Autore: Torchio Maurizio
Data di pubbl.: 2015
Casa Editrice: Einaudi
Genere: Romanzo
Pagine: 182
Prezzo: 19,00
Per la lingua italiana, ‘cattivo’ è uno dei tanti aggettivi qualificativi che aiutano a connotare un soggetto o un oggetto, svolgendo la funzione di attributo. In questo senso, il titolo del nuovo romanzo di Maurizio Torchio, Cattivi, sembra essere una semplice concordanza con i protagonisti della storia: i detenuti di un non precisato carcere all’interno di una non precisata isola. Eppure proprio quel “semplice” aggettivo rimanda ad un significato preciso diluitosi nel tempo, a causa di precisi processi linguistici, e che rimanda all’idea di prigione, del vivere in cattività. Cattivo, perciò, è un attributo squalificante del soggetto nei confronti di un intero sistema (politico, sociale, economico), rendendolo antagonista di quelle convenzioni o regole stabilite dal potere. La lingua mette sempre in atto un confitto “politico” tra il corpo dell’individuo (notevole a questo proposito la scena di apertura del romanzo che descrive l’ispezione cui sono sottoposti i detenuti dopo l’uscita dal penitenziario) e quello delle regole prestabilite (corpus legislativo, letterario, religioso ecc.), trovando nei percorsi della scrittura il suo campo preferito di battaglia (vedere, tra gli altri, gli studi di Barthes, Foucault e Michel de Certeau). Occorre, allora, soffermarsi sulle due frasi citate dall’autore in esergo e riflettere: “sono gli schiavi a credere nelle libertà” (D. Walcott) e “per natura lo Stato è anteriore a ciascuno di noi” (Aristotele). Gli indizi, più che le teorie, sono il segno tangibile che questo scontro è ancora in atto: “La carta si può ordinare anche al sopravvitto, ma nessuno la vuole, perché è bianca. C’è l’idea che scrivere nero su bianco ricordi le sbarre” (pp. 9-10).
Il protagonista della vicenda narrata da Torchio è un ergastolano che descrive “da dentro”, da un punto di non ritorno rispetto alla libertà, la sua vita e quella degli altri carcerati. Nessuno di loro ha un nome (perfino la vittima del rapimento, di cui il protagonista era sorvegliante e prigioniero, è la Principessa del caffè), solo un soprannome che ne stabilisce, appunto, il proprio attributo con riferimento a un ambiente artificiale e spersonalizzante come la prigione. Così è possibile incontrare personaggi come Toro, Comandante, Piscio, quelli dei piani, le guardie o i secondini, gli Enne ecc. Nessuno ha un nome, niente ha un’identità precisa ma solo un attributo/funzione in quel determinato contesto. Essere cattivi implica la cancellazione del proprio nome, della propria identità e delle proprie appartenenze, comporta il non riconoscimento da parte dell’altro, il buono, colui che obbedisce ai dettami dell’istituzione (qualunque essa sia). Tutto avviene in nome della disciplina e seguendo una precisa normativa inscritta su cose e persone, secondo il modello, qui espresso in chiave metaforica, di una colonia penale d’ispirazione kafkiana. Eppure il carcere è parte integrante della società e in quanto tale suo specchio. Non sono diversi i meccanismi che regolano la vita al di qua o al di là delle sbarre: “L’isolamento è la prigione della prigione. Perché ogni posto deve avere una prigione. Se sei già all’ospedale e ti senti male, cosa fanno? Ti mettono in terapia intensiva, che è l’ospedale dell’ospedale. Se sei in prigione e vogliono punirti è uguale: deve esserci qualcosa. Dev’esserci sempre qualcosa da togliere, altrimenti tutto si ferma. A volte ti danno delle cose perché ti venga paura di perderle” (p. 11). Con una scrittura fortemente evocativa, devota alla brevità, quasi aforistica, Torchio mette in scena il dramma della non corrispondenza tra il dentro e il fuori, tra il pensiero e la parola che preesistono all’azione e al nome. Dentro, allora, “si vede più sole, si incontrano più persone” (p. 6), “c’è più gente nel carcere che in paese” (p. 7), “il carcere c’era da prima. Prima il buio, poi il carcere, poi il paese” (ibidem). Il carcere come caos, condizione ideale per costruire, per ordinare, per disciplinare. Proprio come all’origine della Creazione, quando in principio era la parola e il Nome e i nomi ancora non esistevano. “Quando le mie parole valevano ancora qualcosa sono rimasto zitto. Ora voglio parlare. Se la gente finisce col parlare da sola, è perché proprio non se ne può fare a meno” (p. 22). La parola è in sé l’unica azione possibile e, allo stesso tempo, la sola speranza di libertà.