-Passo a prenderti dopo cena – mi avvisa subito Marina mentre mi accoglie allo sbarco dalla Caronte, il traghetto che unisce la Sicilia alla Calabria. Mi porterà a vedere la casa appena acquistata e mi consiglia di indossare degli scarponi: con tutta la pioggia che è caduta, l’argilla è un terreno impraticabile.
I pochi giorni che trascorro a Messina passano sempre più velocemente. Dopo vent’anni che sono via ho ancora tanti amici, soprattutto amiche, praticamente sorelle. C’è sempre una novità, qualcosa da sapere, da scoprire o semplicemente un pezzo di vita da condividere ancora, come quando eravamo ragazze. Il tempo passa e noi, cariche delle nostre esistenze affollate e appesantite, siamo ancora e sempre qui con la stessa dolcezza e una nostalgica armonia. Vorremmo passare la notte insieme a ridere di stupidaggini, a fumare sigarette, a raccontarci amori, tradimenti, pettegolezzi e speranze. Invece la notte assieme non si trascorre, perché ognuno di noi ha la vita incastrata in altre vite, quelle di mariti, figli, genitori che invecchiano. Gli argomenti non sono più gli amori e i sogni. Tuttavia non abbiamo nostalgia del come eravamo, soltanto avremmo bisogno di quella leggerezza.
Messina per me è la città più bella del mondo, la vista dello Stretto mi incanta ogni volta come se fosse la prima volta. Marina di solito mi carica in macchina e mi porta ai Laghi di Ganzirri, per poi spingerci fino alla Punta, capo Peloro, un luogo che mi rapisce. La macchina va e noi chiacchieriamo: Marina guida distante dal volante, mi sembra sempre più piccola, col suo cespo di capelli ricci scuri, ormai anche i suoi tinti. Lungo la Strada Panoramica la vista è pazzesca. Qui QQqqMi fa dire ogni volta: qui io voglio morire: se non da vivo, ci tornerò da morto diceva mio nonno. E io ora come lui. Messina e certa sua bellezza sono una malattia. Le luci della Calabria tremano, le navi passano come enormi dinosauri sul mare che sembra fermo. Il pilone è lì, illuminato, la nostra piccola Tour Eiffel, simbolo di quello che siamo e che vogliamo continuare a essere: isolani. Il ponte? No grazie. Giù le mani da questa punta di paradiso, dove il mare è freddo e le correnti gelano le gambe e ti trascinano via se non fai attenzione. Qui i due mari si incrociano, si increspano e formano dei gorghi che fanno paura.
Ma stasera niente giro classico, Marina mi porta a vedere la sua casa comprata all’asta, sulla costa tirrenica, lato monte. Percorriamo la litoranea, dove le casette basse dei pescatori sono sommerse dal cemento recente di nuove costruzioni che dal mare nascondono anche la collina. Le luci sono aumentate e le stelle scomparse. Costeggiamo il lago grande di Ganzirri. In giro nessuno, è autunno e questa zona è frequentata soprattutto d’estate. Seguendo la curva lasciamo lo Jonio e affianchiamo il Tirreno. E’ tutto così buio adesso. Gli stabilimenti balneari sono ombre tristi nella notte. Il mare brilla violento e le sue onde di schiuma altissima, illuminano come un flash per un istante. Qui non c’è città, qui è un paradiso selvaggio. Marina è felice. Io un po’ inquieta. Questo buio e questa assenza di vita mi fanno impressione, mi spaventano. <Ecco, siamo arrivate>, esclama entusiasta.
