Scorci di parole. Racconti itineranti.
Screenshot di storie italiane meticolosamente ascoltate e riportate.
186 pagine che fanno venir voglia di ri-scoprire con calma il nostro Paese.
“Con i piedi ben piantati sulle nuvole” è l’ultimo titolo di Andrea Scanzi, edito da Rizzoli, in cui il noto giornalista guida il lettore tra i percorsi di un’Italia inedita.
Imparare a viaggiare. Per distrarsi, ma anche per liberarsi. Una moto, una storia, un bicchiere di vino.
Quando si viaggia, soprattutto ultimamente, si tende sempre di più a cercare i paesaggi mozzafiato e “fotografabili”, piuttosto che mettersi in contatto con luoghi significativi per la storia e ricchi di valore e cultura. Nel tuo libro traspare un intento di ricerca di viaggio consapevole, è un invito – una suggestione che vuoi trasmettere al lettore?
Non lo so se questo libro contenga dei messaggi intenzionali, però sicuramente mi piace che passi questa sensazione. Io amo così poco – per non dire detesto – la sindrome da socials, sebbene li usi molto, da andare in giro quando viaggio con la Polaroid. In questo modo sono obbligato a fermarmi e scattare per ricordare, non per postare. Mi piace molto il viaggio lento. Al tempo stesso mi diverte anche cercare viaggi e luoghi che non sono particolarmente noti che raccontino delle storie.
Se riesci ad unire queste due componenti, ovvero la dimensione ludica o semplicemente estetica, ma anche quella storica, secondo me riesci a vivere il viaggio perfetto.
Hai parlato di viaggio come dimensione ludica, estetica e consapevole. Come, a mio parere, è il viaggio che un lettore vive leggendo il tuo ultimo libro: ludico, estetico, consapevole. Come sei arrivato a comporre un saggio così equilibrato? Hai scritto pagina dopo pagina con la dedizione quotidiana del diario, o hai steso tutto il testo di getto in seguito ai viaggi?
L’ho scritto a diario. Anche se ammetto che gli ultimi capitoli li ho stesi tutti insieme, perché ci eravamo resi conto che doveva nascere un libro che fosse anche un viaggio sentimentale.
Però principalmente con la dedizione che si presta alla scrittura di un diario. Perché in tutti questi anni, avendo viaggiato molto, un po’ perché sono sempre stato inquieto, un po’ perché facevo sport e un po’ perché avevo amici che vivevano lontano, sono sempre stato pochissimo a casa. E da quando ho incominciato a fare il giornalista – ancor più televisivo ed ancor più teatrale, mi sono reso conto che negli ultimi sette anni ho viaggiato più o meno 250 giorni l’anno. È tanto. Così per me è diventato naturale prendere appunti quando viaggio. Soprattutto quando un luogo mi colpisce particolarmente. Non è mai prevedibile quello che andrò a scrivere, perché dipende da quanto un luogo mi lascia senza parole. E non è stato nemmeno prevedibile quanto fossero più o meno noti i luoghi di cui stavo scrivendo.
Il vero me è molto più espresso quando scrivo libri o racconto cose belle, piuttosto che quando parlo di politica o partecipo a scontri televisivi. Sono molto più me stesso quando parlo e racconto di musica, piuttosto che quando parlo di quanto mi piace il governo del momento.
Citi spesso canzoni e artisti durante i tuoi racconti itineranti. Quanto è importante la musica durante un viaggio?
Fondamentale. Non esiste viaggio che non abbia una sua colonna sonora. In macchina ho la radio accesa, se sono in moto la musica può anche essere rappresentata da un’associazione sonora naturale.
Devo dire che se facessimo un gioco del tipo “dimmi un titolo per ogni viaggio”, saprei rispondere abbastanza facilmente. Non riesco a vivere senza musica e quindi non riuscirei nemmeno a viaggiare senza di essa.
