L’ElzeMìro – Mille+infinito – L’acciarino – 3ª puntata.

(nota bene da aggiungere all’inizio : che la vecchia chiede le si porti una chiavetta, una pen drive, chiusa con i soldi in una cassaforte, la stessa dei soldi ; lei prima dà la combinazione della cassaforte al soldato ; magari con un indovinello ? da aggiungere : quindi che può prendersi il cane se vuole ? poi vedrò i dettagli)
“eccola qui la chiavetta che cercavi” – rispose il sergente maggiore agitandola in viso alla vecchia come … “io dico” – proseguì il sergente maggiore con fare da carogna – “io dico che qui dentro ci sono nascoste molte più occasioni di soldi di quelle che ho trovato nella cassaforte”
( brutta frase, provare con questa : “qui dentro ci sono cose che possono fruttare molti più soldi e vantaggi di quelli che si possono immaginare e ottenere con i soldi stessi”. Boh. Però, mi sembra, è grammaticale, molto poco da sergente maggiore che un po’ di carattere deve averlo, domanda : ma quale)
“scommetto che qui ci sono nomi, scommetto, e cifre e conti e parole d’ordine da attingere”….                                                                                                                                                                  (oppure : “scommetto che qui dentro c’è una fortuna di ricatti” ma il linguaggio quale deve essere, capisco mica come ottenerlo)  La vecchia protestò che non ne sapeva niente, che uno… uno…uno. che gli  doveva un favore e le aveva chiesto. ma tutto un discorso confuso che il soldato troncò con un pugno. poi legò la vecchia all’albero
(ma dove, a che albero se sono enormi e dove mai ha/trova una corda il soldato? Dentro o attaccata allo zaino che ha riempito di soldi? Piuttosto : le dà un pugno e poi la incapretta con quelle fascette di nylon da elettricisti? Cerca. Si chiamano : fascette contenitive. Pare. Ma il soldato perché dovrebbe averle… uff)
poi prese a tagliuzzarla con la sua baionetta, e fu tortura bella e buona per quanto bella e buona sia un’espressione che si adatta male alla parola e alla pratica della tortura che, una dall’altra sono molto distanti. la vecchia non resistette nemmeno un quarto d’ora e confessò tutto quello che sapeva della chiavetta. al termine il sergente asciugò la baionetta nei vestiti della donna, quindi guardandosi intorno annoiato come chi non sappia che pesci pigliare si diede conto che per chilometri non si vedevano né case né creature viventi. via libera dunque. poteva fare qualsiasi cosa. la vecchia gemeva, una tristezza incoerente prese il sergente maggiore che a bruciapelo le sparò in testa ed è ovvio che la uccise. poi la chiavetta : se la cacciò in una delle tante tasche, anche quella, e se ne andò. Un attimo dopo però, tornò a recuperare il bossolo del colpo che le aveva sparato e anche il proiettile
( o palla )
che la testa aveva attraversato schiantandosi poi nella corteccia di uno degli ulivi . “si può mai sapere” brontolò un poco, forzando con la punta della baionetta il proiettile accartocciato nel legno. e partì.
Il bassotto da guardia trottò dietro il sergente. lo aveva portato su  con sé dalla botola e il cane, che aveva assistito all’assassinio appena commesso, capì che quello lì, il sergente maggiore, era evidente fosse il suo nuovo padrone. E lo elesse. È questo che i cani fanno più volentieri.

Poiché non era il tipo di scrittore che passa le ore a scrivere senza fermarsi, che già si sa che gli piacevano spuntini e merende e anche due passettini dei suoi, piccoli, per il paese, o metti fare una lavatrice o persino stirarsi una camicia, Bergomasco si rese conto che per continuare a produrre gli serviva ogni volta di ripetere con l’acciarino quella sorta di incantesimo del fuoco, o come chiamarlo ma, che si trattasse o no di questo, stava cominciando a prendergli la mano in testa ; e sì, è un gioco di parole. Andava al camino, lo scrittore, sprizzava di nuovo scintille dall’acciarino, di nuovo suscitava la fiamma, la nutriva d’aria dei suoi polmoni ma subito dopo, per incanto e un po’ stordito dal gran soffiaesbuffa, si ritrovava allo scrittoio a comporre in disordine quel racconto, a tornare sui passi già scritti, a inzepparli di particolari    – faceva i conti di quante le pagine di una sua foliazione  standard, da parlarne con la grafica, per poi con le illustrazioni…– a deviare e intricare, a pasticciare insomma una forma sciatta con la sciatteria di un contenuto che in forma non sarebbe arrivato a trasformarsi. Sciatto, lo era eccome : uno scrittore sciatto e e proprio per questo tanto apprezzato.
La relazione tra acciarino, fiamma e scrittura, per lui superstizioso grassottello, era un legame di causa ed effetto e osservò ovvero, credette di osservare, che ogni volta quando le dita gli si inaridivano sulla tastiera e chiedevano requie e cibo di ogni sorta, anche spirituale, – Bergomasco era per di più un tipo devoto – bene, ogni volta ripetendo il rituale dell’acciarino, Bergomasco stuzzicava fresca fresca la diteggiatura sulla tastiera, e dighidighi dì e dighidighi dà le lettere gli scaturivano da sotto i polpastrelli come nemmanco a una dattilografa velocista. La notte tuttavia, imperscrutabili il sonno e il sogno gli riproponevano la curiosa epifania della vecchia befana : chiave chiavetta chiava oh maledetta/scoccate sprizzate scintille ammille /ammille rotate in rota perfetta //La chiave ch’è mia rendi, fetente/ti sfido, sgrido bada, t’accido/te tristo minchione oh brutto impotente. E zac la vecchia aveva già gli artigli pronti e diteggiava, lei nell’aria, come una chitarrista d’inferno, canticchiando le sue rime e poi zac via di nuovo la testa a Bergomasco, come un caco, o diòspiro maturo. Bergomasco la vedeva volare via dal busto.

