Titolo: Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno
Autore: Mary Shelley
Prima edizione: 1817
Edizione usata per la recensione: Corriere della Sera, 2002 (trad. Bruno Tasso)
Frankenstein, o meglio ancora la creatura talora chiamata metonomicamente (ed erroneamente) col nome del suo creatore, è diventata rapidamente un archetipo: basti ricordare che compare in oltre 120 film! Una carriera degna di un divo di Hollywood, davvero ragguardevole per un essere di siffatta bruttezza, con in più la maligna soddisfazione di aver ampiamente superato in notorietà il suo creatore, il dottor Frankenstein, che tra l’altro ha dovuto nel tempo cambiare il nome (da Victor a Harry), vedersi nominare barone e confuso con il demone (per usare la definizione che egli stesso usa nel romanzo) da lui creato.
Un simile successo si giustifica in quanto, al di là della trama, il romanzo riesce a cogliere una delle più profonde inquietudini che si agitano nell’animo umano: la paura di non sapere dominare le forze che si è tecnicamente capaci di animare. È il tema antico dell’apprendista stregone, solo che, nel mondo moderno, la magia è stata soppiantata dalla scienza, che in un certo senso ha valenze simili di dominio sul mondo. “Imparate da me” raccomanda il dottore “quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira a elevarsi più di quanto la sua natura consenta” (pag. 54).
Sovvertire le leggi di natura è un rischio, e tanto più elevato quanto più l’uomo avanza nel suo progresso: se un tempo solo un Titano come Prometeo poteva plasmare l’uomo dalla creta e sfidare i dettami degli Dei donandogli il fuoco, oggi pari imprese sembrano possibili ai mortali: per questo Frankenstein diventa via via sempre più attuale, sfiorando temi che vanno dal nucleare alla clonazione. Non è mancato neppure chi ha letto nel mostro l’incarnazione del proletariato, dal punto di vista della borghesia, una forza nuova e incontrollabile, grossolana ma potentissima, che minaccia il mondo del suo stesso creatore (e in questo sarebbe esattamente il contraltare di Dracula, che rappresenterebbe l’aristocrazia parassitaria).
Ma, se l’interesse di Frankenstein si limitasse a ciò, non ci sarebbe motivo di leggere il libro: un archetipo è un archetipo, non necessita di lettura diretta, quanto piuttosto di analisi sociologiche. Invece, vale proprio la pena di tornare sulle pagine di Mary Shelley. Non tanto per divertirsi a trovare tutte le curiose modifiche che il povero mostro ha dovuto subire nel diventare una star: ad esempio, il suo paese natale è stato spesso trasferito dalla Svizzera alla tenebrosa Transilvania, mentre è proprio il luogo del massimo ordine che genera gli incubi peggiori; oppure, è stato ridotto ad un collage di cadaveri cuciti alla bell’e meglio, quando era stato plasmato dal suo creatore.
L’aspetto più interessante, però, è che in gran parte della cinematografia il mostro è stato privato dell’intelligenza, diventando, appunto, un “mostro” nel senso comune, e non in senso latino etimologico, cioé qualcosa di prodigioso, sebbene in parte contro natura (definizione, questa, che calza benissimo alla creatura). Nel libro, non si muove barcollando, ma è agilissimo; non è uno sciocco fornito del cervello di un tale “A.B. Normal” come nella geniale parodia di Mel Brooks, ma è dotato di eccezionali capacità intellettive. È, insomma, un essere eccezionale, che avrebbe tutti i dettagli per essere apprezzato, ma nell’insieme è orribile: “le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli […] ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi”. Al suo apparire è temuto, e fuggito, senza che nessuno si dia la pena di conoscerlo.
Un grande pregio del libro è presentare la vicenda sotto molteplici punti di vista, perché è impossibile averne uno oggettivo: sarà il lettore a scegliere il più interessante, o meglio ancora a metterli assieme. C’è il punto di vista del capitano Walton, che raccoglie Victor Frankenstein, all’inizio del libro, quando questi era in punto di morte, al Polo Nord, nella disperata ricerca della sua creatura; c’è il punto di vista di Victor, il più ampiamente fornito ma raccolto da Walton quando il narratore (di secondo grado) è provato dal gelo e pare sull’orlo della follia (si configura dunque come un testimone non del tutto attendibile); ci sono lettere di altri personaggi; compare anche il punto di vista del mostro, che talora prende la parola per lunghi tratti. Questo è probabilmente l’aspetto più interessante: ciò che viene narrato è, in ultima analisi, l’evoluzione di un essere che nasce buono, ma viene reso crudele dal rifiuto, dall’esperienza sociale. Un essere che viene additato con pregiudizio, che viene visto orribile perché diverso, nonostante i suoi tratti siano di per sé piacevoli.
La bella novità della letteratura horror di inizio Ottocento, rispetto alle narrazioni classiche, è di voler rendere la psicologia del mostro, mentre nelle leggende questi erano semplici esseri pericolosi e malvagi, e tuttavia senza personalità. La creatura è un essere senziente, ma è ancora un mostro (a differenza di molti vampiri o licantropi moderni che, pur apparentemente mostruosi, sono invece dei veri “fighi”).
La domanda che non possiamo non porci, leggendo il libro, è: chi è il vero colpevole? La creatura o chi la rifiuta senza motivo? E, ancora, quante “creature” (animali o esseri umani) induciamo ad essere “mostri” solo perché non corrispondono ai nostri standard? “Sono l’angelo caduto” sostiene la creatura “che tu hai allontanato dalla gioia senza colpa alcuna […]. Ero buono: la miseria ha fatto di me un demone. Rendimi felice, e io sarò di nuovo virtuoso”. Forse, non è così sbagliato confondere Frankenstein con il mostro “di” Frankenstein.