Il libro è dedicato a Ennio Flaiano, con un suo celebre aforisma: “Non provo mai noia. Ogni momento ha qualcosa che mi attira. Niente è da buttar via. La luce, l’aria, le ore che si seguono. Calma, bellezza, profonda voluttà del Tempo”
Sì, non conoscevo in realtà questa frase di Flaiano. Tutto è nato da una relazione di qualche mese fa, quando la ragazza con cui uscivo mi ha suggerito un libro di Ennio Flaiano che, ad un certo punto, circa a pagina 30 riportava questa frase tratta dal suo “Il diario degli errori”. Io amo questo autore straordinario perché, come per Gaber nella musica, è uno di quegli artisti intrisi di cinismo che però trasmettono profonda empatia e fiducia ostinata nel genere umano. Sembra a tutti gli effetti un ossimoro, ma è questione di apparenza – c’è sempre una sotto traccia che fa pensare al lettore “ce la posso fare”. E questa caratteristica l’ho ritrovata in alcuni dei personaggi che ho incontrato e raccontato in questo libro. Finti cinici, finti burberi che poi, parlandoci, fanno trasparire un’umanità incredibile. Anche i personaggi di Clint Eastwood sono spesso così.
Viaggiare per evadere o viaggiare per ritrovarsi?
Dipende. Per me viaggiare è più spesso per evadere. Per il lavoro che faccio è inevitabile – una professione che ti costringe a restare brutalmente ancorato all’attualità, legato al contingente, è necessario evadere. Ognuno ha il suo modo per staccare e devo dire che per me questo è molto efficace. Viaggiare per ritrovarsi, anche. Ma per me è più difficile. Mi è sicuramente capitato, ma in quel caso si tratta sempre di viaggi in luoghi rari, e situazioni in cui ho quasi sempre accanto una persona. Per ritrovare me stesso devo avere accanto una donna o un amico a cui tengo veramente. Altrimenti viaggio per evadere.
Ogni capitolo incomincia con un incipit romanzesco, ma poi cambi registro e stile. È voluto? Perché non hai mantenuto costante la forma diaristica? Le basi perché questo libro fosse un romanzo vero e proprio, ci sono tutte.
Sì, è voluto. Mi piaceva che ogni capitolo avesse un suo ritmo narrativo distinto e che cambiasse nettamente registro. Mi piaceva l’idea che ogni capitolo di questo libro potesse vivere a sé, come incipit di un romanzo. Ho proprio utilizzato ritmi completamente diversi: c’è il racconto più ironico, quello più ampolloso, più dolente, più lento. Mi divertiva sperimentare.
Che valore hanno per te le radici, quanto senti parte di te il tuo luogo d’origine. E quanto senti tua la consapevolezza di avere un luogo del ritorno? Una delle cose più belle del viaggiare è il sapere di poter tornare a casa.
Se mi avessi fatto questa domanda qualche anno fa ti avrei risposto in maniera totalmente diversa. Per me le radici sono fondamentali e sono esse stesse un luogo dove mi ritrovo. Non a caso l’ultimo capitolo è dedicato alla mia città d’origine: Arezzo. Arezzo è la mia casa. C’è un periodo di vita in cui –intorno ai 15/20 anni – percepisci che il tuo luogo d’origine sperduto nel nulla è deprimente, perché non ha proprio niente. C’è poi un altro periodo, e a me è capitato non molto tempo fa, in cui senti la necessità vera e propria di fare ritorno a casa. Non di tornare e restarci, ma di viverla un poco per poi ri-andare via. Ho avuto il bisogno e l’esigenza di farlo perché in quel momento mi sembrava l’unico centro di gravità permanente che mi rimanesse. Capita con questo lavoro spesso di svegliarsi in hotel la mattina e non ricordarsi dove si è, e in questo caso Arezzo era l’unica certezza. Ora lo faccio 5 o 6 giorni al mese – e guai a chi mi tocca quella settimana a casa. Lì posso essere semplicemente me stesso.
Come si è evoluto il tuo modo di viaggiare negli anni?
