L’ElzeMìro – Dopomezzanotte-Dama che cuce in verde

Questa è una storia di inconcludente brevità, oppure sconclusionata soltanto; beninteso, cerca di capire che tutte le storie possono essere liquidate alle corte ; che il ricorso a particolari intesi preziosi è probabile sia il sintomo di una incapacità specifica ad abbandonarne la raccolta e l’esposizione ; o di una puntigliosa volontà da scrivani, da scribi, da cancellieri di procure penali che nel trascrivere danno  forse forse alle loro vite quel gusto che non hanno, e che non cercano di trovare altrove o in altro modo : nell’indagine per esempio che è invece lo specifico dell’archeologo, del paleontologo, del medico forense, dello psicoanalista e infine del poliziotto. Quindi, ti domandi, arricchire il racconto di qualsisiasivoglia vicenda dà respiro al narratore non alla narrazione, sì, ma da sempre è così : Amleto potrebbe saltare dal primo al quinto atto, e con la vendetta e con l’azione perentoria della spada che ne decapita il peso levargli il dubbio, che se mai è un sintomo di nevrosi. L’Iliade, l’ira di Achille che ce ne importa compagni, calafatiamo ben bene gli scafi oh generale Agamennone e via leviamo le tende prima che tutto si tramuti in odissea. E invece no, il cantore per furbizia o conoscenza del suo pubblico sa che fornirgli dettagli anche raccapriccianti di un evento e riferire delle non rare per non dire abituali bizzarrie della sorte – o fortuna o destino o bizza degli dèi o come chiamare la si creda – e imbandire per l’ascoltatore un ricco ripieno di note, aggiunte, deviazioni, arzigogoli o labirintiche esplorazioni di un evento qualunque, ebbene tutto questo obbedisce forse, ma non è dimostrato, alla regola che è il sale a fare l’arrosto, perché fa sugo in cui pucciare con voluttà il pane, laddove la ciccia a volte risulta un insipido tòcco di fibrosa mole. In sintesi quasi tutti noi desideriamo e perseguiamo il ricco involucro ; il film è la sua proiezione non il set di ripresa, il quadro la sua ombra ; tutta l’arte è ombre oh Tanizaki.

In questo senso, anzi per questo benché nascosto motivo, il signor Selmak di arte mai si era occupato. Il paesaggio riteneva di averlo tutti i giorni sotto gli occhi al risveglio e così ben rappresentato dalla distesa del mare, ogni ora ogni giorno cangiante – e alé aggiungiamo dettagli compagni – e animato per suo moto spontaneo di onde e di brezze, infino al limite delle tempeste, capaci in un attimo di mutare in una terribile visione la quiete relativa di gabbiani e barchette con cui per solito si immagina la marina il pittore. Fortunato dunque alla nascita per essere nato nella Città-di-mare – alla lettera dall’idioma del Selmak – intesa tale ab antico dai suoi padri fondatori, e più tardi dal signor Selmak, come città che è e non può essere altro che di mare, capitale pelagica di un vasto e ricco quanto inavveduto impero, città epitome di tutte le città marine e che il mare qualifica, come Milo e le conchiglie qualificano di solito le Veneri Afroditi. A motivo di ciò, ovvero per essere consapevole che ogni cosa au plaisir de lui même e sotto i suoi occhi si faceva e disfaceva quadro vivente, film, racconto cechoviano, ebbene, perché perdere tempo e denari per acquisire, vedere o leggere le stesse cose in una forma catafratta nel tempo e in uno stile personale, senza la bellezza del caduco, dell’oggettivo, del transitorio prospettico, del, dicono i buddisti, dell’impermanente. Ora il Selmak di buddismo e di prospettiva non sapeva nulla e i brevi ragionamenti offerti qui in lettura non facevano certo parte, ovvero non si sa se potessero fare parte del suo bagaglio di pensieri e riflessioni. Impegnato com’era nel suo lavoro di importatore e torrefattore di caffè, nulla poteva entrare nel suo mondo di acquisti, tostatura e vendita dei ricchi e bruniti chicchi della fortunata pianta tropicale. Fosse o non fosse atteso un bastimento carico del suo prezioso carico, ogni mattina all’alba però Selmak scendeva al porto, perché gli piaceva respirarne l’aria profumata di ferodi, olio lubrificante, combustibili e pesce imporrito nelle pozzanghere salmastre ; e ascoltare le voci e l’argotico arlecchinesco dei portuali con cui al bisogno era capace di un sapiente ed estroso confabulare : per conquistarsene la benevolenza, per chiedere un favore e, lisciato di regola da qualche opportuna banconota, per ottenere quasi sempre un occhio di riguardo ai suoi carichi e scarichi, ai suoi sacchi dalle provenienze remote litografate in nero di pece sulla juta. Non di rado gli capitava di seguire i carri che dal porto salivano alla sua fabbrica. Era frequente il caso che uno o due sacchi si scucissero su un angolo e che allora, nel trasporto, i chicchi si sgranassero sul selciato tra le rotaie dei tram, nelle buche del terreno. A quel punto, lungo la strada una compagnia di dame era già pronta lungo il percorso noto per raccattare i perduti grani, cacciarli nelle loro sporte e via a tostarli in casa con un padellone aduso a quell’incarico : la scorta gratuita di caffè per le famiglie. A Selmak tutto questo non disgarbava. Anzi. Delle donne osservava i gesti, i guizzi improvvisi verso un cumulo maggiore di chicchi ; gli piacevano le facce arrossate e sudate per quel lavoro cavenicolo di spigolatrici. Un diletto dello spirito – replicava agli amici del circolo liberale di cui si compiaceva essere il più antico socio che gli contestavano quel laissez-faire – un diletto dello spirito e… taceva il fatto che spesso tra quelle donne il suo spirito intravedesse una o due signore dalle forme, dallo scarpino, dalla mano aggraziata, dal volto ben tornito, garbato e attraente.

In frangenti come quello il suo spirito si slanciava in avanti a fantasticare, oh nulla di troppo ardito, sconveniente o lubrico, no, solo fantasie avviate a metà della via verso il romantico cavalleresco. A metà via perché le madonnine popolari che le avevano provocate, quelle fantasie, al terminare la raccolta, fluff evaporavano in vie laterali, cariche più o meno dei chicchi che avevano ipso jure smesso di appartenere a Selmak. Selmak tornava al lavoro nella sua fabbrica del caffè e la sua attenzione tornava a concentrarsi con i compiti quotidiani del suo mestiere : controllare l’integrità delle partite di grezzo appena arrivate, che i topi non avessero preso gusto a guastarle con le loro urine ; selezionare i chicchi a far sudare i fuochi della torrefazione a decidere il tipo di tostatura ;  scrivere, era il suo vezzo, sui polsini delle camicie i conti, i bilanci degli affari e impararli a memoria così come un agente segreto avrebbe appreso e bruciato un messaggio in codice. Le sue finanze erano tutte senza deroga nella sua testa e per effettuare gli acquisti spostava a mente il capitale necessario senza muoversi dal suo ufficio, dandone l’ordine alla banca per telefono. Tutti si fidavano della sua parola, tutti venivano pagati alla scadenza, nessuno richiedeva anticipi o lettere di impegno : anche lì una telefonata e via, ora in spagnolo, ora in portoghese ora in inglese, tedesco o francese, e greco o turco, lingue tutte di cui aveva il pieno dominio e che aveva appreso nei suo anni verdi, un po’ a scuola, un po’ imbarcato su una delle tante navi delle locale compagnia di trasporti marittimi, in cui si era fatto come si dice le ossa. La sua cultura si era formata nelle sale macchine dove giovane ufficiale aveva sudato e bevuto whisky e mangiato banane con fuochisti, stregoni neri e lucidi di carbone A sera Selmak si rintanava appunto al suo circolo, vi cenava, si svagava in conversazioni sull’attualità con gli altri soci, ne ascoltava le chiacchiere campate per aria, annoiandosi o preoccupandosi a fasi alterne secondo come e quando e quanto uno dei soci, tra i più restii però a dire la propria, tale Kockliquot, diplomatico e noto massone, in via riservata gli offrisse notizie inquietanti dai confini del mondo, di re capitombolati nel buco della rivolta, di primi ministri o politici di alto o medio rango inciampati nella ringhiera del balcone fin giù nella piazza, di paesi invasi nel tempo di un alba senza aspettare il tramonto, di sergenti posseduti dall’incantesimo del trono e proprio magari in uno dei paesi da cui provenivano i magici chicchi del caffè.