Io non vedo niente. Marina entra in retromarcia nel buio e nel fango. Infiliamo gli scarponi e il piede affonda nell’argilla. Mi sento a disagio. Vorrei fare mia la felicità della mia amica e cancellare quel timore che mi assale e non comprendo. Cosa ci può succedere? Il cielo poi è così bello! Cerco di spostare l’attenzione sulle stelle che brillano numerose, nemmeno fosse il dieci di agosto. <Non è bellissimo, Vale?>, mi dice estasiata. <E’ bellissimo, Mari>, rispondo automaticamente ma senza convinzione. Certo, tutto è magnifico, però non mi rilasso. Forse perché ho freddo. Marina mi rolla una sigaretta, faccio un tiro lungo come se possa scaldarmi consumandola in una sola boccata. In questa oscurità non mi rendo conto di dove sono e di cosa calpesto. Marina non avverte il mio disagio e mi mostra la casa o meglio quello che sarà dopo la ristrutturazione. Bisogna avere qualcosa per cui vivere e lei ha fatto di tutto per avere questa casa. <Adesso andiamo Vale. Tu stai morendo di freddo, ti ho tenuto un sacco di tempo qui, che stupida…>. Risaliamo in macchina. Ci cambiamo le scarpe sporche di argilla e scendiamo piano, costeggiamo lentamente il muro di contenimento, Marina mi spiega dove inizia e dove finisce il suo terreno terrazzato. Ci fermiamo e scendiamo per vedere meglio. L’aria è ferma e fredda. Tutto è immobile. La casa non si vede. All’orizzonte un fulmine, ma è lontano. <E’ prevista ancora tanta pioggia. Mi sa che quel temporale viene da queste parti>, dice Marina quasi parlando a se stessa. A me da dentro monta un’ansia che non so valutare. Ci salutiamo. Il cielo è bellissimo.
L’indomani mattina appena alzata quello stesso cielo è talmente nero che penso sia ancora notte. Mi avvicino alla grande finestra del salone, il mare è scomparso. La Calabria non si vede. Tuona. Chiamo mia madre.
<E’ un’iradiddio. Vediamo cosa deve succedere questa volta>, dice mia madre agitata, che non ha paura nemmeno del terremoto. Forse perché negli ultimi tempi a Messina le alluvioni si ripetono, producendo sempre più danni. O forse perché per colpa di un’alluvione abbiamo perso una persona cara: Simone era dentro l’auto trascinata dall’acqua che veniva giù da un vecchio torrente prosciugato. Non si è mai più trovato. Basta una goccia d’acqua e torna a galla il ricordo di quella tragedia.
Il temporale è durato tutto il giorno. La città si è bloccata, come sempre. Il Viale della Libertà galleggia, il traffico in tilt, il tram fermo. Tutto è fermo, senza vie di fuga. Quando finalmente torna il sole si fa il bilancio dei danni. Poteva andare peggio. Poco prima dell’ora di pranzo mi arriva un sms di Marina. «Il sogno è finito – mi scrive brevemente – la mia casetta non c’è più». Che vuol dire? La chiamo di corsa. Marina piange sommessamente. Poi, tra le lacrime, colgo qualche parola e capisco. La pioggia ha fatto cadere il muro di contenimento, là dove ci eravamo fermate poche ore prima. Non ha ucciso o ferito nessuno, per fortuna e neanche la casa è crollata, forse per miracolo, ma è in bilico su un pezzo di collina svuotata. L’accesso alle altre abitazioni è impedito. E trattandosi di strada privata, la Protezione Civile dice di non poter intervenire. Marina piange in silenzio. Nemmeno lei sa se per la casa perduta o perché immagina i guai cui va incontro. L’enormità del guaio è subito evidente. Deve togliere il muro. Deve mettere in sicurezza la zona. L’Ordinanza del Comune è un comando: devi farlo, pena l’arresto. Marina è sopraffatta dai pensieri di avvocati e di soldi che non ci sono, di vicini agguerriti.
Domenica il sole sembra aver cancellato i giorni dell’alluvione. Non certo per Marina. Mi sveglio presto, forse per il silenzio che a volte mi fa lo stesso effetto del rumore. Propongo a mia madre di andare a fare una passeggiata, a vedere il muro caduto e a mangiare una granita di caffé con panna speciale e per speciale intendo quella del Bar del Sud. Usciamo. Con quell’aria d’estate e il gelato in bocca, è tutto così tranquillo che quasi dimentico Marina e i suoi guai. Ripresa l’auto mi dirigo verso il mare a vedere il muro. Quando arriviamo sotto a quel cadavere di cemento rovinato sulla strada, mamma rimane senza parole e appena si rende conto della situazione mi rimprovera di essere stata lì qualche sera prima. Torniamo a casa quasi in silenzio. <Povera Marina, cosa possiamo fare per lei?>, con questa frase ogni tanto mia madre spezza quel silenzio. Una volta a casa la aspetto invano, avrebbe dovuto venire a prendere un caffé per poi andare da suo fratello e intanto si è fatta l’ora del tè. La chiamo, il suo telefono squilla a vuoto. Si sarà addormentata come al solito, penso. Dopo circa un’ora mi telefona il fratello, è preoccupato ci aspetta da ore. Restiamo in silenzio al telefono per qualche secondo. L’idea che si sia addormentata così a lungo non regge. Ormai è sceso il buio: sono passate più di dodici ore dal suo ultimo segno di vita, un messaggio che mi ha inviato alla sei del mattino. «Non dormo e non mangio. Non faccio che pensare». Decido di andarla a cercare. Mentre prendo dal cassetto la torcia, mamma mi guarda preoccupata. <Avete pensato di chiamare la Polizia? Potrebbe avere avuto un incidente>.
