Vi ricordate il terzo nome del famoso trio comico siculo-milanese che da anni ci regala sane risate? Eh si, stiamo parlando proprio di Giacomino! Giacomo Poretti non è solo bravo a far ridere, infatti è da poco uscito in libreria “Alto come un vaso di gerani”, il suo primo libro. L’autore è diventato padre e trovandosi nella maturità della vita, ha deciso di scrivere un’autobiografia dedicata al suo bambino. Starete pensando “ecco il solito vip che scrive un libro per pubblicizzarsi”, beh io mi sento di dire che le cose non stanno così in questo caso. Giacomo parla di sì, della sua infanzia, del suo passato, di tantissime cose in questo libro. C’è una cosa particolare che merita una sottolineatura, il libro si apre con “Lettera a mio figlio”, una bella e toccante prosa scritta da un genitore pieno d’amore. Gli abbiamo rivolto qualche domanda per capire meglio il suo lavoro.
Da dove nasce l’idea di scrivere un’autobiografia? Come mai ha deciso di aprirsi attraverso un libro?
E’ sorto il desiderio di raccontarmi attraverso un libro dopo che è nato mio figlio, ho sentito l’esigenza di tornare indietro con gli avvenimenti e di raccontarmi; la scrittura permetteva forse di vedere meglio quello che era capitato. Il desiderio di raccontarsi non è fine a sè stesso, quando si scrive ci si mette in relazione con il lettore e con gli altri. Un’idea di condividere con altri la mia esperienza.
Come mai la scelta di inserire nel libro “Lettera a mio figlio”?
Perché questo è il motivo principale, è il pretesto che mi ha permesso di scrivere questo libro. La prima cosa che ho scritto è stata proprio questa “lettera a mio figlio” poi da li è venuto il resto.
“Non mi piaceva correre piano, dovevo sempre correre veloce”, allo stesso tempo viene definita come uno spavento. È davvero così la vita? La sua vita è stata una corsa?
Sì, è sempre stata presente in me la sensazione dell’emozione e dello spavento di fronte a questo accadimento che è la vita; delle volte non si riesce a decifrarla e si può essere spaventati. La mia vita è stata una corsa continua, lavoro in fabbrica, lavoro in ospedale, la scuola. Fermarsi è bello perché vuol dire assaporare il riposo, essere meno affannato e vuol dire guardare i paesaggi dove si è corso.
Dal libro emergono toni di nostalgia e talvolta di dolore, è vero?
Sì, è così; nostalgia per le cose care che son accadute e non potranno più avvenire, è come riconoscere da dove si viene; dire che si viene da un posto piuttosto che da un altro, è un riconoscere una certa paternità di luoghi.
E’ molto curiosa la divisione in stagioni, come mai questa scelta?
Penso che possa servire a scandire gli avvenimenti in modo cronologico e poi perché mi piaceva l’idea di descrivere sensazioni che io provai di volta in volta nel succedersi di queste fase temporali. Dentro il susseguirsi delle stagioni è come se fosse racchiuso il mistero spaventoso e straordinario della vita, quindi ho cercato di fissarlo così poeticamente.
Se dovesse sintetizzare il cambiamento dal paese alla città, cosa direbbe?
Le relazioni, il tipo di vita completamente diverso, il paese molto più spontaneo; a Milano le relazioni devi volerle fortemente, altrimenti l’impedimento pratico le renderebbe impossibili.
Se dovesse autopromuoversi, cosa direbbe del suo libro?
Direi che è un tentativo poetico di vedere avvenimenti che apparentemente sono normali e banali, io ho cercato di descrivere ciò che mi è capitato e in tutto c’è dell’affetto.
Che cos’hanno detto Aldo e Giovanni quando hanno saputo della sua idea?
Inizialmente sono rimasti sorpresi, poi quando l’hanno letto son rimasti contenti, soddisfatti e affettuosamente soddisfatti. L’esperienza di scrivere è stata molto piacevole, se mi fosse offerta un’altra possibilità mi piacerebbe cimentarmici ancora.