A tu per tu con…Pasquale D’Ascola

L’incontro con Pasquale D’Ascola, autore di testi per il teatro e narrativa, insegnante al Conservatorio di Milano,  è un esercizio di discesa nelle profondità della creazione artistica per uscirne ricchi di stimoli e interrogativi sempre aperti. Per chi ancora non lo segue cura ogni quindici giorni su questo blog la rubrica “L’Elzemiro”.

Hai scritto opere teatrali, racconti e romanzi. In quale di questi generi ti senti più realizzato come scrittore?

Credo di non saper rispondere in modo convincente e nemmeno succinto. Tuttavia, come ogni contenitore, la forma, ha la sua necessità, egualmente l’estensione del testo o ha una sua urgenza interna, o dipende da richieste ambientali, o dalle ambizioni del signor Narciso. Conviene precisare che ho sempre scritto, pubblicare è un’altra storia e dipende dal caso e dalla faccia tosta che si possiede, io poca. Per campare ho fatto sempre il teatrante o l’insegnante ed è in questi ambiti che ho scritto diciamo da professionista, dopo la goduria del tema a scuola che a me piaceva più della ricreazione. A parte, qualcosa di copywriting, coi limiti del brief, progetti di eventi aziendali, nel limiti delle tre cartelle, preventivo di massima incluso; lì avevo l’obbligo di sbizzarrirmi a stupire il possibile cliente per acchiapparlo; al Conservatorio scrissi decine di copioni per le esercitazioni e i lavori degli studenti; per forse quindici anni lavorai in Rai, olà anch’io come Gadda e Camilleri, film, solo due, moltissima radio dove la parola è tutto, serie, adattamenti, ricordo i Racconti di mezzanotte; occorreva tagliare, rimontare, riscrivere parti magari di un romanzo pessimo che Roma mandava da fare a Milano, loro  davano la traccia dei tagli, tu dovevi ingegnarti a costruire una sceneggiatura per farlo stare nei tempi, riscriverlo per renderlo logico, o alle corte in buon italiano. Non sembra ma così si impara a maneggiare gli strumenti o se preferisci le armi. Mi piaceva, mi è sempre piaciuto il lavoro modesto svoltato per bene, con abilità. L’arte è nell’uso dei mezzi, è il mezzo. Alla stregua del ritratto o della sonata per pianoforte o del quartetto che riassume e allude all’orchestra così il racconto, non è solo ridurre, scarnificare, anzi è condensare, offrire un pasto completo con una sola portata. Una pizza insomma. Tutti gli artisti del passato hanno praticato la forma che più si adattava alla sua necessità interna, al suo destino; voglio dire che sarebbe stato dissennato, impossibile, stringere Las Meninas in un 50×70. A volte può essere difficile fermarsi al racconto, il racconto è difficile in sé, condensare appunto senza omettere, ma stare nel cornicione della pizza; è un po’ come per l’attore nel cinema, il primo piano lo obbliga, non si può muovere da lì a deve dar tutto, raccontare, anticipare, riassumere, darla a intendere, riempire del proprio essere corpo significante-puro in tre secondi, ma tutto, anche di spalle. Il romanzo come tale ti affatica, tenuto conto che non è la storia che conta ma lo stile, il ritmo, io scrivo moltissimo per accumulo, per attrazione, per associazione, non l’ho inventato io il modo, Proust insegna, Gadda, leggere Ada di Nabokov, e allora ad ogni proposizione di nuovo materiale devi stare attento a che sia congrua, sbarazzarti non tanto del di più ma di ciò che non crea attrazioni tra elementi differenti a partire da quello che si chiama soggetto in teatro, la battuta di avvio cioè; è una rete che si snoda e in modo tale da riportare in qualche modo il discorso sul sentiero che la trattazione va costruendo. Sai nei film di spionaggio quando ti mostrano la mappatura di una connessione internet, va di là, di qua, su e giù per il globo e alla fine si scopre che è partita da dove sono gli infallibili investigatori. Ho scritto finora solo tre romanzi, ammesso che si possano dire tali; e non ho intenzione di cuocerne un altro per ora; forse