Stefano Bruno Galli, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, è uno studioso e scrittore di tematiche inerenti il federalismo, il costituzionalismo e il nazionalismo.
Particolarmente amato dai suoi studenti e momentaneamente “prestato” alla politica l’abbiamo incontrato nella sede del Consiglio Regionale lombardo. Con il suo pensiero profondo e la parola incisiva di chi è abituato a spiegare, interagire e dibattere ci ha aperto uno splendido spazio di conversazione che ha toccato vari argomenti. Dal difficile rapporto che sussiste tra i giovani, l’Università e il mondo lavoro, passando per il federalismo e le prospettive future della nostra Italia, fino a planare sulla caduta del muro di Berlino e l’esperienza sotto traccia dei dissidenti che vide nel drammaturgo Vaclav Havel, il celebre protagonista della “Rivoluzione di Velluto” , il suo massimo esponente.
La sua attività di docente universitario la rende inevitabilmente un esperto di quella bella fetta di mondo giovanile costituito da ragazzi e ragazze desiderosi di imparare, cercare, sviluppare il senso critico e la capacità di capire la storia e i suoi snodi politico-sociali. Provi a raccontarmi, dal suo punto di vista privilegiato, i giovani di oggi. Di cosa hanno fame a livello culturale? Che mondo sognano? Qual è il loro più grande limite e la loro maggiore risorsa?
Sono convinto che la società, o meglio la socialità politica nel verso senso del termine, si regga su dei patti intergenerazionali e in questo momento è indubbio che il patto si sia rotto, cioè che fra noi e la generazione che viene dopo di noi ci sia una frattura, così come c’è una frattura – io ho 47 anni- tra noi e chi ci ha preceduto. Chi ci ha preceduto perché è in qualche modo responsabile del declino col quale noi dobbiamo fare i conti e procede occupando posti. Insomma, pare che se tu non hai 90 anni non puoi fare il direttore di giornale. E quindi c’è un’occupazione di potere incredibile che fa da tappo rispetto alle normali progressioni di carriera. Nello stesso tempo i giovani sono risentiti nei nostri confronti perché ci ritengono in qualche modo corresponsabili. Ci rimproverano la mancanza di solidi punti di riferimento. Come professore so di essere stimato dai miei studenti perché m’impegno molto in aula: per me la lezione è un atto in sé in cui devo raschiare il fondo del barile e cercare di trasmettere tutto. Eppure non sempre i ragazzi ti seguono: fondamentalmente sono convinti che la laurea non serve. La laurea è il minimo sindacale, mi dicono, ma poi ci vuole il contatto, la relazione, il trattamento di favore. C’è una demotivazione di fondo che crea una fascia abbastanza significativa di disincantati. Io lo dico sempre durante la mia prima lezione: non appartiene all’Università l’obiettivo di creare posti di lavoro. All’Università compete la somministrazione del sapere e la trasmissione di strutture mentali. E’ poi il pubblico, l’impresa privata che deve vedere in un giovane, piuttosto che in un altro, la risorsa.
E’ ancora possibile nell’Italia odierna atterrata dalla crisi economica, delusa dalla politica, schiacciata, nei suoi slanci spesso migliori, da interessi di caste e lobby, produrre “cultura” nel senso più nobile del termine?
Inutile nasconderselo: negli ultimi tempi è in atto una vera e propria deriva di produzione culturale, deriva nel senso negativo. Il punto è che lo sviluppo della comunicazione a dismisura crea un surplus comunicativo, per cui una notizia o un argomento equivale ad un altro andando a perdere la gerarchia delle fonti, e allora un ‘inchiesta giornalistica finisce per equivalere ad un’altra che dal punto di vista dell’impatto socio- economico è marginale. Riallacciandomi alla prima domanda questo complica molto il ruolo della docenza. Tu, professore, non sei più visto come l’oracolo del sapere, ma come un mediatore di fonti. Negli anni ’90 entravi in aula, spiegavi Montesquieu e tutti stavano in religioso silenzio ad ascoltarti. Oggi gli studenti prendono il tablet e la prima cosa che fanno è cercare Montesquieu su wikipedia. E allora tu invece che seguire quei percorsi che tradizionalmente avresti seguito nell’illustrazione di Montesquieu, devi cercare di approfondire, di smorzare, di limare quelle imprecisioni che naturalmente ci sono in un giacimento culturale così massificato e spesso approssimativo come è quello di wikipedia o della rete in generale.
Nel suo libro “Il Grande Nord. Cultura e destino della Questione settentrionale” che ho recensito per questa testata, lei sostanzialmente dimostra come la cosiddetta Questione Settentrionale sia, la cito testualmente, “una costante della vicenda storica repubblicana”. Intellettuali e politici dalle posizioni più diverse se ne sono interessati abbracciando una visione federalista. Questa ricostruzione che lei fa del passato quale chiave di lettura ci dà per il nostro presente e il nostro futuro?
