
Autore: Raduan Nassar
Data di pubbl.: 2019
Casa Editrice: SUR edizioni
Traduttore: Amina Di Munno
Pagine: 140
Prezzo: € 15,00
Raduan Nassar, scrittore brasiliano, vivente, si è assentato dalla letteratura una quarantina d’anni fa, dopo la pubblicazione di due soli romanzi, entrambi di estremo valore, Un bicchiere di rabbia e Il pane del patriarca, oltre a una manciata di racconti. Strana scelta, quella di tacere, a capolavoro compiuto, il proprio talento, che la critica riconosce e i lettori certificano. Le parole dei pochi libri venuti alla luce forse distillano, goccia a goccia, tutto ciò che doveva essere detto? L’impressione è quella di un gesso che ha tracciato il suo cerchio, un limite a segnare i confini dell’opera, definita e finita, schiusa al termine di un processo di maturazione che non prelude a passi successivi. Questi autori, si veda anche l’esempio emblematico di Mark Hollis, mente creativa dei Talk Talk, recentemente scomparso, autoesiliatosi dalle scene dopo averci donato due gemme della musica (post)rock contemporanea, Spirit of Eden e Laughing Stock, testimoniano la scabrosa inattualità del genio, in un’epoca dominata da ego artistici vacui, muscolari, e contrassegnata dall’inflazione delle parole.
Il pane del patriarca racconta la fuga di André dalle mani callose e dai sermoni, gonfi di certezze, di un padre solenne. Padre arcaico, padre architrave, padre biblico, padre baricentro di una fazenda. I figli e le figlie del patriarca sono tenuti a rispettare le regole sobrie del tempo contadino e i ritmi umili delle stagioni, leggi scritte e non scritte, pesanti, inconfutabili, solide come pareti di pietra. La fede è una lucida veglia che non ammette l’oscillazione del dubbio. André trova rifugio, in un altrove, lontano, tra le quattro mura di una stanza, un luogo di espiazione, un ambiente oscillante tra il reale e il metafisico. Qui, è rintracciato da Pedro, fratello designato a succedere al pater familias nella linea di comando, per essere riportato indietro. Il giovane ribelle esterna la sua confessione, grida lo scandalo raccolto nelle carni. Le ragioni di una partenza, rapida e incomprensibile, sono oscene. Ana è il motivo dei suoi sospiri profondi, Ana è il tormento e la vergogna, Ana è la pietra d’inciampo verso la santità, Ana è l’abisso imperscrutabile della lascivia, Ana è la porta d’accesso per i pensieri turpi, Ana è colei che solletica istinti indicibili. Ana è sorella e amante, Ana è la parola aliena, espulsa, obliterata. André, novello figliol prodigo, mostra al fratello le stigmate dell’incesto.
Fu quello l’istante: lei oltrepassò la soglia, girandomi intorno come se avesse girato intorno a un pezzo di legno ritto di fronte a lei, impassibile, secco, altamente infiammabile; non mi mossi, continuai a essere quella trave tesa, anche se sentivo i suoi passi folli dietro di me e intuivo che una sostanza oscura offuscava i suoi occhi, ma l’ombra indecisa prese a poco a poco a descrivere movimenti disinvolti, che si persero in seguito lungo il tunnel del corridoio: chiusi la porta, avevo tirato il filo, sapendo che lei, in qualche luogo della casa, immobile, con le ali abbassate, si sarebbe trovata sotto il peso di un destino forte…
In questo testo, germogliato nella grazia più aspra e nel cupo incanto, Raduan Nassar evoca, da un’oscura profondità, le opposizioni filosofiche fondamentali, la quiete e il moto, l’essere e il divenire, l’uno e il molteplice, l’oggettivo e il soggettivo. Uno è il regno del patriarca, immutabile, uniforme, vero per tutte le sue creature, valido in ogni piega di spazio, angolo di tempo e circostanza. Questa unità intima ed essenziale, sottolinea Emanuele Trevi nella prefazione, è una pretesa fragile, una calma illusoria, un comando minato, nei presupposti, dal caos dei fluidi, dal disordine apparecchiato dall’eros. Il dominio paterno è verbo che si dispiega grave sopra i campi, eppure ignaro della disubbidienza che cova nel giardino edenico, è autorità che dilata la propria voce e piega l’attenzione filiale alla reverenza incondizionata, orecchio sordo però ai lamenti inquieti della terra. Il disegno dell’uomo imita la volontà inflessibile di Dio, ma il piano si incrina nell’ignoranza del margine, la caricatura morale scivola nel dirupo. La sicurezza del sempre è frantumata da una carica dinamitarda opposta e contraria, sovversiva ed eversiva.
