A tu per tu con… Paolo Di Paolo

Nella splendida cornice del ponte di via Roma, impreziosito per l’occasione dall’arredamento di due strutture in legno, Paolo Di Paolo presenta il suo ultimo romanzo, Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli), all’interno del festival “A Tutto volume – Libri in festa a Ragusa”.

Partiamo dal titolo, particolarmente bello. Secondo lei, le storie tra due persone non sono quasi sempre anche d’amore?

Sì, credo che i due avverbi in fila dicano molto. Una storia non è mai solo d’amore, per tutti. Il “quasi” può riferirsi a un inizio, quando una storia è quasi d’amore, appunto. Una storia può essere anche solo d’amore, ma mettendo insieme queste due parole si capisce quanto possa essere complessa una relazione. C’è una frase di Salinger che dice: “il mondo ha bisogno di storie ragazzo incontra ragazza”. Potremmo dire che il libro parla proprio di questo: ragazzo incontra ragazza. Però le storie ragazzo incontra ragazza, come essere umano incontra essere umano, sono sempre molto più complicate di qualunque previsione o linearità apparente. E allora quei due avverbi è come se dicessero che ogni nostra storia d’amore e stata quasi solo d’amore.

Nel testo un ruolo fondamentale lo svolge il teatro che lei però non vuole porre sotto la luce dello sdoppiamento, bensì dell’incontro e della crescita.

In effetti, non ho voluto mettere in scena un teatro istituzionale, che pure ha una sua parte, bensì un teatro fatto come terapia emotiva di gruppo. Molti lo usano e lo vivono così. Il teatro dilettantesco ha una sua funzione di relazione umana ma anche di lavoro su se stessi. Non è soltanto l’attore a lavorare su stesso ma l’essere umano. E allora in questa sorta di terapia di gruppo che diventa il teatro mettere in scena uno spettacolo un po’ paradossale, nel quale i personaggi sono giovani ma gli attori sono anziani, crea un contatto, anche brutale, tra quella parte di loro che ha superato la giovinezza e la giovinezza che contengono. Il loro maestro è giovanissimo e per questo gli danno poco credito. Ma anche in questo c’è un percorso in cui alla fine si capisce che tutti impariamo qualcosa da tutti.

C’è una frase significativa a tal proposito: “c’è una zona teatrale in ogni nostro atto”. Nel libro sembra esserci uno scambio di ruoli. L’attore è un professionista, o presunto tale, ma fatica a essere se stesso nella realtà, mentre gli anziani fanno fatica a recitare.

In quel passo c’è anche una sotterranea riflessione su quanto sia difficile fare il passaggio dell’immedesimazione fino in fondo. Non occorre scomodare Stanislavskij per capire che quell’operazione non è naturale. Tutto sommato visto che in quello che facciamo c’è sempre una parte di recita, cosa fa l’attore? Prende una cosa dalla vita reale e la parossizza, la porta al diapason, come se questo dato di recita che ritroviamo nei rapporti umani fosse estremizzato. Al di là delle tragedie reali, quando si litiga spesso si urla, si bestemmia, si cede all’isteria. In fondo quindi è come se si perdesse il controllo della recita canonica della discussione e si cedesse alla teatralità. L’attore fa la stessa cosa. Quando recita una scenata isterica, sta lavorando su qualcosa che già esiste e che è proprio della natura umana. A me faceva piacere mostrare questo in quella pagina a cui ti riferisci. Anche se può sembrare ovvio, il fatto che una donna insegni ai suoi giovani allievi che non occorre cercare il teatro chissà dove, poiché in realtà è nella vita di tutti i giorni, fa sicuramente più effetto. Tutti i grandi maestri del teatro lo dicevano, mentre noi ancora oggi abbiamo un’idea dell’attore come di colui che enfatizza – penso ad esempio agli attori che leggono durante le presentazioni dei libri – all’estremo qualunque cosa. Se pensiamo ad Al Pacino, invece, il suo modo di recitare è più vero del vero. L’enfasi c’è solo quando deve esserci nella vita.

