Per solito le cose si presentano e i fatti accadono senza chiedere il permesso, l’indifferente natura indifferente a qualsiasi valutazione o superstizione umana, ai danni o ritenuti tali o alle conseguenze eventuali. Quando non sia così, quando qualcuno fuori dalla sua giurisdizione decida di elevare una costruzione, variamente intesa, dal grattacielo alla villetta mono-famigliare, dal ponte alla diga, per quanto di pubblica utilità o privata competenza, egualmente questo edificare è piantare una cisti, un corpo estraneo, come un formicaio o un tumore in un contesto alieno quando non inadatto. Vabbè. A parte stanno cose che appaiono o addirittura si trovano o vengono scoperte in una certa situazione o in un certo luogo e che illuminano una radura per così dire: nessuno sa chi le ha costruite, se si tratta di costruzioni, nessuno sa chi le ha posate o come si sono posate lì dove sono, se sono oggetti senza cognizione di causa. Le pietre brillano in questo senso: sai mai se la disposizione dei sassi in un fiume è frutto della fantasia di uno spirito burlone, fantasioso o caotico e ribelle che secondando il caso di cui è interprete abbia creduto far bene a lanciare questa pietra qui, quel ciottolo lì. Il discorso vale anche per le frane. Speculazioni, direte voi lettorini patentati. Sì sì.
Ora, molto ma molto tempo fa, i primi uomini arrivati là dove fondarono e sorge oggi la città di***, allora una distesa boscosa circondata da un anello di cime discontinue a memoria di una vulcano forse sì o forse no, nel mezzo esatto di quel bosco trovarono una stele. Bisogna immaginare che, con qualche po’ di circospezione, si limitarono a prendere atto dell’enorme, altissima pietra, obelisco o stele – si sa per certo che è alta 13 metri, 26 centimetri e 52,3 mm, dato che, se artefatta, lascia supporre non sia stata calcolata col smd – ma la sua presenza lì immensa e alta e stretta giustificò, vai a sapere perché, la nascita intorno ad essa appunto di un primo nucleo di capanne quasi mimetizzate tra la vegetazione, poi di belle case di legno profumato intorno a una piazzetta, o rotatoria, sovrastata dall’alto cippo e poi, distrutte queste ultime per caso o precisa volontà, templi svettanti di chissà 80 o più piani a sfidare il cielo e la stele stessa, immersa in quello che tornerà ad essere oggidì un bosco o parco, ma cittadino, con quattro bei viali a raggiera, uno di peschi, uno di meli, uno di ciliegi, uno di magnolie viola, dalle alternate fioriture; tutti convergono nel centro là dove posa la pietra.
Lucida e senza un’imperfezione, quasi milioni di fiumi le fossero passati sopra prima e come se poi il vento e la sabbia l’avessero smerigliata a modino, la stele – chiamarla altrimenti mah – è di un bel colore che non si saprebbe definire, è cioè di molti cangianti colori, e in sé ha la luccicanza, quello shining dell’argento e dell’oro qua e là del ferro il rosso, i lampi del diamante e di molte altre pietre brillantine; diverse indagini hanno accertato il rubino e lo smeraldo qua e là ma tutti questi minerali confusi in una sorta di magma per cui, nonostante il cogente furore umano per far cassa, dal vandalo all’imprenditore all’assessore comunale, di cavare profitto da ogni cosa, bucando e scavando e frantumando, alla fine uno strano ritegno ha fatto sì che nei millenni nessuno abbia alla fine adottato la responsabilità di distruggere e tritare un’opera senza nome come la stele… peraltro qualunque tentativo di scalfirne anche di poco la superficie è stato e fu inutile; sì, si pensò anche alla dinamite che però polverizza e tanti saluti; la pietra è inscalfibile e quindi amen. Oggi più di ieri quella freccia di pietra puntata dritta verso l’infinito si lascia ammirare dai passanti; per gli sposi novelli vige la tradizione di farsi fotografare alla sua base in abiti bianchi o rosa, per gli innamorati di esprimere giuramenti e voti e non pochi sono i turisti richiamati in quella città proprio dalla presenza di quella incognita del tempo. Ciò alla fine fa guadagnare dei gran bei soldi al comune, ai commercianti, ad alberghi e ristoranti; la stele quindi porta ricchezza così che nessuno ha più pensato ultimamente nemmeno di rimuoverla per porla al riparo di un museo, ipotesi ventilata. Qualcuno però ha calcolato che salvo terremoti o eventi catastrofici di altra natura, attacchi nucleari o di missili convenzionali, ferma lì la pietra durerebbe milioni di anni ancora, intatta tanto è dura. Un’indagine recente ha rivelato che la stele è conficcata tra l’altro nel terreno per una lunghezza pari a quella fuori terra, più un pezzetto.