Sognò anche Bergomasco un nuovo episodio da scrivere per l’indomani; ossia di come il sergente maggiore vedesse passare per caso su un ponte una fanciulla di ineluttabile bellezza, al volante di una Porsche bianca, o nera o di un qualche colore ma insomma scoperta ; e che nella rapida corsa sul ponte, alla fanciulla volasse via dal collo un foulard – chissà come, ma l’indizio principale della colpevole sciatteria di Bergomasco stava nella superficialità con cui trascurava di rendere plausibili i fatti a vantaggio degli effetti ; sicché per lui un foulard che vola via era più importante del come e se un foulard può volare via senza che la sua proprietaria, per esempio, se ne dia conto e si fermi a raccattarlo – foulard del quale Bergomasco si domandò se citare o no la marca –. E che il sergente maggiore era rapido nel salvarlo, il foulard, dalle acque del torrente lì sotto, e lo raccoglieva, e lo strizzava ben bene e che in quel vedere e non vedere un volo di capelli nel vento ( biondi più del grano, avrebbe scritto proprio biondi come il grano) il sergente maggiore si fosse di colpo e tuttavia intestato a scoprire chi fosse e a ritrovarla, la fanciulla della Porsche. E poi e poi e poi anche quel mattino Bergomasco si svegliò. E alla fanciulla del sogno diede a macchina un nome, Domitilla del Re, inteso quest’ultimo come cognome di una dinastia di gioiellieri – il giochetto tra re, carica, e cognome Del Re, fece molto sorridere Bergomasco –. E dopo, alcune mattine dopo, e sempre una dopo l’altra chicchere e chicchere di caffè a digiuno, relativo perché la sera prima come ogni sera aveva ecceduto col cibo e col vino e tanto che Nanni l’oste se ne stupiva persino, e quasi quasi lo avrebbe voluto mettere sull’avviso, Bergomasco continuò : il sergente maggiore non sapeva come fare, la figlia di un gioielliere ricco a dismisura come Sommo – pensate di che aspettative lo avevano caricato in culla i genitori – domitilla la figlia era un non-vedere-né guardare-né-toccare, ah lo sapeva benissimo il sergente come va il mondo, nata la fanciulla con non importa quanti e con chi gli accoppiamenti, ma con alla fine scritto nelle sue stelle un matrimonio tra gemme. il sergente maggiore però aveva in mente qualcosa. nel suo necessaire da battaglia aveva, rubate nella farmacia del campo, certe fiale di anestetico pronto da iniettare.
(morfina? etorfina? diprenorfina?)
egli passò dei giorni a perlustrare la muraglia, un vero vallo, con la pazienza che in guerra non aveva. finché, seguendo una pista di odori tra la vegetazione selvaggia che, fuori, assediava il muro quanto era lungo, fu il cane a trovarvi una falla. un buco, un passo da bisce. ma anche il cane vi si infilò divertito e un attimo dopo tornò come per dire : “lo vedi che divertimento passare di qua e di là”. per dare un’occhiata nel buco il sergente dovette appiattirsi tra arbusti, sconosciuti e graffianti, piante che nemmeno la natura sarebbe stata sicura di riconoscere sue figlie, e cartacce e lattine di birra che erano invece figlie della villania del sabato sera. oltre quel buco però vide com’era il giardino, bello, ricco anche quello e ordinato, folto di alberi scelti, un bosco in pratica che avrebbe offerto un facile riparo a un visitatore discreto. e letale volendo. della villa costruita al centro del giardino si indovinava, tra la vegetazione, il chiaro dei muri e il luccichìo di amplissime vetrate qua e là. con cautela, attento a non fare rumori sospettabili, il sergente maggiore prese a sgretolare il muro, un sasso per volta per allargarlo alla propria misura : spalle larghe, gambe lunghe. provò a infilarsi e si rallegrò del lavoro fatto, perfetto per la sua taglia. poi siccome era giorno decise che si sarebbe mosso quella notte stessa. tornò a buio sempre in compagnia del cane e con la sciarpa di domitilla in tasca. gliela mise sotto il naso, al cane, la sciarpa, e gli disse “cerca”. Il canino partì come una scheggia e il sergente dietro rapido come un’altro tipo di scheggia. terminarono la loro corsa in vista della villa ben nascosti sotto l’ombrello di un leccio gigante. oltre e intorno alla villa, allo scoperto, un anello di prato, illuminato da molte sparse lanterne e interrotto dal consueto tracciato di ghiaia che portava, come per ogni villa, ai garage. sempre acquattato, il sergente maggiore indossò il suo mephisto per ingannare, casomai, le telecamere di sorveglianza nella corsa inevitabile tra lì dov’era nel buio sotto il leccio e i garage, altrettato al buio ; e rifece annusare il foulard al cane e di nuovo“cerca cerca” e il cane esitò per qualche istante ma poi senza fare un rumore si slanciò in avanti nell’erba tra uno e un altro cespuglio di ortensie e verso la fitta zona d’ombra dei garage. nessuno in vista ma nel buio, il sergente riconobbe la porsche scoperta parcheggiata in ordine accanto ad altre auto. ma non stette a contarle quant’erano. una porta di servizio aperta, il cane lo aspettava agitando la coda con gusto, il sergente maggiore trasse da una delle sue tasche e scosse un bastoncino di luce chimica, e via per di là per quell’àndito. il cane saliva sicuro di sé per una stretta rampa di scale, su fino al primo, al secondo piano. una porta semiaperta, una larga galleria tutta specchi e cornici e, per un cane strano a dirsi, il cane sgattaiolò fino a un’altra porta. lì si bloccò, non emise che un soffio delle narici, una specie di stanuto con il silenziatore, giocò rapido di sguardi con il sergente che provò la porta e questa cedette. cosicché, poco dopo, stordita dal narcotico che il sergente le iniettò anche Domitilla del Re cedette al desiderio di lui. non fu dunque questione né di sì es sì né di no es no. fu cattura. appropriazione. sopruso e questo successe non quella sola ma di nuovo un’altra volta e un’altra e un’altra notte ancora, con la brutalità del banale fatto in serie.