riscrivere il terzo, che si piazzò secondo a una gara e che non è pubblicato. Tante idee, ma come diceva Carmelo Bene (cito a memoria da un’intervista che gli feci quando lavoravo in Rai) Quando mi viene un’idea, la lascio perdere, se si ripresenta, la caccio, se insiste molto, allora solo allora, la prendo in qualche minima qualche considerazione. Sai io per metodo ogni mattina mi metto a scrivere e non so mai o quasi mai prima, che cosa, la scrittura discende in linea diretta dalle dita, o sgorga con l’inchiostro, quando scrivo all’antica. Allora fisso e talvolta completo una pagina, non so quando la prenderò in esame per farne qualcosa. Mi trovo bene dunque un po’ dappertutto, ho anche vinto un premio per la poesia quest’anno, dovrebbe essere pubblicato, vedremo; si badi bene che io non scrivo, sono scritto. Ho cominciato a nove anni, mi piaceva l’atto, qualsiasi tema mi piaceva. Al liceo tutto questo è finito; al liceo, classico beninteso, la scrittura è intesa come compilazione di detti altrui e la scuola, qualunque scuola, è una fabbrica di esecutori, gente che pensa in modo uniforme, cioè che non pensa, che acquisisce tratti altrui. La gente così crede a cose false ma con fede intensa, in fondo al vicolo cieco c’è facebook. Per quanto riguarda il teatro ho scritto e pubblicati, ma è un esercizio inutile se non si ha una compagnia, una casa per cui scrivere. O delle commissioni da grandi teatri; la Scala commissionò a Saramago Il dissoluto assolto, ma in Italia non succede che poco, fuori non so dire quanto, ma poiché altrove il teatro è un luogo frequente e diffuso, credo esista ancora la commissione. Poi ci sono gli scrittori per il cinema, lavoro bellissimo che qui in Italia hanno fatto dei grandi ma manca lo standard, la professione, che c’è in America. Ho scritto dunque per i miei studenti, cosette, anche gradevoli; ricordo un Orfeo al piano bar, Orfeo che da una porticina cascava in un inferno dove tutto era gioco televisivo, poi si svegliava alla televisione accanto a Euridice che gli negava il bacio della buonanotte in quanto, No… non mi sono lavata i denti. Finiva lì. Poi un lavoro corale per più di venti personaggi, anche coreani, Le rovine di Violetta, molto dark, quasi splatter, violentissimo, assai osé per un Conservatorio, tutto alluso ovviamente, al teatro il realismo non paga, un tavolino vero annoia, ognuno lo ha in casa propria, e dunque dove sarebbe la meraviglia, ricordiamoci, È del poeta il fin la meraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia, Giovan Battista Marino. Gli studenti di allora strepitosi, alcuni stanno facendo o hanno già una bella carriera, anche all’estero. Quei copioni non esistono più; mai conservati nella convinzione perfetta di non essere all’altezza del mio metro e settantasei. Scrivere per gli studenti era utile a loro e a me, se hai una classe con tutte donne, devi adeguarti, vedi com’è, un altro limite imposto dalla circostanze. Ma il limite indica sempre un’altra strada. Un mio testo Il circo della fanciulle è stato il lavoro di regia della mia ultima classe. Sono stato molto fiero di loro. Ne fecero uno spettacolo bellissimo, l’anno scorso, osando correggermi. Alla regista dissi subito: taglia(te) e adatta(te), riscrive(te). Oggi due di loro si sono scritti e hanno debuttato con una loro rivisatazione di West Side Story. Il testo teatrale è un pretesto. Molière, tutti trascrivevano. Per questo fu un nonsense il Nobel a Fo per la letteratura, lui si guardò bene dal rifiutare la milionata del premio ma precisò di non essere un letterato ma un giullare. Del resto il Nobel è stato dato anche a un menestrello. Peraltro ci sono canzoni strepitose. Ho scritto anche quelle.

Il tuo ultimo libro, intitolato Assedio ed Esilio (Aracne edizioni – Premio Letterario Internazionale indipendente 2016) ha come protagonista un antifascista che, sentendosi assediato, vive una sorta di rifiuto della vita.