Al circolo Selmak si era fatto un amico, Ubertini, persona di qualche anno minore di lui, che, come si usa dire, na-sce-va, e che tuttavia aveva un curriculum di studi e un’attività in essere tra quelle più lontane dall’orizzonte di Selmak : l’antiquario. Per la verità l’Ubertini era un personalità di spicco in città, consulente di vari musei d’arte tra cui quello della capitale, espertissimo di tappeti dai più vicini ai più lontani, arredatore delle ricche ville che dall’alto delle sue colline dominavano dall’entroterra Città-di-mare ; sedeva inoltre nel consiglio di amministrazione dell’Opera alla cui programmazione non mancava mai di imporre, senza accorgersene, le sue idee. Vabbè ; spesso i due cenavano insieme e mai nelle rispettive dimore : entrambi erano personaggi da ristorante, da caffeteria prima che si chiamasse così, da biliardo talvolta, intendendo per lo più l’invito a casa propria quello che ottempera l’obbligo misericordioso di visitare gli ammalati e gli appena defunti. Per il resto, l’Ubertini per modestia, Selmak per l’imbarazzo che il borghese pur ricco non riesce a nascondere tra i propri arredi senza storia dopo che si sia immerso riuscendone turbato nella polvere dei secoli, nessuno dei due addomesticò mai l’amico alla propria grandezza l’uno, l’altro alla propria rimpannucciata mediocrità. Ma erano diventati amici e per lo stesso ordine di combinazioni per cui a caso e volendo restare nell’ambito delle relazioni eteronómiche, si cade innamorati e a volte per sempre di questa e non di quella. Ebbene, l’Ubertini non aveva messo becco nell’arredamento di casa Selmak che, peraltro, si era costituito ex novo un feudo di architettura senza storia, se si esclude quella dell’architetto che l’aveva disegnata ; e solo in qualche sporadico caso l’Ubertini era riuscito a far comprendere all’amico la mirabolante bellezza di certi tappeti. Selmak ne aveva comprati di persiani e contro il parere del suo architetto che al richiamo delle mille e una notte contrapponeva e preferiva la solidità delle tapestry d’invenzione & industria, e che tuttavia e a malincuore li aveva ambientati, quei persiani. Una sola volta però e fu il cardine su cui gira questa storiella, una sola volta l’Ubertini trascinò Selmak a un’asta. L’atmosfera di gioco, riffa, competizione tutto sommato tra incompetenti colpì ed entusiasmò Selmak che all’improvviso e senza che si fosse accordato con l’amico si trovò a segnalare con un gesto discreto – per imitazione – che rilanciava l’offerta altrui con una maggiore. Rilancio dopo rilancio Selmak si aggiudicò per un cifra lievemente spropositata un quadro di non piccole, non grandi dimensioni, tale che gli stette al bisogno in valigia : un olio su tela, Donna in verde che cuce, di sconosciuto inglese, metà del  XIX secolo : di ottima fattura, raffigurava una donna intenta a cucire seduta, verosimilmente su una sedia che il suo abito d’epoca e di un bel verde brillante di velluto copriva del tutto ; la donna sembrava intenta a fissare delle decorazioni su un altro abito, molto lussuoso in apparenza, e disteso sotto le sue mani sottili come la rapida di un torrente in campagna tra fiori, felci e alghe. L’impressione che per merito del  pittore il quadro sembrava  suscitare, era che la donna fosse un’Ofelia intenta a cucire  le erbe e i fiori del rivo in cui si sarebbe uccisa, a farne il proprio sudario. Questa nota fu dell’Ubertini ma Selmak l’accolse come l’annuncio di un ribasso del prezzo del caffè insieme con un’altra, che gli sembrò altrettanto meravigliosa, circa una giovane e il suo amore senza prezzo per un uomo più anziano e dal destino di tragica fortuna. Selmak appese il quadro nella sua camera alla parete di fronte al proprio letto in modo da addormentarsi e svegliarsi con esso. In più di un’occasione di viaggio il quadro seguiva Selmak in valigia e lì riposava al riparo degli sguardi indiscreti del personale d’albergo ma vicino al cuore del suo proprietario.

