La maratona del romanzo
L’atletica è una perfetta metafora della letteratura e la letteratura è una perfetta metafora dell’atletica. Scrivere e correre, due attività così lontane e così vicine, la prima da svolgersi seduti e a spalle chine, la seconda petto in fuori e gambe a mulinare. Ci vuole talento per riempire la pagina bianca e per macinare strada, ma soprattutto ci vogliono disciplina, allenamento, senso tattico, umiltà e conoscenza delle proprie qualità e dei propri limiti. Prendiamo i cento metri. La regina delle discipline olimpiche sta all’atletica come la poesia sta alla letteratura. Così come nello spazio di due righe un grande poeta è capace di esprimere emozioni e contenuti, nel volgere di dieci secondi un centometrista è in grado di sprigionare potenza e velocità. In entrambi i casi il risultato è uno solo: la bellezza. L’arte dell’autore (velocista o poeta) e l’ebbrezza del fruitore (spettatore o lettore) si combinano in una miscela irripetibile di estetica e batticuore. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” vale una volata di Usain Bolt. E’ questione di un attimo, un soffio, una scossa elettrica che attraversa la mente, ed è già filo di lana, ed è già fine del verso. Ebbene sì, Ungaretti era uno sprinter. E cosa dire dei racconti brevi? Alcune, fulminanti novelle di poche pagine (esemplari, in questo senso, i lavori di Kafka e Salinger) hanno la stessa forza e la stessa cadenza espressiva di una finale mondiale degli 800 o dei 1500 m. Nel mezzofondo spunto e potenza non bastano, intervengono altri fattori, tra tutti la resistenza alla velocità. Allo stesso modo lo scrittore che si cimenta nel racconto breve non può esaurire la sua vis creativa in poche righe, è costretto a dare vita a un’ossatura narrativa con un capo e una coda. Insomma, l’ispirazione non è sufficiente, è altresì necessario accendere i riflettori su trama e personaggi. La forma breve non richiede l’approfondimento delle situazioni e delle psicologie, ma proprio per questo, per certi aspetti, rappresenta il modello narrativo più complesso. Non è un’impresa da poco riuscire in poche pagine a emozionare il lettore e comunicargli il senso della storia. In un racconto non si può sbagliare nulla e, a differenza che nel romanzo, non ci si può concedere pause o capitoli di transizione. Raymond Carver diceva: “Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”. E veniamo alla maratona, emblema della fatica fisica così come il romanzo è rappresentazione della fatica mentale (stiamo parlando di letteratura “vera”, non dei vari Ligabue, Volo, Pupo, Tullio De Piscopo e “giornalisticantanticalciatoripresentatori” che infestano le librerie…). Portare a termine un calvario di 42.195 metri equivale a costruire quella cattedrale nel deserto che è un romanzo. La realizzazione di un’opera narrativa di dimensioni consistenti richiede lo sviluppo contemporaneo di vari elementi: trama, personaggi, dialoghi, ambientazione, temi. E non è finita, tanto più un’opera è complessa tanto più sarà lungo il lavoro di revisione, che molte volte richiede il doppio del tempo richiesto dalla prima stesura. Idem la maratona: per arrivare sani e salvi alla fine (magari facendo registrare il proprio record personale) è necessario essere perfettamente allenati, avere senso tattico, saper dosare le energie, sfruttare al meglio i punti di ristoro, correre in modo efficace. Per scrivere la parola fine a un romanzo e per tagliare il traguardo di una maratona è imprescindibile tenere un passo costante. Mai sparare subito tutte le cartucce, altrimenti al ventesimo chilometro si resta senza fiato, altrimenti dopo ottanta pagine si è già detto (male) tutto quanto c’era da dire. La parola d’obbligo è pazienza. Sia la maratona sia il romanzo constano di una partenza, un tracciato e un arrivo. E nel percorso ci sono le salite e le discese, le crisi e gli stati di grazia. In entrambe le situazioni vige la sacra regola cui deve attenersi ogni guerriero che si rispetti: mai mollare. La maratona è propedeutica a tutti coloro il cui obiettivo è scrivere: insegna a dosarsi, a rinunciare allo scatto bello ma inutile, a pensare che la strada che porta all’arrivo è irta di imprevisti. Spesso, scrivendo, capita di innamorarsi di una situazione o di un’idea, e allora viene istintivo picchiare sui tasti, lasciarsi andare. Invece no, per evitare la creazione di opere asimmetriche e zoppicanti è necessario calibrarsi, avere il coraggio, talvolta, di mandare a dormire sul più bello un personaggio per poterlo poi risvegliare al momento giusto. Sì, scrivere è come correre e correre è come scrivere, basta sbagliare passo e ci si ritrova a terra con la bocca spalancata a caccia di ossigeno.
Marco Cassardo è nato a Torino nel 1965. Nel 1998 pubblica per Limina Belli e dannati – Il popolo granata e l’arte della pazienza -, una dichiarazione d’amore al Toro e a Torino, di cui nel 2003 esce la seconda edizione. Per Cairo Editore ha pubblicato i romanzi Va a finire che nevica (2007, finalista al premio “Libro dell’anno” di Fahrenheit Radio Rai3) e Mi manca il rosso (2009). E’ attualmente in libreria con un nuovo romanzo, Un uomo allegro (Miraviglia, 2014) E’ un maratoneta e gioca nella Nazionale di Calcio Scrittori con la maglia n.25. Vive e lavora a Milano come Mental Coach degli sportivi professionisti. Il suo sito è: www.marcocassardo.it. Lo potete trovare anche su facebook.com/marco.cassardo.3