Sì, ma, chissà, rifiuto non saprei, astensione, lento sprofondare nella scoperta dell’impossibilità, più o meno, di preciso non so dire. Del mio lavoro non sono stato mai nella mia vita più che spettatore. Osservatore, le chiavi di lettura le lascio a chi pensa o sa di poterle trovare, guardare sotto lo zerbino. Ai miei studenti ho sempre, sempre, sempre insegnato di non cercare il significato ma l’eventualità dei significati, in tutti i casi fermarsi alla superficie prima di tutto; lo diceva anche Nietzsche. Un buona osservazione è già interpretazione, l’intercettazione di un senso. Ma, insomma, osservo che Lui, Innominato, senza articolo, tanto non-nome, quanto aggettivo, guarda per anni fuori dalla finestra di cucina e non trova niente; più, non ancora, sono domande possibili e senza risposta. Tornando al tema scolastico del pensare con la propria testa. Ecco si fa presto a capire che si vive nonostante. Un libro allegorico chissà. Comincia e finisce con vaste osservazioni sulla morte il libro. È un libro dei morti. Ecco cos’è molto in sintesi. Comincia dall’agonia del protagonista in preda alla polmonite ( allora, 1927, si moriva) ma che per un gesto estremo del medico torna al mondo; prosegue con tutte le sue agonie e quelle di chi lo circonda, le impossibilità che incontra, le negazioni, fin nel nome, Innominato, che non lo lascia mai per tutto il libro, e finisce con l’ultima la più definitiva di tutte, la morte senza resurrezione. Per questo ho narrato con puntiglio la cremazione e la dispersione delle sue ceneri. Forse Jarmush o Tarantino potrebbero farne un film. Io dico che metterebbero la camera nel forno. Cremazione in diretta.

È davvero impossibile combattere secondo te in queste situazioni?

Impossibile no, insensato chissà. Lo stato di guerra è insensato ma antropologico. La vita è insensata e non richiesta. Non lo dico io ma Cioran. Eppure. Eppur si combatte per dignità o, mi pare, per narcissìa, come dice Gadda, e più semplicemente per non rimetterci la pelle. Si combatte, in vari modi, o come Céline crocifiggendosi da sé, o come i russi che da soli sostennero l’invasione; la seconda guerra mondiale fu la guerra dei russi. Si combatte a scuola per mantenerla tale o darle un po’ di dignità; ma è una bella pretesa, occorre rendersene conto e nonostante continuare per evitare di essere ciononostonàti.

L’approfondimento di quel periodo storico tanto drammatico per noi italiani è protagonista della nostra letteratura contemporanea, basti pensare a M di Scurati, vincitore dello Strega. Che cosa pensi ci portiamo dentro di quel periodo? Quali ombre che si annidano nella nostra coscienza collettiva sono più inquietanti?

Non saprei. Non so un sacco di cose. Nelle risposte occorre non farsi tentare dall’oracoleria, dal tono profetico o di chi la sa lunga. Dal tentare di sembrare intelligenti. Io discendo da una famiglia e ho vissuto in un ambiente di intellettuali, politici e artisti. Rivoluzionari intendo, quando saltò Piazza Fontana, dopo dieci minuti sapevamo di avere i telefoni sotto controllo, ci divertivamo a punteggiare le nostre telefonate con dei saluti, Maresciallo buongiorno come sta… si annoia lo so… porti pazienza. Nel merito della tua domanda ho un po’ l’impressione che aveva Pasolini. Il fascismo storico è stato un accadimento, funesto e finito. Gli epigoni oggi sono solo bipedi rozzi, ignoranti e non sostenuti da un’ideologia, bulldog confusi e pasticcioni, non diversi dal resto del mondo politico in generale. Dire né destra né sinistra segnala solo che non si sa che il pragmatismo senza idee genera mostri. Ma mi pare che solo il comitato centrale del partito in Cina abbia idee confortate da questa loro ideologia di un comunismo della ricchezza. Il fascismo è antropologico e, mi pare, tutto italiano, piccolo borghese, bieco, retorico, tronfio, priapo-senz’eros, baciapile; Don Abbondio che biascica il suo latinorum, corrotto, codardo, carogna. Sempre con Pasolini si può dire che, l’italiano era fascista prima del fascismo e dopo. Altri popoli ne sono in tutto o in parte immuni, o vittime di focolai isolati… non so se si possa dire che mafie, camorre e lo stesso cattolicesimo, siano, un po’, precondizione o conseguenza di questo zoofascismo. Esiste poi, mi pare, un fascismo che io chiamo logico che è quello che domina la scena politica mondiale. Fascismi. Di mio lo identifico con quello che Diego Fusaro chiama turbocapitalismo. Che è un aspirapolvere, noi, tu, me, la signora che strilla a Pontida, siamo l’utile polvere. Di fatto esistono turpitudini ben peggiori della politica e che magari servono alla politica dello sviluppo esponenziale, della polvere. Snuff films, trafficking. Il mondo è una miniera a cielo aperto di orrori.