Una curiosità completa il quadro di mistero circa il pietrone. Ben visibile infatti anche per chi guardi di sguincio dal basso, e di poco sotto il suo colmo, sta un’iscrizione, incisa diciamo a scalpello. Il fatto che nessuno né in passato né nel presente sia mai riuscito a saggiarla quella pietra, farne dei carotaggi e con nessuna punta nemmeno delle più diamantate ha da subito suscitato ridde di interrogazioni circa la mano o lo strumento che realizzò l’iscrizione o, a volere la decorazione, tanto i caratteri incisi sono di squisita e nobile fattura. C’è chi nei caratteri ha voluto decifrare un augurio in una lingua proto-mondiale – la lingua di Eva per dire o della torre di Babele – e cioè, Sarà accontentato chi di qua passerà. Ma via – dicono altri…– 13 metri e rotti di roccia per scriverci sopra protomondiali stupidaggini… si tratta anzi di una sorta di proto-pontico ma vai a decifrarlo; Checché – insistono qualcuni – Di sicuro è sino-tibetano per non dire nipponico o aleutino così da significare… C’è chi va a piedi e chi a cavallo e tutti perdono il cappello…; controcorrente c’è chi vi ravvisa un cuneiforme che non è, chi delle rune o ancora ancora segni in proto-dravidico o di paleo uralo-altaico ma tanto proti e tanto palei e tanto improbabili; nessuna ipotesi o comparazione è parsa mai utile a sciogliere l’enigma. Ovvio che, come in altre situazioni, la pietra non reca sotto una traduzione comparativa in qualche lingua certa, men che meno in inglese.
Questa iscrizione è però il motivo per cui la pietra è detta magica da taluni, sacra da talàltri, per non dire di origine divina. Qualcuno ha azzardato che il mezzo usato a inscrivere i misteriosi caratteri dell’iscrizione sia stato il dito stesso di dio, in stile roveto ardente e nel suo patois personale; ovviamente non manca chi afferma essere l’iscrizione di origine aliena e dunque incisa con un laser da certi extraterrestri – sviluppatissimi, bravissimi e tuttissimi – che antichissimamentissimi abitarono quella terra. Inutile indagare il motivo di questi bizzarri sentimenti. E stupido cioè umano trovare un senso a ogni cosa di cui sfugge il senso, per associarlo al pensiero confortante con cui si giustifica questa o quella superstizione e la totalità delle credenze che, cristallizzate in religioni, affliggono con pervicace follia nel metodo il quotidiano universo mondo. Non è dunque raro trovare al piede della stele: candeline, nastrini, ex-voto ed ex-foto o, in carne ed ossa, persone inginocchiate in preghiera o in piedi a dondolare avantindré. La stele sembra soddisfare il bisogno di cominciare la giornata in banca o in ambulatorio con un raccoglimento che potrebbe benissimo realizzarsi in salotto, ma che per oscure ragioni a certuni pare di più efficace riuscita – in che termini e per che cosa è impossibile da riferire – così all’aria aperta e sotto l’egida di così tanta mole di raccoglimento in sé stessa. Ognuno del mistero fa quel che gli pare, soprattutto quello che può sciogliendone i nodi a modo suo, senza spada, ma in modo analogo: come fece a Gordio dunque quel furbo baro di Alessandro, ragazzo impetuoso e scellerato, molto cantato da un’ammirazione irragionevole quanto perniciosa.
