A tu per tu con… Wu Ming 2

Quattro chiacchiere con Wu Ming 2
Nel suggestivo scenario alpino e lacustre di Verbania, abbiamo incontrato l’artista Wu Ming 2, in una calda giornata di inizio estate, il 24 giugno 2011. In occasione di LetterAltura 2011, Festival di letteratura di montagna, viaggio, avventura, lo scrittore ha dialogato con Marco Casa, sul tema “L’Appennino in slow motion”. Wu Ming è lo pseudonimo di un collettivo di scrittura, che ha scritto vari romanzi di successo (Q, Asce di guerra, 54, Manituana e Altai), ed è lo sviluppo italiano in senso letterario del movimento europeo Luther Blissett. Wu Ming 2 ha scritto dei romanzi anche da solista (La ballata del corazza, Guerra agli umani, Il sentiero degli dèi). L’amore per la montagna, la fuga, la libertà intellettuale, l’ecologia, sono alcuni dei temi che stanno più a cuore all’autore; nel dialogo con Marco Casa ripercorre la genesi, i motivi di ispirazione, le esperienze e le ricerche che stanno dietro al suo romanzo Il sentiero degli dèi, in cui Gerolamo, il protagonista, decide…

di valicare a piedi l’Appennino, da Bologna a Firenze, per scoprire il mondo che i nuovi treni dell’Alta Velocità attraverseranno in galleria, senza potergli dedicare neanche uno sguardo. Gerolamo si mette in strada, per scoprire le vittime di questo delitto annunciato. Cosa ci si perde, a guadagnare venti minuti di tempo nel percorso tra due città? La risposta, per nulla scontata, arriverà dopo cinque giorni di viaggio a 5 km all’ora, tra incontri e leggende, disastri ambientali e ruderi di antiche locande. Nel nostro dialogo abbiamo cercato di capire e conoscere meglio Wu Ming 2 e le sue storie.


Ti sei mai avvicinato alle Alpi e ai suoi luoghi?
E’ con le Alpi che ho iniziato a camminare, perché anche a Bologna solo le Alpi sono considerate “vere montagne”. E così la mia famiglia mi portava tutte le estati in Val di Sole, in Trentino, quella valle che sale al Passo del Tonale, ed è lì che mio padre ha iniziato a portarmi in giro per sentieri, a comunicarmi l’idea che andare per sentieri non è tanto un’attività sportiva quanto l’aderire a una sorta di cultura, di filosofia, con delle regole da rispettare…forse sono le regole che ho rispettato più volentieri nella mia educazione e nella mia adolescenza. Ferrate, piccole scalate, sentieri, ed è da lì che è nato tutto l’amore.
Cosa significa per te il tuo territorio, cos’è che ti lega visceralmente ed emotivamente ad esso?
Secondo me il territorio è un’antologia di storie in continuo divenire, continuamente modellate, riscritte, modificate, ne vengono scritti degli spin-off, ne vengono cambiati i finali, ne vengono scritte delle alternative, tutte affastellate una sull’altra. Il territorio è scritto in un linguaggio abbastanza particolare, ed è affascinante perché bisogna imparare a capirlo, è come imparare una lingua. E poi bisogna essere in grado di tradurlo, come quando si impara il greco e si è contenti del fatto di saper tradurre nella tua lingua un testo antico.
Diffido molto da quelli che del territorio e delle sue storie ne fanno un vessillo identitario, cioè qualcosa di immutabile, di dato una volta per tutte, addirittura di sovraumano, come se il genius loci, lo spirito di un territorio, fosse qualcosa che non dipende dalle persone che ci abitano e quindi che non viene modificato dalle persone stesse, ma che sia dato una volta per tutte. Il territorio viene quindi travisato, per cui non è più un qualcosa che risponde all’interazione tra una comunità e un ambiente, ma diventa un qualcosa da venerare, da mettere in una teca solo per conservarlo e per usarlo magari a scopo elettorale.

Ti riferisci a qualcosa in particolare?
Mi riferisco a qualcosa di molto preciso, per esempio l’uso che fa la Lega fa delle tradizioni, spesso reinventate. Lo stesso termine “tradizione” coniugato a “territorio” mi spaventa molto, perché c’è l’idea che ci sia qualche cosa che va trasmesso senza mai toccarlo, senza mai modificarlo. La Tradizione con la T maiuscola, reverenziale, indica questo. Invece l’interazione di storie con un territorio è qualcosa che mi coinvolge di più, per me insomma le radici sono queste: saper leggere il libro che il paesaggio scrive nel territorio vicino a dove sei abituato a stare, a vivere, ovviamente il territorio che conosci meglio.