In che modo la tua attività di insegnante al Conservatorio si è intersecata con quella di scrittore?

Intersecata non so. Ho già detto che ho scritto a iosa proprio per il Conservatorio. L’insegnare mi ha formato, ah questo sì, il teatro mi ha formato, tra l’altro ho lavorato proprio pel teatro musicale, una meraviglia, si impara molto, in molti sensi, sai a me sono capitate crisi maniaco depressive in classe, svenimenti di anoressiche, scontri alle mani con giganti di duecento chili che dormivano in classe, sono cose che devi darti da fare ad affrontare, al momento. È lavoro su di sé di là dall’analisi, la psico, che ho eseguito per anni. Anche lì, a posteriori mi resi conto che fu per me vera e propria didattica.

Il tuo è uno stile personalissimo, insieme lucido e visionario. Da chi sei stato maggiormente influenzato?

Grazie per la definizione. Meno male che non hai aggiunto difficile-occorre-il-vocabolario-per-leggerti-che-cosa-vuoi-dire; è il disco che mi perseguita dal mio esordio. Alle tue dotte definizioni mi giovo di aggiungere quella di eversivo. Guarda le mie prime maestre sono state senza dubbio le immagini e i suoni, ascoltavo la radio, rapito, i miei mi portarono al cinema dacché ebbi tre anni, era voluttà, sfogliavo le illustrazioni dei libri, un giardino. Disegnavo molto a scuola; con la scrittura e il canto era ciò che perdonavo alla scuola. Sono laureato in storia del cinema, immaginati, come i libri  riguardo i film che mi acchiappano sette, otto, venti volte. Poi ho lavorato nella musica fino all’altro ieri in pratica. La musica insegna tantissimo. Ho studiato pf per un po’, poi mi ha frenato il non saper contare in frazioni. Prova a contare cinque ottavi, per me ingegneria. Ma da quando imparai a leggere rimasi fulminato dalle storie e dalla voce che le racconta; i miti, ricordo in seconda elementare, da non cristiano mi iscrissi a un doposcuola in cui la maestra Schnabel, oh ja, ci raccontava le storie dell’antico testamento, ero rapito dallo stile della maestra e lo stile è tutto, poi a casa leggevo di Sigfrido, Gilgamesh, Deucalione e Pirra, dall’enciclopedia Garzanti, Il mio amico, la posseggo ancora. Poi la grammatica e il vocabolario. La grammatica è meravigliosa. Voglio dire che a me piaceva. Tutte le grammatiche, di tutte le lingue. Occorre sapere altre lingue anche male. Ho scritto anche in inglese, una professora mi ha detto che ho classe. Idem in francese. D’annunzio scriveva benissimo in francese, anche Marinetti, Poesie a Beni, sono deliziose, dato il così colossale egotista. Leggere leggere leggere qualsiasi cosa. Nessuno mi ha mai seccato dicendomi cosa potevo o non potevo leggere, in casa c’era un bel numero di libri e di persone speciali che frequentavano i suoi 70 mq. Anche Pinelli, chi lo ricorda più, poveretto; era un uomo gentile e sveglio, passò da casa nostra il giorno prima di essere suicidato e stava benone. Ho imparato più che molto, solo ascoltando, osservando. Ma vivevo in un mondo separato di poveri privilegiati. Del resto la musica. Lessi Peyton Place della Metalious a 9 anni. Non che capissi bene cosa combinavano i ragazzi e gli zii americani con le signorine, ma insomma qualcosa. Era un libro potente. Tutti ti insegnano purché abbiano maestria È come a scuola però, devi cadere amoroso, to fall in love con un insegnante, allora egli ti insegna quasi solo con la sua presenza. Altri lo chiamano transfert, Lacan ci dice che si tratta di innamoramento bello e buono. Le conoscenze non bastano affatto e sono in qualsiasi biblioteca. Il sapere è una questione di corpo, lo scrisse in un suo bel saggio Massimo Recalcati prima di tomber amoureux con Renzi. E una questione di paradossi elettivi, vuoi dei nomi, Manzoni, tanto per cominciare.  