La Questione Settentrionale in senso moderno, come la possiamo interpretare noi oggi, si basa su tre elementi. Primo la leadership economico- produttiva: la nostra è una delle aeree del paese più all’avanguardia dell’intera Europa e senza lo Stato sarebbe una delle più ricche del mondo. Secondo elemento: è vessata fiscalmente per cui la fiscalità è un elemento identitario dal punto di vista politico, cosa che i politologi sostengono. E il terzo elemento è il capitale sociale ossia il fatto che per una serie di vicende storiche, tra cui la tradizione dell’età comunale, si è sviluppato un senso di solidarietà orizzontale, ossia un senso del vivere associato in modo diverso rispetto a chi si è fermato al feudalesimo, con i suoi rapporti clientelari. La Questione Settentrionale è una costante ciclica che affiora nel corso della storia ogni 20/25 anni e la via d’uscita della Questione Settentrionale è sempre stata individuata in una prospettiva di aggregazione macroregionale nel quadro di un ordinamento fortemente federalizzato. Onestamente non pensavo che dopo l’esperienza della seconda repubblica sia la prospettiva macroregionale, sia la soluzione federale fossero ancora nelle corde dell’opinione pubblica e invece, come dimostrano alcuni sondaggi, è così! Quindi rispetto alla domanda iniziale: quale prospettiva per il futuro? Credo che una prospettiva di aggregazione macroregionale come l’ha pensata il comunista Guido Fanti, primo presidente della Regione Emilia Romagna, ma anche come l’ha pensata il prof. Gianfranco Miglio, sia nella natura delle cose. Per altro questa è la strada percorsa da diversi stati a livello europeo e ha dato dei risultati. Lo Stato deve lasciare autonomia ai territori perché possano loro fronteggiare i processi di globalizzazione con successo questo è il punto. E per tornare al discorso sul Nord è chiaro che deve scoprire la sua vocazione al dialogo con l’Europa centrale. Tra i problemi seri dell’Italia di oggi ci sono le imprese del varesotto che vanno in Canton Ticino a delocalizzare. Le regioni devono avere la prerogativa di gestire questi processi ed eventualmente di contenerli.
Lunga è la galleria dei personaggi che lei racconta ne “Il Grande Nord”. Ce n’è uno in particolare che lei ritiene sia veramente esemplare e la cui vita o i cui scritti consiglierebbe ai nostri lettori di approfondire?
Uno in particolare è Robert Putnam, politologo di Harvard. Il suo testo “La tradizione civica nelle regioni italiane”, è stato per me un libro del cuore, fondamentale per capire la struttura mentale che spiega ciò che ho detto prima, ossia l’apertura all’Europa. E non solo. Sempre da lì si capisce perché l’età comunale sia stata un episodio unico e irripetibile che ha avuto una sua densità particolare nella valle del Po e in una parte dell’Italia centrale. Questa è un’esperienza che viene guardata con particolare interesse dagli studiosi di storia delle istituzioni di tutto il mondo. Bè poi naturalmente c’è il Prof. Gianfranco Miglio che è il filo rosso che attraversa tutto il mio libro.
Ho scoperto che lei è un grande esperto di Vaclav Havel il protagonista della Rivoluzione di Velluto del 1989: il drammaturgo e dissidente che passò dal buio delle carceri per l’opposizione al Regime, alla Presidenza della rinata Repubblica ceco-slovacca. In un suo scritto, che ho avuto il piacere di leggere e dal titolo “Vaclav Havel. Una vita per la verità”, lei afferma: “ Al dogmatismo della nomenklatura si sarebbe potuto opporre- con la semplice forza delle idee- solamente un artista”. Ci sta forse dicendo che la letteratura può salvare la storia?
La letteratura sì può salvare la storia, ma con quella frase sottolineo con forza una cosa che credo sia essenziale, ossia il primato della cultura sulla politica. Oggi uno dei problemi più significativi è un problema di qualità della politica: con il crollo delle ideologie tutto è stato davvero messo in discussione. La chiesa, il partito, il sindacato non sono più luoghi di socialità politica e quindi non creano più politica. La strada maestra per recuperare la qualità della classe politica è affermare con forza il principio del primato della cultura sulla politica. E Havel con la sua vicenda umana e intellettuale lo dimostra fino in fondo. E’ lucido, è limpido nel suo impegno, lui che proveniva da una famiglia borghese alla quale il regime aveva sottratto praticamente tutto, vive l’esperienza del dissenso. Pochi anni fa nel 2009 quando c’è stato l’anniversario dell’89, sono uscite delle ricostruzioni sulla caduta del muro. Fondamentali furono Regan, Gorbaciov, il Papa polacco, ma davvero in pochi hanno sottolineato che il muro è caduto anche per questo fenomeno sotto traccia che era quello del dissenso. L’esperienza del dissenso è un’esperienza forte e significativa e Havel ne è il modello. Lui era un drammaturgo dell’assurdo, ma penso che nemmeno lui avrebbe mai potuto immaginare di vivere un giorno in prima persona una catarsi del genere. Forse è questa, quella che ha vissuto, la sua migliore pièce teatrale.