Tra i vari temi c’è anche quello delle differenze generazionali. Grazia è portavoce di una generazione curiosa e volenterosa che ha fatto sempre le sue battaglie, mentre Nino sembra essere incapace di guardare oltre se stesso.

Se volessimo procedere per categorie, sì, il mondo del ventenne Nino è autoreferenziale come lo sarebbe quello di chiunque alla sua età. Certamente la generazione di Grazia ha vissuto una dimensione collettiva e ne ha fatto anche la sua epica, personale e storica. Nino però è ignaro di questo, il suo è un mondo che si risucchia dentro se stesso e da cui anche lui è risucchiato. Il suo unico metro di paragone è la sua vita e questo può generare una sorta di autismo narcisistico, tratto tipico della nostra generazione per la quale il grande teatro della vita diventa anche un po’ il piccolo palcoscenico del social dove uno si espone e si aspetta l’applauso o magari il fischio, pur mantenendone però sempre il controllo. C’è una sorta di io liquido, come direbbe Bauman, intercambiabile, ma sempre comunque ricomposto in una cornice piuttosto narcisistica.

Il testo è in tre atti come nella commedia di Marivaux. Perché ha scelto proprio Le false confidenze?

Ho pensato molto a questa scelta. Avrei potuto utilizzare altri testi, come Morte di un commesso viaggiatore o Un tram che si chiama desiderio, ma volevo un testo teatrale che non facesse ombra alla storia che stavo raccontando. Se avessi messo in scena Il gabbiano di Čechov, avrebbe risucchiato la storia. Le false confidenze, invece è un’opera sconosciuta ai più, ma in fondo è la tipica commedia degli errori, vista e rivista, in cui, immaginandola su un palcoscenico con una scenografia spoglia, c’è un salotto borghese e i personaggi entrano ed escono da una porta incrociandosi; un’opera goldoniana con tanto di maschere – c’è addirittura un Arlecchino –, un modello abbastanza basico di teatro che mi dava la possibilità di prendere quanto di buono ci fosse, al di là del blasone del testo, ovvero la presenza di giovani che si innamorano, interpretati però da attori anziani.

Quanto è necessario per lei avere un punto di riferimento esterno? Teresa, al di là dei suoi trent’anni, ha la zia e Dio con cui confrontarsi. Nino invece no. Meno affettività c’è tra persone e più il rapporto può essere migliore?

Non so se effettivamente sia così. Tra Nino e Teresa c’è un rapporto di complicità molto trattenuto ma c’è una forte componente di comprensione. Non che sia una regola, ma sono a conoscenza di rapporti profondi, familiari, amicali, di coppia, nei quali, anche se non si manifesta attraverso gesti – non sempre la complicità è data dalla fisicità di effusioni o abbracci –, c’è una grande tensione emotiva, quella possibilità di capirsi con un semplice sguardo, di sapere, di intuire o anche solo di fare silenzio. Molto dipende dal carattere delle persone. Non è detto che un rapporto che si manifesta attraverso la fisicità sia necessariamente più profondo.

Di cosa parlerà il suo prossimo libro?

Quando si finisce di scrivere un romanzo è sempre difficile anche solo immaginarne un altro. Vedo una lucina, laggiù in fondo, che forse diventerà un giorno diventerà una ma è ancora un’idea molto confusa, non riesco a vedere una trama definita. Nel frattempo però ho scritto un piccolo libro che esce in autunno, Tempo senza scelte, che è una piccola riflessione sul nostro tempo in chiave saggistica, dove rifletto sullo strano paradosso per cui noi oggi più che a scelte radicali siamo esposti a opzioni, prive, in fondo, di responsabilità. Lo stesso giochino del “mi piace” o “non mi piace” è un’opzione, non una responsabilità come sarebbe invece la scelta radicale, quella che cambia per sempre la propria esistenza. È libro pensato per riflettere. Mi piace alternare i libri di narrativa a libri per bambini, saggi o altro. Credo che cambiare serva a ricaricare il linguaggio e anche l’immaginazione.

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