Bergomasco batté un punto e virgola e alcuni puntini ripetuti. Scriveva da ore e adesso pensava di potersi fermare prima di condurre la vicenda al suo finale : la scoperta del delitto, la rapida indagine, la cattura del sergente, la sua condanna, a morte hmm no, non come in Andersen, altri tempi, una condanna commisurata alla classe e al potere, e più che della vittima, della sua famiglia. Ma c’era un happy ending : grazie alle informazioni contenute nella chiavetta rubata alla vecchia, il sergente maggiore aveva una messe di ricatti da raccogliere, con così tante prove da mandare in galera Sommo del Re e al completo la compagnia dei maschi di famiglia che, insieme con amici, protettori e conniventi costituivano un’organizzazione di delinquenti banali ma eccellenti : estorsori, corruttori, corrotti. La polizia scoprì, lo stato coprì. Sarcastico il resto : la fanciulla violata si trovò innamorata del sergente maggiore, tanto da andare in Porsche fuori dal carcere ad aspettarlo, dopo la sua breve detenzione, e via per le strade del mondo in due, lui e lei con la sua personale sindrome di Stoccolma.

Bergomasco si stupì, aveva imbastito tutta la vicenda e non gli piaceva ; sé stesso gli disse che la sua scrittura era abbozzata alla meno peggio, fu una rivelazione per lui dubitare che forse era sempre stata abbozzata alla meno peggio, e infine, con la parola già usata, che era sciatta ; ci avrebbe pensato su ma ora qualcuno batteva alla porta. Óh c’è il campanello arrivo. E andò ad aprire. Di fronte si trovò la vecchia signora, impassibile, Finalmente Bergomasco e, senza che lui riuscisse a opporle un, Che vuole chi è lei, lo spinse da parte, passò oltre e si piantò in mezzo al salotto. Poi si guardò intorno, Dov’è, fu la domanda senza preludi di diplomazia. Come, perché, in che modo Bergomasco capì che la vecchia chiedeva dell’acciarino, del suo acciarino, beh le risposte si perdono nel vasto campo delle interpretazioni possibili. Tuttavia chi fosse stato lì presente e in quel momento, e beh, avrebbe visto Bergomasco andare remissivo alla mensola del camino a prendere l’oggettino e porgerlo quieto alla donna che lo afferrava e lo strofinava e ne faceva schizzare dappertutto scintille, brillanti più di una pioggia di minute stelle cadenti. In quella tuttavia, da sotto il bordo delle maniche del suo vestitone della vecchia lanzichenecca, come carte vincenti dalla manica del baro, in pugno alla donna comparvero due scintillanti coltellacci, un par de navajas sevillanas di non saprei dire quanti centimetri e swing e swung, destra e sinistra, la testa di Bergomasco si staccò dal busto e cadde e rotolò sul bel parquet. In quel modo, e in quel momento Bergomasco scomparve. La vecchia uscì dalla casa e si avviò fuori dal borgo. Dai monti alti e vicini scendeva una fredda aria di metafore e allegorie. Fine.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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