Albert Camus – La peste

Titolo: La peste
Traduttore: Yasmina Melouah
Pagine: 336
Prezzo: 13 euro

Forse questo non è il momento più indicato per leggere o rileggere La peste di Camus. Eppure, quando incontriamo i suoi personaggi principali, il dottor Rieux, la sua profonda umanità e la sua logica ineccepibile, il giornalista Rambert che vorrebbe solo fuggire per tornare dalla donna amata, Padre Paneloux pieno di una fede incrollabile, il modesto impiegato Grand che sembra aver trovato nello studio della frase perfetta un antidoto alla disperazione, il piccolo delinquente Cottard che nel dilagare del morbo vede un’opportunità per i suoi commerci e il misterioso Jean Tarrou, storico di ciò che non ha storia, ci scopriamo trascinati in una vicenda narrata con precise e stringate parole che ci conduce ben al di là del suo tema principale: una tremenda epidemia di peste che sconvolge per quasi un anno intero la vita della città algerina di Orano.

“Orano è una città priva di intuizioni, cioè una città assolutamente moderna.”

Così la descrive Camus: una città banale, normale, che per giunta dà le spalle al mare per rivolgere all’interno il proprio sguardo. Una città come tante, popolata da gente dedita ai commerci, alla bella vita come alle piccole e miserevoli attività di ogni giorno. Abitata da ricchi, da un ceto medio e da poveri. Con un clima mite d’inverno e torrido d’estate. Un luogo senza infamia e senza lode.

Questo prologo suona però come un campanello d’allarme: tanta normalità, lo scorrere tranquillo del tempo, la vita ordinata degli abitanti, le loro banali trasgressioni e la loro tiepida devozione alle messe domenicali, non sono garanzia di alcunché. E infatti, un giorno qualunque, né migliore né peggiore di altri, i topi cominciano a morire. A centinaia, a migliaia. E dopo i topi, poco alla volta, tocca agli esseri umani. I quali, le autorità cittadine per prime, stentano a credere che qualcosa di così terribile stia capitando proprio a loro, proprio alla città di Orano:

“Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione.”

Pagina dopo pagina, con un rigore e una sobrietà esemplari, Camus ci racconta il progredire del morbo attraverso la voce di un narratore la cui identità ci verrà svelata solo alla fine, e i taccuini del misterioso Tarrou che pare annotare eventi all’apparenza insignificanti, ma che in realtà hanno il potere di sottolineare quella falsa normalità che s’instaura in un consesso umano in tempi di crisi profonda. In realtà, poiché l’essere umano gode della peculiare abilità di adattarsi, saranno in molti, dopo lo sconcerto e il panico dei primi tempi, a tentare di ricostruire la propria esistenza nell’isolamento della città in quarantena dove più nulla giunge dall’esterno e più nessuno può entrare o uscire.

“Insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro, eravamo come quelli che la giustizia o l’odio umani fanno vivere dietro le sbarre. Per finire, l’unico modo per sottrarsi a quella vacanza insopportabile era far ripartire i treni con l’immaginazione e riempire le ore con gli squilli ripetuti di un campanello pur ostinatamente silenzioso.”

Ciascuno dei protagonisti troverà un suo personale modo per affrontare la tragedia e il senso di precarietà che il momento impone: chi, come il dottor Rieux e i suoi colleghi, attraverso la cura quotidiana e instancabile dei tanti pazienti, in questo aiutato da Tarrou il quale, sebbene potrebbe infischiarsi di tutto e tutti, diventerà per un profondo senso di giustizia e pietà, uno dei cardini nell’organizzazione dei soccorsi; chi, come Rambert, rinuncerà al sogno di tornare dalla donna amata per dedicarsi ai sofferenti, o ancora chi come Grand persisterà nel chiudere gli occhi e concentrarsi sull’incipit del proprio manoscritto anche sapendo che forse non vedrà mai la luce. E infine chi, come Padre Paneloux, accetterà di buon grado la morte persistendo nella propria fede.

Un romanzo, questo di Camus, oggi di grande attualità non solo per il tema trattato, ma per le mille considerazione espresse su cosa significhi vivere in uno stato di forzato isolamento generato da un’epidemia, su come gli uomini agiscano e reagiscano in situazioni estreme e come i caratteri e le storie delle loro vite possano influenzare tali reazioni. Un romanzo con pagine meravigliose e terribili e dunque eterne.

“Nessuno fra noi provava più grandi sentimenti. Ma tutti provavano sentimenti prevedibili. “È ora che finisca,” dicevano i nostri concittadini, perché in tempi di flagelli è normale desiderare la fine delle sofferenze collettive e perché in realtà desideravano davvero che finisse. Ma non era detto con l’ardore o l’aspro sentimento dell’inizio, bensì con quelle poche ragioni che per noi erano ancora chiare, e che erano povere. Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso.I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti.”

Nulla è per sempre, tutto prima o poi passa e finisce. E se questa è una consolazione e una speranza, resta da chiedersi quale insegnamento si possa trarre dai giorni bui e dal ‘tempo sospeso’ che anche noi, come la città di Orano, stiamo vivendo.

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