Cos’è esattamente la sindrome da pilota di cui parli nel libro?
Secondo me la sindrome da pilota è il fatto che non riusciamo a cambiare il nostro sguardo nemmeno quando andiamo lenti. Siamo cioè abituati a guardare le cose come se fossimo alla guida di un’automobile, che è la modalità che più spesso utilizziamo per attraversare il territorio, soprattutto il paesaggio non urbano. Siamo abituati ad attraversarlo in macchina o in treno, cioè con una modalità veloce, senza soffermarci a leggere il paesaggio, e questo atteggiamento mentale che si estende anche a quando andiamo lenti è definibile sindrome, secondo me, perché appunto nonostante tu stia andando a piedi, nonostante tu stia andando a 5 km orari, in realtà è come se avessi i pistoni nel cervello ed è come se i tuoi occhi guardassero le cose a 130 km all’ora.

E secondo te questo è un lascito della modernità o è un anelito dell’uomo, quello di arrivare sempre oltre?
Sono le due cose insieme, nel senso che da un lato prima di tutto c’è l’idea e la voglia di arrivare, indubbiamente, per cui andando da Bologna a Firenze la cosa che mi interessa è Firenze, è arrivare là, metterci cinque giorni, ecc.. e magari questi pensieri mi fanno dimenticare quello che sto attraversando. Dall’altra parte poi siamo proprio abituati ad andare e a guardare le cose a certe velocità. Questi due fattori insieme (la voglia di arrivare e l’abitudine alla velocità) ci rendono veramente ciechi in certe situazioni, incapaci di guardare le cose.

Il protagonista, come dichiari all’inizio del libro, è fittizio. Ma quindi ha un qualche scopo preciso il dotarlo di profondità introspettiva e di salde radici? Questo anche in confronto ai romanzi scritti collettivamente, in cui i personaggi sono meno definiti in quanto a storia e a radici.
In realtà questo è un tipo di approfondimento che stiamo cercando di fare anche nei romanzi collettivi, a differenza del nostro primo romanzo Q in cui c’era effettivamente un protagonista senza una storia, senza un passato, la cui profondità psicologica si manifestava soprattutto in quel che faceva. Ne “Il sentiero degli dèi” l’idea era quella di utilizzare un personaggio fittizio con una sua storia, una sua vicenda, proprio per scardinare il formato del diario di viaggio. Normalmente quando si racconta un viaggio lo si fa in questo formato: io ho fatto questo viaggio, io te lo racconto per come l’ho vissuto. Farlo invece vivere a un personaggio fittizio, però costruendolo con una sua psicologia e un suo passato, secondo me poteva dare al lettore una reazione straniante: sto leggendo un diario di viaggio, però con un protagonista fittizio. Allora che cos’è? Sto leggendo un romanzo, non è vero che è un diario di viaggio? Volevo creare questo spiazzamento nel lettore.

A proposito di questo, nell’introduzione dichiari che questo libro può essere tutto ma può anche essere niente: una guida, una raccolta di novelle, un diario, un saggio ecc… Il tuo intento è unicamente quello di creare questo effetto straniante oppure c’è dietro un tentativo di costruire nuovamente un altro tipo di arte, un altro tipo di letteratura?
Addirittura io tra le altre cose nell’introduzione dico che probabilmente questa non è letteratura, per affermare anche che non mi interessa questa classificazione. Senza arrivare ad “un altro tipo di letteratura”, il tentativo era quello di fare un cosiddetto “oggetto narrativo non identificato”, cioè un oggetto, un libro, che racconta qualcosa, che inevitabilmente è narrativo, ma che è difficile da classificare. Ho fatto questo perché penso che sia soltanto con questo tipo di oggetti che si sposta la frontiera di “che cos’è un romanzo”, “che cosa deve fare la letteratura” e “che cosa deve fare un narratore”. Questo è il tipo di sperimentazione che mi interessa. Una sperimentazione sulla forma di quello che scrivo, sul genere di quello che scrivo, più ancora che sulla lingua stessa. Dal punto di vista linguistico credo che la lingua serva per trovare le parole giuste per raccontare il mondo, quindi che vada usata in maniera consapevole, ma preferisco usare una lingua non particolarmente sperimentale, a prima vista, e invece sperimentare di più sulle strutture.