Letto 23 volte I Promessi Sposi, opera assoluta come Guerra e Pace. Poi il solito, Balzac, Flaubert, Zola, tre moschettieri, sono un po’ esterfono, da Manzoni si salta a Pirandello e Busi secondo me. Gesualdo Bufalino, sì. Camilleri, ha ibridato una lingua, come Manzoni, diabolicus. Ma anche Carolina Invernizio che invece traduceva dal piemontese una sua lista della spesa. Anche il dialetto però insegna, vuoi mettere il siciliano, il mio primo romanzo, Cecchelin e Cyrano, in larga parte è in triestino. Per far sul serio, Simenon, gigante letto tutto, quasi, mi manca ancora qualcosina; e Saramago, idem. Ho adottato il suo sostituire i due-punti-virgolette, con il virgola-maiuscola per il discorso diretto; io ho aggiunto la formula del corsivetto che trovo soluzione formale pulita graficamente, ordinata, a piombo, che meglio si legge; il testo è anche un disegno, odio l’abitudine di grassettare invalsa nella rete come se un testo non fosse un organismo ma una serie disordinata di frasi a effetto, di tumori grafici; la rete disimpara la coerenza della sostanza, il principio della fine, il chiudere i cassetti; quest’ultima osservazione è di mia moglie con la quale condivido l’amore per le lettere, lei da illustratrice, io come dici tu da lucido visionario. Poi Céline, tutto, una fatica, un immenso, Houellebecq, la Yourcenar, la Nothomb, geni differenti le due, e differenti dai compari masculi, ché della donna il genio, a dispetto di Nietzsche, è luminoso, lampadino, l’uomo, e per fortuna, a volte borbotta, vedi Mann, Joyce, se non lo soccorre un utero nascosto; non c’è bisogno di averne contezza; basta l’ambiguità, Nabokov; poi Roth l’austriaco e l’americano, Gottfried Benn, dei Mann, meglio il fratello uterino; questi sono gli autori con i quali sono o sono stato in sintonia maggiore. Lessi tutto Pirandello, eccolo lì il borbotteur, un dottore delle lettere. Oh mi piaceva assai. E Proust, se vuoi scrivere un periodo che sia musicale devi ascoltare Proust, Proust è un  mistero, è tutto una piccola frase di Vinteuil. E Antonio Machado o Lope de Vega, A mis soledades voy, de mis soledades vengo, porque para andar conmigo me bastan mis pensamientos, gli antichi italiani. Metastasio. A me piacciono i libretti d’opera, Boito, Credo in un dio crudel che m’ha creato simile a sé e che nell’ira io nomo;  Lorenzo da Ponte, un acrobata, Nel mare solca e nella rena semina, e il vago vento spera in rete accogliere, chi pone sue speranze in cuor di femmina, un genio, Da Ponte esce ballando e cantando dalla pagina come Fred Astaire da Cappello a cilindro. Ammirare qualcuno è così piacevole. Innamoramento. Credo di avere appreso tutto da coloro. Naturalmente darei centomila euro per riuscire a scrivere, Life’s but a walking shadow, a poor player, That struts and frets his hour upon the stage, And then is heard no more; it is a tel Told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing. Macbeth 5/5. Shakespeare. Va sans dire. E grazie.

 

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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