Si è evoluto o involuto un po’ come si evolvono le coppie. Cioè quando ad un certo punto quello che ti sembra bellissimo rischia di diventare una routine. È un rischio che io percepisco in ogni campo della mia vita e, nello specifico, anche nel viaggio. Quando cinque anni fa viaggiavo e scoprivo nuovi luoghi, mi sembrava tutto una meraviglia. Non ero mai stanco! Dopo tre o quattro anni di fila di viaggi per lavoro, diventa un rischio. Perché nel frattempo invecchi, ma anche perché accade quella cosa bruttissima che succede anche nei rapporti di coppia o di amicizia: cominci a dare per scontato la passione, la bellezza, la sorpresa. È terrificante. E lo è ancora di più se hai la fortuna, come me, di svolgere un lavoro che ha a che fare con la passione. Se io perdo completamente la capacità di emozionarmi di fronte ad un paesaggio, una situazione o una persona, di cosa scrivo? Non ho più niente da dire. Il mio viaggio è cambiato anche in questo senso, cioè perché ha rischiato di divenire routine e più un peso che una cosa bella, così ho fatto in modo di centellinare le esperienze in modo da goderne di più le loro bellezze.
Qual è la relazione che intrattieni con la tua moto durante questo viaggio? E con il vino? Sono due temi fondamentali che tornano ripetutamente nel libro.
Anche in questo caso se mi avessi fatto la domanda anni fa ti avrei risposto in tutt’altro modo. Ho preso la patente per la moto e la moto stessa solo un anno e mezzo fa, perché la ragazza con cui mi frequentavo mi disse che io ero un tipo da Harley – convinta di aver detto una frase qualsiasi. Io che sono un po’ pazzo ed impulsivo, ho navigato qualche minuto su internet e me la sono comprata. Quando sono tornato da quel viaggio avevo moto e iscrizione alla patente. Non sono un motociclista, se mi sentissero quelli veri mi deriderebbero al 100%. Mi piace però moltissimo andare in moto, e quando ho iniziato ho scoperto di aver probabilmente buttato 20 anni della mia vita. In questo sento è una vera e propria relazione quella con la mia Harley: c’è una sintonia tra noi che raramente mi capita di vivere. Quando devo liberare completamente la testa, poche cose mi aiutano come prendere la mia moto e non sapere minimamente dove andare.
Sai cosa c’è del vino? Che non solo è bello in quanto tale, non solo è buono, non solo è pieno di storia e cambia con gli anni. Il vino è materia viva. E ciò che più mi piace del è che, non so per quale motivo, nel mondo del vino ci sono tantissime persone che hanno delle belle cose da raccontare. Mi riferisco ai viticoltori, e in particolare a quelli che non vengono dalle grandi cantine. Nei luoghi sconosciuti ma vivi, trovi questi meravigliosi personaggi che magari fino ai loro quarant’anni hanno fatto i farmacisti o gli impiegati che poi perdono il padre, che aveva una intensa passione per il vino e la sua produzione. E loro mollano tutto e per omaggiare il loro papà si occupano di quei pochi ettari di famiglia e li trasformano in un’attività vera e propria. Nel mondo del vino c’è una forte componente epica, delle storie veramente belle che basta raccontare e re-inserire nel libro da cui sono uscite. Ci sono delle persone in questa realtà, per nulla note che però hanno delle storie bellissime. Io sono un grande ascoltatore e mi piacciono le persone che hanno belle cose da dire, e quando posso amo riportarle ad altri in modo che si diffondano.
Nella prefazione dici che non ti permetteresti mai di appellarti al tuo testo definendolo “guida turistica”, secondo me anche se in una particolare forma, il tuo libro è esattamente questo. Perché è il mezzo ideale per coloro che vogliono scoprire un’Italia inedita.
Dove ti immagini venga letto questo libro? Tra tutti i luoghi di cui ci racconti e che ci fai vivere attraverso le tue parole, ce n’è uno in particolare in cui immagini “Con i piedi ben piantati sulle nuvole” in lettura?
Intanto ribadisco che anche se non nasce come guida turistica mi fa estremamente piacere sapere che faccia questo effetto sul lettore. Anche dai primi commenti che mi arrivano, sembra vi sia questa sensazione. È la stessa cosa che io ho sempre fatto quando leggo i libri – vado a scovare i riferimenti che in un testo mi riportano alla realtà. Sono felice se il mio libro scaturisce curiosità.
Me lo immagino innanzitutto nei luoghi che ho riportato, perché sarei grato di sapere che un lettore si senta omaggiato con la citazione della sua terra. Mi piacerebbe poi che fosse letto da coloro che non abitano lì, ma che ci vogliono andare. Me lo immagino un libro che dev’essere letto all’aperto… per esempio nelle Langhe, davanti ad un bel tramonto e ad un bicchiere di Barolo.