La lingua adottata da Raduan Nassar impasta la materia letteraria assecondando la potenza del ricordo e del desiderio. I capitoli affiorati dal rovello interiore della memoria sono costituiti, ciascuno, da un unico periodo, lungo e ossessivo, senza punti a separare i paragrafi, respiri concatenati in successione, riflessioni dal sapore agostiniano rivolte ad un dio capovolto, esternazioni dure del vissuto. Le parole sono forgiate in un lirismo denso. Durante la lettura tastiamo la traccia lasciata da impressioni tattili, intravediamo oggetti ed eventi sepolti tra le ciglia dell’infanzia del narratore, verifichiamo la presenza di ombre pericolose, ostili, suadenti. Sono gli ostacoli che ingombravano lo sguardo di André prima dell’orizzonte, sono le sentinelle della sua liberazione. Il pane del patriarca ha la palpabile ruvidezza e l’eleganza arcaica di un vaso d’argilla prodotto da mano maestra e ignota, detiene l’aura di un reperto meraviglioso. Opera dai contorni quasi gnostici, il romanzo alimenta il fuoco della componente orale, del parlato, del detto. I dialoghi tra il figlio tornato all’ovile e il padre convinto, erroneamente, del suo successo spirituale, scavano nel fango del peccato con un andamento ellittico, denudano la questione scantonando nel pudore, cercano un bilanciamento e un riparo nell’ipocrisia conclamata. Il tradimento dell’ordine è una sedizione silenziosa.
Il tempo, il tempo, il tempo e i suoi cambiamenti, sempre consapevole del progetto più ampio e, attento alle rifiniture, sempre zelante riguardo la più piccola riparazione, presente in ogni luogo, in ogni palmo, in ogni chicco e presente anche, con i suoi istanti, in ogni lettera di questa mia storia passionale, che trasforma la notte scura del mio ritorno in un mattino pieno di luce e crea da subito lo scenario per celebrare la mia pasqua, ritoccando, astuto e lucido, il paesaggio rustico di casa, profumando i nostri campi ancora umidi, intensificando i colori dei nostri fiori, tracciando con destrezza le linee del suo teorema, attirando, sotto un enorme rete azzurra, molte colombe in volo…
Con un atto di comunicazione malata, confluito in un movimento di dissimulazione, provvisorio e impossibile, muore definitivamente l’amore, termina la comunanza d’intenti, evapora la compattezza del progetto originario. La festa finale, di redenzione e orgiastica insieme, sanziona la deflagrazione cosmica. Il ballo, i piedi glabri, il vino misto al sudore, l’apparizione mistico-sensuale di Ana, svelano la presenza del dionisiaco strisciante. È il trionfo tragico del ramo materno, origine di ogni carezzevole lussuria nell’elaborazione archetipica di André, sull’ostinazione coriacea del ramo paterno. L’imperativo categorico è destinato a perdere, a sbriciolarsi miseramente. Il pane del patriarca è opera di alta letteratura, estranea a scuole e a filoni codificati, ambiziosa, colta. Nassar è stato accostato, dai critici, alle firme importanti del novecento brasiliano: Clarice Lispector, per la refrattarietà anarcoide alle categorie letterarie e ai generi, e a João Guimarães Rosa, per la capacità di unire l’afflato epico alla de-costruzione consapevole della tradizione. A essi, non si può che aggiungere il grande Glauber Rocha, regista di un cinema nuovo, politico, immaginativo. Leggere Raduan Nassar significa abbracciare la vertigine e scovare, nelle allegorie e nelle metafore, un seme di incertezza che germina in un fiore di nera bellezza.