casetta circondata dai campi. Sì, con un grande albero lì vicino. Ci passava davanti la strada sterrata. Una strada che scendeva, scendeva…
Rogelio si distacca dalla routine fatta di scorribande e oscene cacce all’uomo. È sconvolto. In lui si è rotto qualcosa. Non è pentimento, ma un sentimento ancestrale, ferino, che addenta l’animo. Rogelio pensa ossessivamente a quei due occhi che recano una dura promessa. Fa finta di ammalarsi per evitare la ronda. Trova una sponda in Cipriana, donna di fede, moglie del laido Benito Muro, sindaco franchista e traditore, che ha aperto le porte di casa alla squadraccia in camicia blu. Ogni notte, mentre i camerati si prodigano in azioni omicide, torna al terreno, là dove due spari hanno aleggiato nel silenzio mettendo fine alla vita di maestro e figlio primogenito. Ed è lì che sta Gabino, in oscura attesa.
Avverto la sua presenza ancora prima di averlo nel fascio di luce, per farlo dovrei ruotare la torcia di novanta gradi. Non la muovo. La sua figura è in nero, immobile, una statua.
I corpi, forse seppelliti dal bambino stesso con le sue mani, riposano sotto terra. Sulla tomba, conficcato, sta un ramo verde da innaffiare, anzi una talea, un germoglio, gli verrà detto da qualcuno, spiccato dal fico originario. A Rogelio non resta che consumare un muto patto. L’albero dovrà attecchire, crescere, risaltare in bellezza e lui ne sarà il garante dagli attacchi di belve e assalitori, in particolare dalle voglie del delatore Joseba Ermo, affamato di inesistenti tesori. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, sentinella vigile, Rogelio attende lo scoccare della vendetta, con il sospetto rassicurante di averla scongiurata. Grazie a lui Gabino entra in seminario.
Poteva uccidermi al compimento dei sedici e non lo ha fatto. Significa forse che il seminario lo ha avvicinato tanto a Dio che prendere l’abito non sarebbe più necessario?
L’albero della vergogna è un romanzo sul valore storico-politico dei segni. Laddove il segno è cancellato, svapora la memoria. Ramiro Pinilla racconta il passaggio dal manganello al doppiopetto, ovvero la ‘normalizzazione’ del franchismo. Non stupisce la determinazione di Pedro Alberto, erede di un impero industriale, nel voler eliminare le tracce delle sue sadiche esecuzioni. Il fico attesta un crimine. Non solo il suo, bensì quello di un intero regime costruito sulla paura, sulla tortura e sulla prassi dell’epurazione assassina. L’albero calamita il passato e non lo fa cessare. L’albero è una crepa nell’ordine delle cose, un indice puntato sull’inenarrabile.
Dotato di una scrittura limpida, a tratti incantata, Pinilla sa restituire lo sconcerto di una comunità assalita nel profondo dalla bestialità del fascismo, complici alcuni uomini di Chiesa, indecenti alleati dei volenterosi carnefici di Franco, come Don Eulogio, carlista (“Le famiglie si rivolgono a lui e gli chiedono certificati di buona condotta per salvare dei condannati alla fucilazione, ma lui non ne rilascia neanche uno”). L’albero della vergogna è un’opera scritta nell’inchiostro del perdono e della misericordia.