Il tema della salvaguardia dell’ambiente è molto forte e sentito nel tuo ultimo libro. Hai qualche idea su come affrontare il problema energetico attuale? E poi esiste un problema energetico, o è ancora una volta una creazione di bisogni che in realtà non abbiamo?
Dunque io penso che il problema energetico si debba affrontare innanzitutto dicendo molto chiaramente che l’unica energia pulita che possiamo produrre si misura in “NEGAwatt”; è cioè l’energia che non dobbiamo produrre, che non dobbiamo utilizzare. Il modo migliore per produrre energia pulita è risparmiarla, e quindi cercare di adottare prima di tutto individualmente poi collettivamente uno stile di vita che consumi meno energia. Dover installare delle pale eoliche per poter tenere accese le luci nei negozi la notte, sinceramente non mi sembra energia pulita, non mi sembra il modo di affrontare il problema. Poi è chiaro che un investimento sulle energie rinnovabili ha tutta una serie di vantaggi. Il fatto stesso che siano rinnovabili, il fatto che siano a disposizione più o meno in tutti i paesi e non siano quindi concentrate soltanto in alcuni, con le guerre che ne derivano. Non dobbiamo però dimenticarci che anche le energie rinnovabili consumano qualcosa che non è rinnovabile: il territorio. Bisogna assolutamente tenere conto del territorio; per esempio mi sembra assurdo che si sia cominciato ad installare pannelli fotovoltaici nei campi coltivati convertendoli da terreni agricoli a campi di pannelli solari, quando invece ci sono a disposizione aree industriali dismesse, caserme dismesse, i tetti delle case, ecc..Penso che per produrre energia davvero pulita dal punto di vista ambientale si debba fare un piano energetico intelligente; non mettere una tantum su quel campo un po’ di fotovoltaico, su quel crinale lì delle pale eoliche, e via dicendo, perché altrimenti si rischia di fare danni diversi ma non meno profondi di quelli provocati dall’inquinamento delle energie non rinnovabili.

Cosa ne pensi, a proposito di ambiente, del movimento di opposizione popolare No Tav e delle sue pratiche?
Il discorso sarebbe molto lungo. Per come conosco io la questione, ritengo che abbiano molte ragioni per opporsi al passaggio di queste infrastrutture. Chi invece ha sostenuto, e lo hanno fatto decine di opinionisti sui giornali, che la Tav in Val di Susa è indispensabile, non ha mai, realmente, espresso delle opinioni a favore, ma ha sempre più o meno ripetuto “va fatta”, “si deve fare”, “è un’opera importantissima”, “è un’opera di livello europeo”. Ma perché? Qual è la vera ragione? Io mi aspetto – mi aspetterei – dallo Stato che, di fronte a un no così forte espresso da una popolazione molto vasta di un territorio, non soltanto accusi la gente di essere retrograda, egoista, che non si sacrifica per il paese, che non vuole l’opera nel suo cortile eccetera, ma mi aspetterei che qualcuno dicesse: “Benissimo, che grande occasione per la democrazia ci offre questa gente che si oppone a una grande opera. Ci offre la possibilità di spiegare perché abbiamo preso la decisione di farla”. Questo dovrebbe essere un di più, un vantaggio per i governanti, dovrebbero dire: “che bello che c’è qualcuno che contesta così possiamo essere chiari e spiegare perché”. Siccome il perché probabilmente non lo sanno nemmeno loro, o comunque il perché è appunto mettere un po’ più di cemento sul territorio per far aumentare il Pil, la solita ricetta, non sanno spiegarsi. Dal punto di vista delle pratiche, io sono stato un paio di volte a presentare il libro là in Val di Susa, conosco persone che fanno parte del movimento e penso che sia un movimento dal quale chiunque voglia portare avanti un discorso politico efficace in Italia dovrebbe imparare. Infatti quando sono stato là ho visto tenute insieme persone diversissime, vecchi montanari, studenti di Torino, punkabbestia, senza fissa dimora che facevano la notte nei presidi. Ho visto un’umanità molto eterogenea e vasta stare intorno a questo movimento, che evidentemente è stato capace di coinvolgerla. Retoricamente il movimento No Tav viene descritto come una roba da “montanari, retrogradi, chiusi, che non vogliono mai la novità”. Non è vero, gli abitanti della valle hanno avuto la capacità di coinvolgere anche persone da fuori, e infatti c’è un sacco di gente che va in Val di Susa, da Torino, dalla pianura, da tutto il nord Italia. Dall’altra parte la qualità enorme di questo movimento secondo me è la grande competenza diffusa. Se tu parli con le persone che in qualche modo ne fanno parte, ti accorgi che quasi tutte hanno una conoscenza del problema e delle alternative al problema molto approfondita. Quindi non c’è nemmeno quel “No e basta”. Ma invece si trova un “no perché…” e un “no, si potrebbe fare in un altro modo”. Insomma è un movimento che ha tutta la mia simpatia.

