Dieci anni fa usciva per Rizzoli un libro per ragazzi di grande successo, adottato molto spesso come testo di narrativa nelle scuole medie italiane: “Per questo mi chiamo Giovanni”. Abbiamo incontrato al Salone del Libro il suo autore, Luigi Garlando, che dopo aver cercato di raccontare la vita di un eroe moderno come Giovanni Falcone ora è tornato in libreria per far conoscere ai giovanissimi la figura di Ernesto Che Guevara e anche i valori che ne hanno accompagnato il mito. In questi dieci anni Garlando, giornalista della “Gazzetta dello Sport”, ha continuato a scrivere libri per ragazzi sul calcio, la sua grande passione, e su altri argomenti di attualità.
Lei ha dichiarato che si può affrontare qualsiasi tematica con i ragazzi, l’importante è scegliere la giusta modalità. Quali sono gli ingredienti che lei ritiene fondamentali?
Innanzitutto la semplicità, poi un linguaggio figurato con paragoni e metafore. E’ un metodo che ho usato soprattutto con “Per questo mi chiamo Giovanni”, in modo da sottrarmi al rischio di usare parole troppo astratte.
Come sceglie le tematiche da affrontare?
Per me scrivere deve essere una sorta di sfida, così affronto di volta in volta un argomento che non ho mai trattato prima. Negli anni mi sono occupato di legalità, guerra, politica, razzismo: scelgo sempre degli argomenti diversi per divertirmi e non ripetermi. Quest’ultimo lavoro, poi, è un po’ particolare perché dieci anni dopo avere scritto di Falcone cercavo una figura che fosse importante quanto lo è stato lui. Rileggendo le lettere ai figli del “Che” mi sono detto che era il personaggio giusto. Il messaggio più importante e moderno che ci ha trasmesso è la compassione, intesa soprattutto come “sentire il dolore degli altri”, e trovo che i ragazzi ne abbiano davvero bisogno. Vedono in televisione arrivare i barconi, hanno la povertà vicino a casa, ma spesso non comprendono.
E’ per questo che accanto alla figura del protagonista, un dodicenne erede di una famiglia di ricchi imprenditori brianzoli, ha inserito la sorella Regina, cinica e frivola?
In effetti volevo rappresentare in modo critico il punto di vista di un ambiente sociale poco sensibile in una terra caratterizzata da una ricchezza superficiale. Grazie al “Che” Cesare fa la sua piccola rivoluzione: si accorge di un mondo attorno a sé che implica problemi gravi come la perdita del lavoro ed è in grado di comprendere sentimenti che prima non capiva, come l’immenso sconforto dei giocatori brasiliani per la sconfitta ai Mondiali.
Il calcio, appunto. Per lei è sempre molto importante inserire dei riferimenti a questo sport nei suoi testi. Per quale motivo?
Innanzitutto io salvo sempre la palestra educativa dello sport, il fatto di allenarsi con fatica, di rispettare il regolamento. Poi lo metto nei miei libri perché credo che come lingua universale non abbia paragoni. Sulla musica è difficile che un padre ed un figlio abbiano gli stessi gusti, col calcio invece accade: si annullano generazioni e categorie sociali e questo ha un grande valore metaforico.
Cesare viene a conoscere la vita di Che Guevara dai racconti del nonno ricoverato in ospedale e assistito da Suor Peppa. Quest’ultima commenta in continuazione, mettendo in evidenza non poche contraddizioni…
In effetti la difficoltà era proprio questa: proporre come modello un rivoluzionario. Sapevo che il libro sarebbe anche stato discusso e ho deciso di impostarlo da militante, schierandomi: non avrebbe avuto senso fare diversamente. La verità storica sarà ricostruita dai ragazzi a scuola: io comunque mi sono riservato un finale in cui Cesare prende le distanze dalle scelte del Che e ho inserito un personaggio, la suora appunto, che smonta l’idealizzazione, ma al tempo stesso dà forza alle parole del “Che” e fa vedere quante coincidenze ci siano col messaggio evangelico. Per esempio quando papa Bergoglio ha detto “Non vergognatevi di avere tenerezza” ha citato una sua frase.
Nel libro dedica molta attenzione alla medicina: sono medici il Che, la mamma di Cesare e poi Cesare stesso. Quali le ragioni di questo filo conduttore?
Innanzitutto è importante un passaggio di sapere e di passione tra generazioni. Inoltre volevo mettere in evidenza il fatto che il “Che” fosse medico per far capire che non uccideva per gusto: era partito con l’idea di aiutare gli altri e poi, di fronte al bivio della vita, ha scelto la strada della rivoluzione. Cesare fa il contrario, quindi in sostanza si smarca da lui.
La lettura aveva una grande importanza per Che Guevara, tant’ è vero che è sua la frase “Più libri più liberi”, che lei cita nel racconto. La pensa quindi come lui?
Senz’altro. Ho voluto mettere in grande risalto il ruolo fondamentale che il “Che” attribuiva alla cultura anche con la storia della “banda dei piccolini”, i giovanissimi soldati che combattevano con lui: per portargli le munizioni li ricattava e li obbligava a leggere. Inoltre ha portato avanti con determinazione il progetto di insegnare a scrivere ai contadini: è la prima cosa che ha fatto una volta al governo. E’ simbolico che alla fine venga ucciso in una scuola.