A tu per tu con… Ann Hood

* foto Joyce Ravid

Quando il telefono ha squillato, all’altro capo del filo c’era lei, Ann Hood, l’autrice de “Il club dei ricordi perduti”,  la storia di come una donna, dopo l’enorme dolore della perdita della figlioletta di cinque anni, riesce a superare i tempi bui e a ritrovare il gusto della vita grazie a un’occupazione antica quasi come l’uomo, il lavoro a maglia. Non è certo un rimedio definitivo, ma un’occasione per allacciare rapporti nuovi e significativi, e permette di superare i momenti di maggiore oscurità e dolore grazie alla ripetitività del lavoro, che agisce sullo spirito con la stessa forza di un mantra: “ogni punto è una lettera, e in ogni giro scrivo: «Ti voglio bene»”. Ecco cosa Ann mi ha raccontato:

Prima di tutto, che sensazione ti da vedere il tuo libro, strettamente autobiografico, sugli scaffali delle librerie? A conti fatti, sei contenta di aver raccontato la tua storia a tutto il mondo o avresti preferito, col senno di poi, tenerla per te e per pochi intimi?

No no, sono felicissima di aver raccontato la mia storia. Sai, dopo la morte di mia figlia sono passati due anni prima che riuscissi a tornare a scrivere; anche il mio mestiere non riusciva più ad appassionarmi. Mi sono detta: se mai riuscirò a tornare a scrivere qualcosa, sarà per portare, con la mia testimonianza di rinascita, del conforto alle persone che soffrono per l’enorme dolore della perdita di qualcuno che si ama. E così è nato questo romanzo.

Ora, dopo aver scritto questo libro, ti senti più in pace con te stessa? In un certo senso si può tornare a parlare di felicità?

No, la stesura di questo romanzo di per sé non mi ha reso più felice, anche perché il processo della rievocazione è molto lungo e doloroso. Ciò che mi ha donato un po’ di gioia è stato principalmente avere a che fare, poco per volta, con un numero sempre maggiore di persone, toccare con mano le loro vite e confrontare le varie esperienze di dolore e di felicità. Insomma, per me adesso la felicità si incarna con il ritorno alla vita.

Ne “Il club dei ricordi peduti”, quanto c’è di autobiografico e quanto di finzione?

Principalmente il romanzo è finzione. Di autobiografico c’è la descrizione e l’indagine approfondita sul dolore emotivo e spirituale della protagonista dopo la perdita della figlia. Tutto il resto è fittizio, infatti il mio matrimonio va benissimo (mentre nel libro il rapporto tra i due genitori rimasti “orfani” della figlia va a rotoli); personalmente ho seguito delle lezioni e ho lavorato a maglia con persone che ho imparato a conoscere ed apprezzare, ma non ho mai frequentato un club della maglia come fa la protagonista; infine ho un ottimo rapporto con mia madre, al contrario del mio alter ego letterario.

Questo romanzo ha svolto un’azione di cura o è stato una conseguenza della cura della maglia?

Direi che “Il club dei ricordi perduti” è stato una conseguenza della cura della maglia. Sai, il lavoro a maglia per me è stato un palliativo molto efficace per superare il dolore, tanto che ora tengo dei corsi di maglia per uomini e donne che hanno perso i propri figli, vado negli ospedali e insegno a lavorare a maglia alle persone che attendono notizie dei propri cari.

Qual è la differenza fondamentale, secondo te, tra il raccontare delle storie di finzione e il raccontare storie che ci appartengono?

Secondo me le caratteristiche imprescindibili della fiction e della narrativa in generale sono lo sforzo costante nell’illustrare la condizione umana, nell’indagare il cuore dell’uomo, e soprattutto la tendenza a permettere ai propri personaggi di vivere dei momenti di epifania. Nelle narrazioni che traggono spunto da eventi e storie personali, e quindi reali, non sempre questo succede: può essere che un personaggio risolva i suoi problemi e capisca la sua condizione esistenziale in un momento di comprensione e di intuizione improvvisa, ma può anche non succedere. Questa, secondo me, è la semplice differenza tra narrazioni autobiografiche e narrazioni di finzione.

Che libri e che autori consiglieresti a chi si volesse accostare al lavoro a maglia?

Domanda interessante! Sono numerosissimi gli autori che potrei elencare, e molti di loro li ho citati ne “Il club dei ricordi perduti”. Troviamo inaspettatamente Pablo Neruda, che ha composto una “Poesia al calzino”, ma su tutti ricorderei Elizabeth Zimmermann, che ha scritto numerosi libri sul lavoro a maglia. Di lei ricordo con piacere l’atteggiamento severo e rigido, a tratti anche molto militaresco, che non può che far sorridere. Sua era la frase, ormai celebre: “Come? Non riuscite a lavorare a maglia al buio? Sciocchezze, chiunque può riuscirci. Chiudete gli occhi e fate una maglia a diritto. Aprite gli occhi e guardate il risultato : è perfetto. Chiudete gli occhi e fate due maglie. Poi riapriteli. Chiudeteli e fate tre maglie…”

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