L’ElzeMìro – Fablìole-Della pelle i vermi

In apertura Nieces di Zoey Frank

Questa storiella indica ai genitori-cari di ogni condominio la prudenza che sarebbe opportuno usare ad evitare coi piccoli-cari un linguaggio troppo diluito per essere vero e d’altra parte troppo vero perché non sia da diluire nella metafora. O nel sogno ma, vediamo di capirci qualcosa. Dunque mamma-cara Dell’Oca, che si chiama così per davvero, di origine viene da quelle terre al di là dei monti e dai residui glaciali che ne dominarono non solo le cime millenni orsono e che non confinano di preciso con l’ampia zona verde del condominio ma oltre li quali monti esistono però condominii tutti particolari adatti a pianure e alle terre collinari e alle rive di fiumi per quanto in secca e persino alle montagne dove, appunto, se la neve non scende magari salgono le pinete. Mamma-cara Dell’Oca fa di cognome proprio così, De L’Oie, con l’apostrofo a qualificare per lo meno una contea o un marchesato o persino un principato; ma questo particolare è ignoto e mamma-cara non è accanita nel difendere antichità che non sa se le appartengono e se le appartengono lascia perdere perché tanto è qui ch’è confinata, in questo feudo collettivo di 33 piani in vetro e calcestruzzo, con ampi box sotterranei e cantine, e con un fiumicello che gli scorre ai piedi a sud e qualche declivio che via via si fa più erto fino a mutarsi in compatta catena montuosa a nord: il condominio. Mamma-cara ha molti ricordi legati alla propria lingua tramontana che ha introdotto in casa di comune accordo con tutti i familiari, gatto incluso che sembra intenderla a proprio agio; a lei-cara torna più facile del dialetto condominiale ed è convinta di avere regalato al suo bambino Lódoludo una cosiddetta marcia in più nella mediamente lunga marcia sulle strade della vita che tocca a tutti salvo volersi fermare da qualche parte e non partire più. Bene.

Tra le cose che mamma-cara va ripetendo al suo Lódoludo v’è quella che, soprattutto dopo quell’età malvagia che si manifesta intorno al tredicesimo anno di età, è necessario lavarsi in generale e pulirsi la pelle del viso non solo con l’acqua e il ben noto sapone ma anche passare delle ore allo specchio a stanare i famosi vers de peau – intesi  vermi e non versi della pelle e altrimenti detti comedóni, ovvero  punti neri – e spremerli, questo è l’esercizio da imparare, facendoli gemere ben bene fuori dai loro follicoli ostruiti di risulta biologica o biogarbage. I punti neri tutti sanno che non hanno parentele nemmeno lontane coi vermi, nonostante il loro vago aspetto di larve della frutta all’uscire dalla loro tana o follicolo e benché le loro testine nere siano abitate pare da un ospite invisibile a occhio nudo e noto agli esperti per Propionibacterium acnes; non un verme in ogni modo. Ma questa storia, questa denominazione appunto di vermi evocò da subito alla mente di Lódoludo fantasmi inattesi. Passava del tempo allo specchio del bagno a spremersi però la vista – era un poco presbite e di poco astigmatico e per questo impegno aveva da sollevarsi gli occhialini sulla fronte rinunciando così a dominare il campo di lavoro – per individuare i neri ospiti attesi, placcarli tra le punte dei due diti indici alla base del gonfiore che a volte li accompagnava e che sotto sotto celava il vermicello bianco e, scoprì Lódoludo, vagamente puzzolente di formaggio puzzolente, ovvero di piedi se si vuole. Lódoludo provava un senso di trionfo quando dopo qualche mezz’ora la pelle intorno al naso e il naso stesso, la pelle sotto gli occhi o vicino alle orecchie o della fronte finiva per somigliare a un campo smosso dalle talpe: arrossata e gonfia, segnata dalla pressione inevitabile delle unghie e qua e  là strisciata di sangue.