C’è poi tuttavia un motivo in più, definitivo, per ritenere la pietra qualcosa che la città deve mantenere. Succede che all’approssimarsi del Natale, da anni da molti natali – e all’avvento del turismo invernale molto diffuso dato che la città di *** si trova a una quota di suo ragguardevole, 1835 mslm, a un meridiano piuttosto settentrionale e in mezzo, s’è detto, a una chiostra di creste – quando per estensione in quasi tutto il mondo ognuno a suo modo celebra la mitologia del bambinello di Betlemme, della stella – qualche professore proclama in classe a convincerne i bambini che hanno la stessa etimologìa stele e stella, di cui la pietra sarebbe una coda, un frammento o un avatar, una bizzarria nella fisica delle particelle o un’illusione – accade dunque che la stele prenda a brillare di più, ma tanto, come se in questo periodo, se vogliamo magico, da magi, dell’anno, essa restituisse la luce, i quanti di luce assorbiti nella stagione calda, per emetterli in quella fredda come le batterie fanno con gli elettroni. Che la stele sia una grande pila, avanzo della distruzione di un vascello alieno capitato a gironzolare sulla terra uno o due milioni di anni orsono, è una ulteriore congettura infondata ma in voga tra gli adepti di congreghe che si lustrano a vicenda i baffi pensando di aver trovato la risposta alla domanda che non c’è. La stele non porta risposte e, come è noto, tutto ciò che non ha risposte, porta ad inventarne. E sempre per lo stesso motivo nascosto, non si creda: il timore del vuoto, del buio eterno, del freddo senza ritorno, della morte senza rimedio. Insomma si diceva che sotto Natale e fino al capodanno la stele pare illuminarsi di luce interna, per poi, dal primo giorno dell’anno che segue, tornare pian piano alla sua primitiva lucentezza passiva.
A***in un condominio svettante sul panorama dei monti, viveva Pietrino, un bambino tra i meno attrezzati per la vita del giorno d’oggi, poco versato nel calcolo, anzi del tutto alieno ad esso, specialmente alle divisioni e all’uso del più e del meno, e perciò disperazione della sua mammina-cara e ragioniera di famiglia-cara, che invano tentò in una certa occasione di inculcargli il senso di un compito detto la montagna della decina, assegnato dalla maestra in classe e tale che, nonostante gli sforzi, i pianti e l’orrore di vedere la mammina-erinna uscire dalla stanza da bagno vociante in una nuvola di vapore e con tutte quelle cose penzoloni dal petto e un’ombra nera tra le gambe, a sgridarlo, a dirgli che è uno stupido e che insomma così e cosà, Pietrino non riuscì a portare a termine non in uno ma in diversi pomeriggi. Per natura Pietrino si dedica agli erbari, ama le stelle e la sintassi, e il gatto-caro di cui ha cura e scrive per lo più, né gli interessa altro che erbe e stelle, la sintassi, il gatto e certe rime piccine che il babbino-caro una volta ha intercettato e sottoposto all’attento e preoccupato esame di un dottore della sua sorte al fine dichiarato di trovare in Pietrino un disturbo, per lo meno della personalità, per non dire della socialità. Pietrino, nomen omen, amava dunque la pietra della stele come dirittura dello spazio, ci passava spesso accanto, anzi ogni volta per andare a scuola. A Pietrino sapere la pietra lì al suo posto dava una specie di gioia quotidiana, un’euforia quasi, che da anni sotto Natale si alimentava della sua luccicanza. Pietrino non sapeva spiegarsi né ci provava. Accoglieva quello stato incantato che maturava in lui con calma, come quando uno accoglie il benessere della tisana serale e piano piano ne asseconda il compito di spedirlo senza paura nel sonno. A scuola la maestra insiste nell’illustrare l’abbassamento dello zero al quoto, se si dice così, ma a Pietrino la cosa non interessa – Perché mai abbassare uno 0 se sta benissimo dov’è – si domandava spesso sbagliando tutte le divisioni con rassegnazione preso com’era invece dalle possibilità del congiuntivo e del condizionale o…
Ora, forse il 20 o 21 dicembre dell’anno **** e mentre in città refolàva la neve in circoli e si stendeva sulla città un bel cielo grigio di varie sfumature, Pietrino passava poco dopo la scuola accanto alla sua stele. Si fermò ad ammirarla e ad accarezzarla come accarezzava il gatto di casa, l’unico con cui era certo di avere un’intesa. Abbracciò il freddo della materia e in quella, levando per caso la vista in su verso l’iscrizione ecco che qualcosa gli si formulò negli occhi prima e nella mente subito dopo. No, non crediate, oh lettori che una qualche magia stesse rivelando l’iscrizione in lettere fiammanti, stile Sinai appunto, no no; è però che a Pietrino sembrò che i caratteri iscritti nel sasso, di colpo ai suoi occhi si combinassero e disponessero in una frase di senso compiuto… E la frase era questa, Io sono pietra e tu no… tu non sei pietra e io sì.
In quell’istante a Pietrino parve di avere capito di tutto un po’ un po’ di più. O fu solo un’impressione.
In apertura Nieces di Zoey Frank