
Autore: Crapanzano Dario
Casa Editrice: Fratelli Frilli Editori
Genere: Noir
Pagine: 169
Prezzo: 9.90 €
È la mattina di domenica 7 dicembre 1952 e fa “un freddo boia” quando il ragionier Spartaco Spezzaferro, portando a passeggio il suo cagnolino, in via Frescobaldi trova parcheggiata una Topolino amaranto con a bordo una ragazza giovane e bella. Morta.
È una fredda mattina di dicembre e siamo a Milano, nel giorno di Sant’Ambrogio, quando la storia a tinte fosche narrata da Dario Crapanzano nel suo “Arrigoni e il caso di piazzale Loreto” prende il via. Citando nel titolo il piazzale dove la morta, Gilda Dell’Acqua, è proprietaria con la sorella gemella di un bar tabacchi. Luogo dove la giovane avvenente e, a differenza della sorella Violetta, disinibita non passa inosservata e non si sottrae agli sguardi degli avventori.
Crapanzano riporta nella Milano degli Anni Cinquanta con il commissario capo del commissariato di Porta Venezia Mario Arrigoni che indaga, aiutato dai suoi uomini, in un giallo torbido e apparentemente ricco di contraddizioni. Per il quale solo la collaborazione riesce a trovare una soluzione.
In un gioco di specchi e rimandi, di menzogne e verità, di passati e presenti che si tentano di cancellare e reinventare, dove il male è più forte anche di quelli che dovrebbero essere gli affetti.
Gilda sembra morta per infarto, ma è omicidio, e Arrigoni non ne ha il minimo dubbio fin dall’inizio: “[…] mai come in questo caso saranno determinanti gli esiti dell’autopsia. Mi sembra infatti poco credibile che una ventenne muoia d’infarto, per di più mentre la sua vettura è perfettamente parcheggiata in una viuzza nemmeno tanto vicina all’abitazione”.
Arrigoni, il commissario che all’intuito investigativo unisce un attaccamento profondo alla famiglia, alla moglie, alle figlia, che alterna le sue giornate da padre e marito tra casa, cinema e Oh bèj! Oh bèj!, alla crudeltà di tante situazioni con cui deve entrare in contatto sul lavoro, si mostra nelle sue capacità da poliziotto che però non dimentica l’umanità, così come i suoi collaboratori. Nei personaggi c’è un mondo che si svela immediatamente, fatto di necessità di indagare, di andare a fondo anche di situazioni pesanti, ma anche di sentimenti di partecipazione al dolore. Significative e in qualche modo “riassuntive” di questo sono le parole che fin dalle prime pagine pronuncia l’ispettore Giovine, non appena data all’anziana zia di Gilda (con cui la giovane e la sorella vivono dalla morte dei genitori) la notizia della morte della ragazza. “Non ci si abitua mai a queste situazioni – furono le prime parole dell’ispettore. – Anch’io, che sono vecchio del mestiere, fatico a reggerle. Si fa più il callo alla scoperta di un cadavere che al dolore dei parenti di chi, in un modo o nell’altro, ha lasciato questa valle di lacrime. E adesso possiamo tornarcene in commissariato, quel che dovevamo fare l’abbiamo fatto… penseremo più avanti ad avvisare il capo, ha diritto anche lui di starsene un po’ in pace con la sua famiglia, almeno la domenica!”.
C’è un’atmosfera che ti avvolge, in questa Milano del 1952, c’è questa capacità dello scrittore di far immergere il lettore nella città, nei luoghi, utilizzando spesso frasi tipiche milanesi o dialettali, dal “freddo boia” al “freddo barbino”, alla “sleppa” di castagnaccio, fino agli articoli determinativi davanti ai nomi propri. Quasi a voler far entrare il lettore nell’aria che respirano gli inquirenti, i personaggi, gli attori e le comparse che poi comparse non sono mai. Tra case ricche ed enigmatiche a bar apparentemente senza segreti e che invece ne nascondono, a gemelle che per distinguersi hanno diversi colori della pietra dei loro anelli, ad amicizie strane e talvolta inquietanti, relazioni ambigue, festini a base di droga e gioco d’azzardo, prove che mancano e sospetti che quando sembrano diventare concretezza invece si dissolvono nel freddo di Milano.
Fino alla brillante intuizione finale. E a una soluzione che lascia a bocca aperta.