Autore: Anthony Marra
Data di pubbl.: 2016
Casa Editrice: Frassinelli
Genere: Letteratura, letteratura americana, letteratura contemporanea
Pagine: 324
Prezzo: 19,50
“La storia è l’errore che non smettiamo mai di correggere”.
Questa frase si legge quasi all’inizio del romanzo, nella prima delle storie che compongono il grande, complesso, strabiliante (per forma e sostanza) quadro che è il libro di Anthony Marra, La confessione di Roman Markin.
Questa frase contiene tre elementi fondamentali del romanzo, o almeno così è mi parso fin dalla prima lettura (sì, La confessione di Roman Markin è un’opera che va letta e riletta, perché lascia una sete che non si placa). Tre elementi che sono: la Storia, l’errore, la correzione (o l’intenzione di correggere).
La Storia è sicuramente quella dei singoli personaggi, ma anche l’affresco più ampio che li contiene e che parte dall’URSS di Stalin fino alla sua totale disgregazione, con la Grande Madre Russia, sullo sfondo, che annaspa, soffocata dalle logiche del Partito, avvelenata dal nichel, sfruttata dai nuovi oligarchi, devastata dalle guerre. La grande capacità dell’autore sta propro nel modo in cui i due livelli di storia (quella universale e quella personale) si incontrano, si incrociano, senza che l’una (la Storia, più ingombrante e difficile da raccontare) fagociti l’altra, e senza annoiare né rallentare la narrazione. Che poi la mia paura stava proprio lì, che 80 anni di storia sovietica fossero o totalmente dimenticati (affrontati di striscio e svogliatamente, cosa tipica dei romanzieri non abili) o narrati con lunghi spiegoni da libro storia. Dopo quattro o cinque pagine avevo già capito che Marra è uno scrittore straordinario, letteralmente fuori dal comune, perchè conosce talmente bene ciò di cui parla (storia e uomini) da non sembrare mai scolastico, né saccente o presuntuoso. Tantomeno falso.
Oltre la Storia, che inizia nel 1933 a Leningrado, dove Roman Markin deve confessare un reato non commesso pur di confermare la propria lealtà al Partito, c’è l’errore. Che è umano. Roman lo sa e lo sanno tutti gli altri personaggi del romanzo. Tutti sbagliano, e sperano di non aver sbagliato: Roman ci pensa mentre è in prigione e si augura (potendo, forse, pregherebbe) che aver tradito il fratello, in passato, senza avvertirlo delle intenzioni del Partito, non sia stato uno sbaglio. Perché, in quel caso, crollerebbe la sua vita, la sua dedizione totale a una causa che gli ha negato qualsiasi altro credo. Ma il tradimento è un errore anche quando viene osannato e lodato da tutti come un merito. Ecco il peso che si porta addosso tutta la vita una delatrice che, da bambina, denuncia sua madre: non riuscirà mai a perdonarsi, nonostante le lodi del Partito e della comunità, soprattutto dopo il crollo del sogno socialista, che le toglie quel minimo di speranza (e fiducia in un ideale superiore) ancora viva in Roman Markin.
Oltre l’errore c’è la correzione. In questo romanzo fatto di storie che si allacciano (e non vi stupirete mai abbanstanza dei legami tra personaggi lontani nel tempo e nello spazio) sembra che la colpa dei padri debba ricardere sui figli ma gli uni e gli altri lottano perché ciò non accada, e per dare un corso diverso al destino. Come? Ci sono padri che tentano di rendere inespugnabili i figli (e quindi non inclini al tradimento) e madri che mandano in America le figlie per salvarle da quella che sembra una rovina (totale, universale) inarrestabile.
E poi, nel libro, trovere anche tante piccole cose, tutte tra di loro collegate e coerenti: c’è il quadro di un pittore ceceno, c’è una ballerina, ci sono due fratelli e un’audiocassetta, piena di reminiscenze anni 80. Di quando, per dire qualcosa a qualcuno, e permettergli di riascoltare sempre i nostri sentimenti, gli si faceva una compilation.
La confessione di Roman Markin è così: una compilation che non smetti mai di ascoltare perché, ogni volta, ogni nota è diversa e lo stupore di scoprire nuove sensazioni è tale da far ripartire (ancora e ancora) il nastro da capo.
(Se non vi fidate di me, leggete la traduzione di una recensione del NYT>>qui)
“Approfittavamo al massimo delle estati: giorni senza
scuola, notti senza buio. Primi appuntamenti, primi baci. Eravamo
impacciate, scoprivamo nuovi foruncoli la mattina davanti
allo specchio, peli dove non avremmo mai voluto; pensavamo
alla lastra con il cancro ai polmoni che faceva da copertina a
Surfin’ Safari, riflettevamo sui modi in cui un corpo tradisce
la propria anima e ci chiedevamo se crescere non fosse di per
sé una malattia.”