I totalitarismi, come lei scrive nel suo libro su Vaclav Havel, mortificano la storia, la congelano, le impongono, attraverso i loro apparati di potere e controllo un eterno presente che ferisce l’essenza dell’uomo, la sua “humanitas”. Con Havel il divenire storico si è rimesso in moto. Il dissenso quindi si presenta come l’unica strada percorribile al fine di ridare verità alla storia e libertà all’uomo. Ci spiega meglio questo legame tra dissenso e verità? E, secondo lei, chi sono i dissidenti oggi?
Il dissenso è davvero il motore della storia, perché il dissenso si manifesta in quei regimi totalitari che sono immobili, ma che devono ovviamente vendere l’idea del divenire per raccogliere consenso. Sostanzialmente si reggono su un continuo rilancio: “ancora un piano quinquennale e la classe operaia la portiamo in paradiso!” oppure “ ancora un milione di ebrei nelle camere a gas e riusciamo a spuntarla!” . Sono queste le terribili scommesse col futuro che caratterizzano i regimi totalitari che impongono sofferenze, atti, da un punto di vista etico-morale, assolutamente inaccettabili. Solo il dissenso è l’elemento che riporta tutto alla verità delle cose e capace di dire “non è vero che con un altro piano quinquennale la classe operaia la portiamo in paradiso quando ci sono la miseria e la fame”. Il dissenso e la sua vocazione di portare tutto alla verità ha un primato, che è il primato etico-civile dell’uomo. Io sono convinto che il muro di Berlino sia sostanzialmente caduto addosso all’occidente: c’era un sistema che non funzionava e che alla fine è arrivato ad un default. Questo è accaduto, come ho spiegato prima, per effetto dell’azione del dissenso sotto traccia e di una congiuntura internazionale particolare: la perestroika, la glasnost, Regan, il Papa polacco. Ecco Wojtyla per me è stato decisivo perché una delle caratteristiche del dissenso nell’Europa centro-orientale era quest’anima cattolica, questo movimento cattolico, basti pensare a Lech Walensa e al sindacato Solidarnosc. L’elezione di Giovanni Paolo II, nel 1978, ha legittimato il dissenso cattolico anche in paesi e città prevalentemente protestanti, basti pensare a Praga e alla nascita di Charta 77 la quale subisce un’accelerazione potente che rende difficile l’azione del regime. Infatti esagerare nella repressione di Charta 77 significava dare avvio ad un conflitto frontale con il capo della Chiesa cattolica. Insomma, in quel periodo avviene un’istituzionalizzazione del dissenso, non formale, ma sostanziale che determina la caduta del muro. Le democrazie occidentali di fronte a questa crisi non funzionano tanto bene: ci sono comunque delle aporie, delle contraddizioni forti nei sistemi democratici. I sistemi democratici garantiscono la libertà dell’uomo dal punto di vista economico e sociale, ma io mi chiedo: è vera libertà? E’ vera libertà nel momento in cui arriviamo all’età adulta con una vita sostanzialmente tracciata? O forse siamo caduti in una trappola, in una gabbia? La capacità di autocritica dell’occidente non c’è stata, come invece c’è stata nell’Europa centro-orientale. Sono convinto che le forme più interessanti di dissenso emergeranno proprio di fronte alla crisi e in occidente, perché la crisi è sempre un momento creativo, un’opportunità. Persone che remano contro ce ne sono parecchie, ma probabilmente non sono dissidenti, in quanto hanno un’idea di speculazione, di conquista, diversa da quella attuale e remano contro solo per imporre una propria visione. Il dissenso, ricordiamolo, ha una dimensione essenzialmente sociale e culturale, etica e civile prima che politica.
Come da prassi le chiediamo un saluto speciale e un augurio per il nostro giornale.
Dunque io non lo conoscevo, l’ho conosciuto grazie a te e alla recensione che hai dedicato al mio libro. Trovo che la vostra sia un’azione davvero meritoria proprio perché afferma il primato della cultura sulla politica! La vostra è un’iniziativa da incoraggiare, la strada intrapresa è senz’altro quella giusta.