Titolo: Il malato immaginario
Autore: Moliére (Jean-Baptiste Poquelin)
Genere: Teatro
Anno di pubblicazione: 1643
Lingua originale: francese
Bisogna fidarsi dei medici o sono tutti dei ciarlatani le cui cure costano e nuocciono alla salute più di quanto l’aiutino? Ecco la questione di fondo de “Il malato immaginario”, spassosa commedia-balletto del 1643 portata in scena alla corte del Re Sole, come rivelano gli omaggi di prammatica (fortunatamente confinati negli intermezzi).
Nel XVII secolo il metodo scientifico muoveva appena i suoi primi passi ed era ancora rifiutato dalla maggior parte della comunità scientifica, che per lo più si fidava ancora delle teorie di Aristotele, elaborate un paio di millenni prima, rifiutando ogni vero contatto con i pazienti, al punto che le operazioni di piccola chirurgia erano per lo più delegate ai barbieri. In simili condizioni, è verosimile pensare che gli esiti fossero piuttosto scarsi, e Molière ha buon gioco a presentare i medici della commedia come dei dottissimi truffatori. Essi si affollano attorno al protagonista Argante, un povero ipocondriaco (come diremmo oggi), convinto di essere un caso grave, quasi disperato, propinandogli ogni sorta di inutile quanto costoso intruglio e rimedio. L’interesse per la salute dei pazienti è minimo, se, come sostiene il dottor Diarroicus, è molto meglio curare la gente comune rispetto ai potenti perché «quel che dà fastidio nei potenti è che quando sono malati pretendono assolutamente che i medici li guariscano» (scena V, atto II). Insomma, vuole essere lasciato libero di propinare medicine senza responsabilità.
Per quanto riguarda il caso di Argante, non sono nemmeno capaci da capire o abbastanza onesti da ammettere che egli è, in realtà, sano; così, il protagonista pensa bene di dare la sua unica figlia in sposa ad un imbranatissimo figlio di medico, a sua volta medico, nella speranza di avere cure costanti e gratuite. Come in ogni commedia che si rispetti, comunque, la figlia ha un amore sincero diverso da quello voluto dal padre, e, sempre come in ogni commedia che si rispetti, alla fine sarà l’amore vero a trionfare, con uno stratagemma geniale. Per inciso, questo permetterà al povero Argante, che non è davvero cattivo ma solo spaventato, di liberarsi di una serie di parassiti, fra i quali la giovane mogliettina che lo assiste al solo scopo di incamerare l’eredità a discapito della figlia di primo letto.
Non sono, invece, comuni ad ogni commedia la potente caratterizzazione del protagonista e la forza della satira sociale. Bisogna riconoscere che Molière andava su argomento ben rodato: le battute sui medici che ammazzano più cristiani di quanti ne curino o sulla loro ben remunerata incompetenza sono fiorite in ogni epoca e in ogni luogo. Tuttavia, a partire dalla fine dell’Ottocento, e soprattutto nella seconda metà del Novecento, tali battute si sono drasticamente ridotte: la gente ha cominciato a notare che davvero guariva dopo essere stata in ospedale o aver seguito le indicazioni dei dottori. Il malato immaginario, quindi, fino a pochi anni fa poteva ancora essere letto, con lo sguardo, però, che si può posare su un divertentissimo fossile dei tempi andati.
Oggi, però, possiamo avvicinarci all’opera con un gusto nuovo, perché lo scontro fra chi sostiene la medicina come scienza e chi la critica in modo feroce è tornato in auge. In un famoso dialogo fra Argante e Berardo, quest’ultimo, il fratello “ragionevole”, cerca di convincere il protagonista a rinunciare ai medici perché perseguono solo i loro interessi, perché non curano davvero, perché anzi i loro rimedi portano più danni che vantaggi e perché, infine, è molto meglio lasciare agire la natura che troverà senza dubbio una via di ristabilirsi, se è possibile. Ebbene, sui social network si trovano tutte queste critiche rivisitate in salsa moderna: “le multinazionali propongono i dannosi e inutili vaccini solo per guadagnare di più”; “l’interesse delle case farmaceutiche non è trovare la cura per AIDS e cancro, ma solo vendere più medicine, quindi prolungare la malattia”; “i vaccini portano l’autismo e non servono”; “trovata la nuova cura per il cancro nascosta dalle multinazionali: il succo di limone (col bicarbonato, secondo alcuni) funziona come una chemioterapia, ma senza gli effetti collaterali”.
Ce n’è abbastanza per riprendere la vecchia commedia di Molière e riderne con rinnovato gusto. Ricordando, magari, che nel XVII secolo la medicina non contemplava nemmeno l’esistenza dei batteri, per non parlare dei virus. E magari anche che Il malato immaginario fu l’ultima opera messa in scena dal grande Molière, morto poco dopo una rappresentazione in cui aveva recitato da malato, forse confidando, appunto, che il suo malessere fosse più che altro “immaginario”.
Mutato il clima, già nei suoi Promessi Sposi di due secoli dopo, Manzoni avrebbe irriso il suo personaggio seicentesco Don Ferrante, che allo scoppio dell’epidemia di peste ne nega in via perfettamente logica la possibilità di contagio e quindi l’opportunità di prendere precauzioni, per poi morire, poco dopo, di peste.
Il doppio scarto di prospettiva rende la lettura de Il malato immaginario ancora più intrigante: non sappiamo bene di chi ridere. Forse, degli atteggiamenti umani di chi si prende troppo sul serio.