Titolo: La notte
Autore: Elie Wiesel
Edizione usata per la recensione: Giuntina, 1998
La seconda parte dell’articolo, pubblicato il 27/10/13 sull’olocausto e la preparazione alla visita ai campi di concentramento, prosegue con la presentazione di un romanzo fondamentale su questa tematica: La notte di Elie Wiesel. Il libro appare di agevole lettura, scritto con un linguaggio semplice ma con una chiarezza e un’incisività che difficilmente si riscontrano affrontando tematiche così complesse. Perciò in questa recensione a parlare sarà soprattutto La notte.
Diversamente da Se questo è un uomo di Primo Levi, Wiesel si interroga sulle questioni spirituali che nascevano all’interno del campo, riflessioni e credo sulla religione e su Dio che in un momento così grave e terribile sembrano vacillare, ma che forse si rafforzano ancor più dopo un evento così traumatico: “ un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro, il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le S. S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo colpiva (…) – Viva la libertà- gridarono i due adulti. Il piccolo, lui taceva. – Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me. (…). I due adulti non vivevano più. La lingua ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: -Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: -Dov’è? Eccolo: è appeso lì a quella forca…. Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere” (pag.66-67).
L’autore nacque nel 1928 in Transilvania e venne deportato ad Auschwitz e Buchenwald e proprio da questa esperienza scaturì questo libro: “Ciò che affermo è che questa testimonianza, che viene dopo tante altre e che descrive un abominio del quale potremmo credere che nulla ci è ormai sconosciuto, è tuttavia differente, singolare, unica. (…) Il ragazzo che ci racconta qui la sua storia era un eletto di Dio. Non viveva dal risveglio della sua coscienza che per Dio, nutrito di Talmud, desideroso di essere iniziato alla Cabala, consacrato all’Eterno. Abbiamo mai pensato a questa conseguenza di un orrore meno visibile, meno impressionante di altri abomini, ma tuttavia la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell’anima di bambino che scopre tutto a un tratto il male assoluto?” (dalla Prefazione di F. Mauriac, pag.6)
Il protagonista e narratore della storia è Eliezer, un ragazzo ebreo ortodosso che studia il Talmud e discute di Cabala. Con la deportazione la religione del giovane vacilla. Infatti, con lui tutta la sua famiglia fu trasferita nel campo di Auschwitz e lì Eliezer resta solo con il padre, mentre la madre e le altre donne della famiglia vengono mandate immediatamente alle camere a gas, ma questo lui lo scoprirà solo in seguito.“Per una frazione di secondo potei vedere mia madre, le mie sorelle, andare verso destra. Zipporà teneva la mano della mamma. Le vidi allontanarsi; mia madre accarezzava i capelli biondi di mia sorella, come per proteggerla, mentre io continuavo a marciare con mio padre, con gli uomini. E non sapevo certo che in quel luogo, in quell’istante, io abbandonavo mia madre e Zipporà per sempre” (pag.35).
Eliezer, lavorando come un uomo adulto, cerca di non essere separato da suo padre, soffre per le sue malattie e con lui viene spostato a Buchenwald, dove assiste il papà malato che muore il 28 gennaio 1945. Il fatto più terribile fu il non poter provare emozioni: “Non ci furono preghiere sulla sua tomba; nessuna candela accesa in sua memoria. La sua ultima parola era stata il mio nome. Un appello, e io non avevo risposto. Non piangevo, e non poter piangere mi faceva stare male: ma non avevo più lacrime. E poi, al fondo di me stesso, se avessi scavato nella profondità della mia coscienza debilitata, avrei forse solo trovato qualcosa come: finalmente libero!…” (pag.109).
Il 10 aprile il campo viene liberato e tre giorni dopo la liberazione Eliezer si ammala: un’intossicazione. Viene mandato in ospedale dove “passai due settimane fra la vita e la morte”(pag.112), ma quando si rialza arriva il momento del trauma e dello sgomento: “Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più” (pag.112).
Elie Wiesel riceve nel 1986 il nobel per la Pace, continua a scrivere, pubblica 57 libri e scrive per diversi giornali. Nonostante numerosi attacchi, si veda l’aggressione da lui subita nel 2007 da parte di un negazionista ventiduenne, e le diverse difficoltà che incontra anche in relazione alla religione, egli rimane, ancora oggi, un importante e lucido testimone dell’Olocausto.