Fin qui non è che cronaca questa e di un’improvvisa infatuazione per un‘opera pittorica, Infatuazione non per la pittura in sé, ma per un’opera sola in particolare e che a volte colpisce proprio le persone alla pittura più aliene. Con ciò non è da escludere che la parte, per queste persone, si trovi a rappresentare il tutto, saturando di sé ogni possibilità di altro. Un po’ come negli amori esclusivi o più maturi che dell’altro sono del tutto pieni, privi di altro desiderio che non sia di quella e unica persona incontrata per caso, chissà se in biblioteca o al mercato, in un caffè o in un’aula scolastica. Bene bene, Selmak non sapeva descrivere ciò che provava per quel quadro e in particolare per la persona ritratta, un sentimento tale che poco alla volta gli fece smettere le sue quasi regolari gite al seguito dei carri di caffè ; scrutare le belle tra le spigolatrici e farsene un ritratto di fantasie non appagò più la sua immaginazione ; e se all’alba il porto era sempre la sua destinazione, poi non vedeva l’ora di tornare non in fabbrica ma a casa dove l’ordine era che gli si servisse al colazione in camera da letto sotto l’effigie della sua diletta donna in verde che cuce ; da lui ribattezzata la dama in verde. Prendeva il suo breakfast lì su uno scrittoio. A volte gli capitava di rivolgere alla figura dipinta dei pensieri vezzosi, altre non si vergognava con se stesso per rivolgerle la parola. Parole semplici beninteso, frammenti di un discorso che non si articolò mai in una dichiarazione completa e sintatticamente strutturata d’amore. Ma insomma la cameriera di Selmak attestò di avere spesso origliato i discorsi amorosi del padrone e di aver capito con qualche fatica che nessuna creatura discinta si nascondeva ai suoi occhi nella camera, se non quella donna dipinta e vestitissima. Come fu come non fu, una bella mattina, bella oggettiva di tiepida serenità primaverile, al bussare alla porta di Selmak la cameriera non ottenne in risposta il consueto, Entri. La donna aspettò qualche pochino poi, preoccupata più per il caffè che rischiava di freddarsi che per il sospetto di qualche coccolone occorso improvviso al padrone, bussò di nuovo : niente ; hmmm ; risolse o sciolse gli indugi o prese il coraggio a quattro mani e badando di fare il massimo rumore possibile, caso mai, girò la maniglia della porta, l’aprì ed entrò nella stanza. Grande fu il suo stupore. La camera era inondata, invasa oppure soltanto piena di luce, scuri e persiane spalancati sul mare, il letto al solito disfatto e freddo, gli abiti dismessi dal signor Selmak dove li lasciava la sera, la porta della sala da toilette en suite aperta su un disordine di teli da bagno umidi ma Selmak stesso no, non era lì ad attenderla dopo la sua visita dell’alba al porto. La cameriera aveva occhi investigativi. Si preoccupò solo del caffè che stava continuando a freddarsi e così, non senza avere superato qualche resistenza, decise di tornare in cucina a berlo e, se mai, prepararne dell’altro. Ma qualcosa si era inceppato ; verso le nove fu telefonato dalla fabbrica. Selmak era atteso da alcuni fornitori giunti espressi dal Kenia. Lor signori aspettavano da quasi mezz’ora, inaudito ; ricercato Selmak non era al porto, nell’ufficio della dogana dove capitava fosse trattenuto, non era a casa, questo fu assodato, infine non era da nessuna parte. La delegazione keniota se ne andò e passò prima una settimana in vana attesa. Poi, stante l’occasione di prendere il battello di ritorno, partì. La polizia indagò con inattesa solerzia. Fu interrogato l’Ubertini, casomai. Egli, per nessun motivo specifico né sesto senso chiese di visitare la camera da letto dell’amico scomparso. No, non guardò dappertutto pensando che fosse stato ucciso e giacesse morto sotto il letto o in un armadio o nel closet, no, diede un occhiata al ritratto di donna/dama che cuce e, sì, ebbe dapprima un presentimento poi una sorta di trasalimento. Si avvicinò al quadro con la sicurezza di chi sa come osservare i dipinti. Subito non ne fu sicuro ma poi dovette ammetterlo, dalla porta socchiusa nel muro che faceva da sfondo all’anima ritratta, nessun dubbio, si intravedeva un’ombra che, si capisce, nella confusione dell’asta chissà come gli era sfuggita. Anzi una figura non un’ombra, o l’ombra di una figura, maschile. Era Selmak.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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