I sogni hanno la sfacciataggine di far credere a questo invece che a quello e in generale a scombinare e ricombinare il visto e il detto e l’udito alla stregua, benché meno geometrica,  di quei semplici balocchi di un tempo in vendita dovunque per la gioia dei bambini: i caleidoscopi; tubi di cartone con uno spioncino da una parte per avvicinarvi il proprio occhio e tappati dall’altra da un vetro opalino; dentro il tubo dipinto di nero stavano sparsi a riposo frammenti di vetrini colorati. Tu applicavi il tuo occhio allo spioncino del tubo e, puntandolo in controluce e ruotandolo, sul vetro per magia i frammenti colorati parevano disporsi a comporre immagini cristalline di ammirevole bellezza e inspiegabili alla più parte dei bambini che possedevano, per poi dimenticarlo, quel semplice gioco. Ma ca-lei-do-sco-pio era una parole facile da imparare e diffusa presso legioni di piccoli. Con lo stesso o quasi lo stesso metodo i frammenti di vissuto del giorno o dei giorni passati si compongono in sogni nel tubo nero del sonno: immagini distorte dovute alla ricombinazione di frammenti, a volte nemmeno colorati, di fatti, eventi, ricordi perduti o chissà cosa. Bene.

In una notte particolarmente nuvolosa e nera tanto che a guardar fuori dalle finestre nemmeno le luci dei condomini intorno si vedevano, Lódoludo fu visitato da un sogno particolare e – disclaimer per te se sei anche un solo tantino schizzinoso e ipersensibile – un poco ripugnante. Dunque Lódoludo sognò di vedersi di faccia allo specchio – uno specchio a caso, non necessariamente del bagno – e che la sua faccia gli sembrava gonfia e deforme come un pallone da rugby; un  grosso e grasso e spugnoso capocchione nero era infisso nella pelle della sua fronte: la testa di un ver de peau, un comedóne mordace. Tutta la pelle della faccia sembrava che sotto sotto fosse animata da da da un che che, che pareva scodinzolare come non di rado fanno i vermi quando sono toccati dal pericolo – ogni bestiolina  ha la sua paurina – . All’improvviso entrava nel sogno mamma-cara dicendo chissà che cosa. Lódoludo sente la voce di lei, il tono che gli sembra allarmato ma nessuna delle parole dette e in apparenza nella lingua di lei, è distinguibile. Allora Lódoludo vede le mani della mamma, almeno così gli pare, che gli afferrano la testa, mani enormi o più che enormi dalle dita lunghissime così potenti nella presa da abbracciargliela tutta e spremere, spremere la  fronte, le guance, la faccia così da smuover il capocchione nero del verme e farlo schizzare fuori dal suo buco: s-ciak. Come fosse la testa che vedesse e soffrisse, il verme si intorcina su sé stesso, per di qua e di là e mamma-cara spreme e spreme e dal buco nella fronte esce sempre più lungo il vermone bianco, con macchie nere come quelle dell’intestino nei gamberi e rigato anche di sangue. Man mano però che si sputa di fuori quella deiezione biancastra, la faccia gli si va sgonfiando e mamma-cara continua a spremere e spremere e il vermone gli si affloscia sul naso e sugli occhi a Lódoludo e mamma-cara ne stacca il pezzo fuoruscito e lo butta dove non si capisce dove, ma continua a spremere la faccia di Lódoludo e dal nido, dal foro, dal buco in fronte continua a uscire il verme bianco strisciante e moribondo; però la faccia è ora quasi del tutto sgonfia e non si nota più sotto la pelle liberata quella specie di scodinzolare… Così finalmente dal buco del verme comincia a colare solo un po’ di sangue, non tanto, sangue fresco e potabile tanto che Lódoludo con la lingua se lo lecca via dalla punta del naso e trova che non abbia un cattivo sapore e sente la propria voce che dice, Si capisce il vampiro… è proprio buono. Ora la faccia nello specchio è liscia e stirata come dopo una bella rasatura dal barbiere. In fronte il buco viene ripulito dalla mamma con un cotone umido e il buco si restringe e si chiude. Poi Lódoludo si sveglia. È  in un bagno di sudore e oggi è il suo diciottesimo compleanno.

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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