Il “Sentiero degli dèi” mi è sembrato essere una risposta all’interrogativo che ponevi in “Guerra agli umani”: se non è possibile la fuga reale è bene difendere almeno un nomadismo spirituale e psicologico? Mi sembra che tu con il “Sentiero degli dèi” abbia risposto: sì, è bene…è una soluzione nichilista, o è solo una matura presa di coscienza dell’impossibilità di una fuga reale?
E’ una presa di coscienza, nel senso che mettersi fuori dal sistema mi sembra tutto sommato impossibile. Tutto è dentro, ma comunque il “dentro e fuori” mi sembra una metafora che non andrebbe utilizzata per descrivere come opporsi e come costruire un’alternativa. Qualunque alternativa noi costruiamo deve partire adesso, e quindi deve partire da dentro, e poi indicare magari un sistema alternativo, però difficilmente potrà porsi già a priori fuori dal sistema; spesso il desiderio di farlo porta soltanto all’isolamento, a non essere efficace e a non cambiare davvero le cose, oppure a crearsi una riserva indiana che poi produce assedi. Una riserva indiana inevitabilmente verrà assediata, per la quale inevitabilmente ti farai assediare, ti chiuderai lì dentro, ti metterai l’elmetto, eccetera. In “Guerra agli umani” ripetevo più volte che nessun luogo vale un assedio. Appunto barricarsi in un posto solo per farsi assediare o cercare di fuggire in un “altrove” mi sembra un percorso impossibile. Invece un nomadismo più spirituale può essere quello adatto a farci immaginare alternative, possibilità diverse, e quindi ci insegna a provare a cominciare a costruirle senza la pretesa che si collochino già fuori dal sistema.

Un cambiare dal dentro, sostanzialmente?
Sì, cambiare da dentro ma cambiare davvero. Cominciando subito a cambiare, non con il lento processo dall’interno, attraverso piccoli passi e piccole riforme. No, con la consapevolezza di essere dentro, senza volersi illudere di aver già trovato una via di fuga, rivoluzioniamo il nostro modo di vivere, e cominciamo da lì a costruire dei prerequisiti, dei germi, di cambiamento, che possano comunque già ottenere il risultato di far star bene, o almeno far star meglio, intere comunità.

Cosa è rimasto nella tua esperienza coi Wu Ming e in quella da “solista”, se così si può chiamare, della guerriglia mediatica che praticavate un tempo coi Luther Blissett?
Bè, sono rimaste tre cose: da un lato il raccontare storie, perché in fondo Blissett era una grande storia raccontata collettivamente. Infatti una delle nostre pratiche era quella di rifilare notizie false ai giornali, ed erano storie ben confezionate. Se ci cascavano era perché le raccontavamo bene evidentemente. La seconda cosa è l’idea che non sia importante sapere che faccia abbia e come si chiami l’autore delle narrazioni, ma che sia importante il contenuto di quello che fa. Luther Blissett aveva un volto che non era il volto di nessuno di noi. La terza cosa è il condividere queste storie rendendole gratuite. Tutti i nostri libri, così come era per tutte le produzioni di Luther Blissett, nel loro formato cartaceo, come oggetti che si vendono in libreria, hanno un prezzo. Il libro cartaceo è un formato particolare di quella storia, un formato che prevede che si utilizzi carta, colla, distribuzione, eccetera; se uno vuole questo formato lo paga o lo ruba. Se invece uno vuole la storia pura e semplice, cioè nel suo formato digitale, allora tutte le nostre storie si possono fruire gratuitamente, si possono scaricare dal nostro sito ed è sempre stato così. Questo è sicuramente un lascito della nostra pratica precedente.