Mi avvio, quasi scappo. E’ sempre così, quando mi assale la paura. Corro verso la porta e mia madre mi segue con la giacca indosso, la borsa alla spalla e una torcia in mano. <Io vengo con te>. Esito ma senza ribattere. Dopotutto mi fa piacere la sua compagnia. Mentre penso a Marina me la immagino da qualche parte a fissare il vuoto e ad aspettare che il tempo passi. Come in uno stato di trance, come quando provi a chiudere gli occhi e riaprirli sperando di essere da un’altra parte. Come quando vuoi credere che sia solo un brutto sogno. Mi dirigo verso la Punta, al Faro. E’ buio. Parcheggio nel piazzale sabbioso dove di solito io e lei ci fermiamo a guardare il mare. Da quel punto c’è una bella camminata fino alla riva. Dico a mia madre di non venire, ma lei è già scesa e si avventura con me verso il mare argentato. Gridiamo il nome di Marina invano. La luna illumina l’acqua piatta e silenziosa. Deluse, torniamo in macchina. La sabbia è fredda e umida ed è impossibile scrollarsela di dosso. Ce ne andiamo da lì. <E ora?>, chiede mia madre. <Ora andiamo a casa mia, al mare. Lei ha le chiavi, dovevo pensarci subito, quando cerca tranquillità va sempre là. E allora davvero si sarà addormentata oppure non avrà voglia di parlare con nessuno>. Non sono molto convinta, ma vale la pena di provare.
La piccola villa è in un comprensorio a Casa Bianca, una frazione di Messina, a una ventina di chilometri dal centro della città. E a un paio da Mezzana, dove l’alluvione ha fatto il suo danno. Scendiamo verso il mare, il vialetto è deserto. D’inverno è così: desolato, buio, inquietante. Cerco le chiavi nella borsa, nervosamente, fin quando mia madre ferma la mia mano con la sua. <Che fai? Non lo vedi che è tutto buio, non c’è segno di vita e soprattutto non c’è nemmeno una macchina. Dai lasciamo perdere>.
Metto in moto e mentre faccio manovra mi viene l’ultima idea: andare a casa sua, potrebbe essere lì e siamo talmente vicine che sarebbe sciocco non provare anche questa. Dalla statale 113 infiliamo il vecchio cancello arrugginito, poggiato al muro, aperto ormai da sempre: fa paura anche questo, tutto sembra che possa staccarsi e caderti addosso, tutto sembra reggersi in un precario equilibrio. Dirigo la torcia sul muro scivolato che impedisce il passaggio. Mamma mi vieta di andare avanti con la macchina, ma io sento che devo spingermi oltre. Fermo l’auto e proseguo a piedi. Rassicuro mia madre. <Tu aspettami qui. Non può succedere niente. E’ già successo tutto. Tu illumini con la macchina, io con le torce. Arrivo fino alla casa per capire se ci sono segni di Marina>.
Mamma accende il motore e illumina il mio percorso. Corro finché posso. Passo sotto al muro. Comincio la salita, ma non ce la faccio più. L’aria non mi basta, la paura non mi aiuta, le tempie mi pulsano. Non provo nemmeno a chiamarla non ho più fiato. Quando la salita s’impenna, proseguo camminando a fatica e tenendomi il fianco dolorante, ansimo. Nella curva mi infilo a destra verso il cancello di casa e appena alzo la torcia, vedo la macchina. Urlo il suo nome a ripetizione, disperatamente. Niente. Mia madre da sotto si agita. <Che succede?>. C’è la macchina, ma di Marina nessuna traccia. Non ci sono luci accese né porte aperte. Mi avvicino alla sua auto, dentro c’è la borsa con il cellulare, le sigarette, c’è tutto di lei, tranne lei. Ridiscendo verso mamma, la torcia spenta. Lentamente, anche sotto al muro. La testa bassa. A quel punto serve la Polizia. Mamma mi viene incontro, senza più paura del muro. Ci troviamo proprio là sotto. Mi abbraccia. In quell’attimo di calore, conforto e silenzio avrei voluto restare per sempre. <Non devi piangere>. <Non sto piangendo, mami>. <Se n do, mami.