Come e perché ti sei avvicinato a queste esperienze artistiche collettive?
E’ presto detto. L’inizio di tutto è stato più o meno al liceo, facevamo una piccola rivista scolastica e ci siamo conosciuti in un po’ di persone; una di queste attualmente è Wu Ming 4 e appunto facciamo cose insieme da allora. Poi quando siamo andati all’università questa piccola cellula ha creato contatti con altre persone ancora. Abbiamo iniziato facendo delle cose che è normale fare collettivamente, per esempio una trasmissione radiofonica o una rivista. Ci siamo resi conto che ci piaceva fare cose insieme, che i nostri cervelli funzionavano meglio, che eravamo più creativi quando ci confrontavamo con gli altri, e allora a un certo punto ci siamo detti: “proviamo a fare insieme anche un tipo di prodotto che invece è considerato radicalmente individuale, un campo dell’arte, della creatività, del sapere, che non ha mai visto una produzione collettiva stabile come la letteratura, lo scrivere romanzi, la narrativa. E allora abbiamo deciso di scrivere insieme anche un romanzo, per vedere se era possibile farlo, oppure se la narrativa, la letteratura, sono principalmente arti individuali perché c’è un problema effettivo a farle insieme. Ci siamo resi conto che no, non c’è un problema, ma c’è solo un pregiudizio; infatti scrivere insieme è possibile, è divertente, e abbiamo continuato a farlo.

E per quanto riguarda la portata ideologica e militante di queste vostre esperienze?
Ci siamo formati insieme da questo punto di vista. Siamo partiti dall’idea comune che scrivere e raccontare storie sia una forma di impegno politico, perché in fondo è un modo per trovare parole per raccontare la realtà, oppure trovare parole per raccontare realtà alternative, quindi per descrivere il mondo com’è, come ti sembra, oppure come dovrebbe essere, che è la base della politica. Partendo da questo, e scrivendo insieme, in qualche modo ci siamo formati reciprocamente e questo ci ha portato ad avere un sentire molto vicino su alcune questioni fondamentali. E quindi…l’avventura continua, insomma.

So che vi sono state mosse delle critiche riguardo la vostra spettacolarizzazione. Ho letto un articolo, “Le tute bianche si sono perse a Genova”, dove viene mossa una critica sia alla vostra spettacolarizzazione artistica che a una sorta di vostra spettacolarizzazione del dissenso. Tu come risponderesti?
Dunque, nostra spettacolarizzazione: no di sicuro, nel senso che noi siamo quanto di meno spettacolare ci sia nel mondo della letteratura italiana. Non ci facciamo fotografare, non ci facciamo riprendere, non andiamo mai in televisione, quindi se c’è un autore che, nel mondo dello spettacolo quanto meno, ha un profilo molto basso, quello siamo noi. Ciò che noi stessi abbiamo criticato rispetto alle tute bianche non è l’aspetto della spettacolarizzazione di un certo tipo di conflitto, perché per certi versi, in un’epoca di comunicazione mediatica, non ha una valenza del tutto negativa; il conflitto emerge anche così, sapendolo comunicare, altrimenti verrà sempre negato, perché una delle strategie del capitalismo è sempre quella di negare il conflitto. Per la borghesia il conflitto non esiste mai, la lotta di classe non c’è, e anche quando c’è i violenti sono sempre quegli altri, la violenza del capitale non si chiama mai così; e quindi rendere il conflitto spettacolare, che di fatto significa raccontarlo, non è altro che uno dei metodi di dissenso, secondo me molto efficace. Quello che noi critichiamo, e critichiamo anche di noi stessi, è che non ci devono essere degli specialisti di questa spettacolarizzazione. Noi ci siamo fatti un po’ prendere la mano nel fare i cantastorie del movimento delle tute bianche, e probabilmente invece cantastorie devono esserlo tutti; perché un movimento funzioni, non si deve delegare a una sorta di cellula agit-prop la comunicazione di quel conflitto. Penso che in questo per esempio anche il movimento No Tav abbia indicato una strada interessante.

Quali sono i tuoi progetti futuri e in corso?
I progetti più avanzati sono due. Uno è un progetto di scrittura collettiva nuovo, quindi un romanzo collettivo, che in un certo qual senso è il secondo volume del trittico che abbiamo iniziato con Manituana. Adesso però ci spostiamo, la rivoluzione dall’America passa in Francia, per così dire, e quindi cercheremo di raccontare, come sempre da un’angolatura un po’ inusuale, il periodo del terrore durante la Rivoluzione Francese. L’altro è invece, da solista, il progetto di un romanzo che racconta i rapporti post-coloniali tra l’Italia e la Somalia, e anche più in generale i rapporti con le colonie, attraverso la biografia di una donna nata negli anni ’20, in Somalia, dall’unione tra un militare italiano e una ragazza somala.

Aurora, la nostra intervistatrice, e tutta la redazione de “Gli Amanti dei Libri” ringraziano Wu Ming 2 per la sua simpatia e disponibilità!

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