– Se nembra che possa staccarsi e caderti addosso, tutto sembra sorretrecarientina di chiloetri on sei tu allora chi è? C’è un lamento, lì verso il muro, lo sento>. Allungo l’orecchio mentre già corro verso il poggio franato, incurante del pericolo.
<Marina, dove diavolo sei?> Grido nel buio mentre cerco di salire e l’argilla mi fa scivolare. I piedi affondavano. Quasi gattono, infilo anche le mani per non perdere tutto il terreno conquistato. L’argilla entra nelle unghie e nelle scarpe, mi graffio senza sentire dolore. Mi accascio stremata e mi lascio scivolare. Mi ferma il muro, steso per terra, immobile ma pronto a muoversi ancora. E lì sotto c’è Marina! Ha scavato una piccola buca e poi muovendo il corpo l’ha fatta più profonda. Con un lamento continuo si butta la terra addosso come per sotterrarsi, sotto a quello stramaledetto muro.
<Mari? Marina? Marinella? Mi senti? Sono io, Valeria, che cazzo ci fai sotto terra, sotto al muro? Dio Santo quanta argilla ti sei mangiata e ce l’hai tutta negli occhi. Mari mi senti? Sono Valeria…>
Lei continua la sua litania, mentre cerco di ripulirla e di tirarla fuori di lì. E’ pesante, nonostante sia pelle e ossa. E io scivolo. Ma dobbiamo scappare da quel posto, mi è tornata la paura, ma mi deve aiutare. Lei parla piagnucolando. <Volevo provare a sentirmi una terremotata. Vivo o no nella città dei terremoti? Io ho avuto il mio e volevo provare a morire sotto le macerie. Ma non riuscirò a morire, perché sono una vigliacca. E visto? Mi sono fatta trovare… E’ stato facile, no?>
<Non è stato affatto facile. E non sei una vigliacca altrimenti ti saresti già ammazzata o saresti fuggita chissà dove. Dai, dammi una mano e vieni fuori da questo cazzo di buco>.
Finalmente muove le gambe e mi aiuta a tirarla fuori. Davvero mi sembra di estrarre un corpo da sotto le macerie di un terremoto. E’ infreddolita e sporca, ma almeno riprende a ragionare. Mi fa una tenerezza infinita.
La La porto a dormire a casa mia. La notte è lunga, un po’ guardiamo il soffitto, un po’ a pancia in giù incrociamo le nostre gambe. Eccola quella notte che non pensavo di poter rivivere più con un’amica. Certo non c’è la leggerezza dell’innocenza degli anni dell’adolescenza, dove tutto sembra possibile, ma riusciamo anche a ridere e ogni tanto piangiamo. L’indomani sera Marina mi accompagna alla stazione, mi parla con una nuova forza. Vede la luce, legge un percorso. Perché una donna non si arrende mai. <Coraggio amica mia>, le sussurro mentre ci abbracciamo sulla linea gialla del binario 10 della stazione centrale di Messina.
Il treno corre. Quando supera Scilla mi affaccio dal finestrino. Il vento in faccia mi toglie il respiro. Di fronte, la punta della Sicilia poggia addormentata sulle sue correnti. Il Pilone è illuminato, il faro fa il suo eterno giro. Alzo la mano in segno di saluto e immagino che anche Marina, da quel triangolo di terra, stia salutando me col sorriso di chi ora vede oltre il muro.
Valeria Ancione è nata a Palermo nel 1966 e cresciuta a Messina, dove torna ogni anno per l’estate. Dal 1989 vive a Roma. Lavora come giornalista al ‘Corriere dello Sport-Stadio’, si occupa anche di calcio femminile. Ex giocatrice di basket, è sposata e ha tre figli. Quest’anno ha pubblicato La dittatura dell’inverno per Mondadori.