Il film “Cavalli” è nato da un racconto tratto dalla raccolta “Pugni”, edita da Sellerio e vincitrice del Premio Chiara nel 2006. Alla sua realizzazione hanno lavorato l’autore Pietro Grossi, il regista Michele Rho e lo sceneggiatore Francesco Ghiaccio: i tre hanno risposto con entusiasmo ad alcune domande che gli abbiamo posto in occasione della proiezione del film a Varese in ANTEPRIMA per la città, il 29 marzo.
Pietro Grossi: Firenze, aprile 1978. Frequenta la facoltà di Filosofia e si iscrive alla Scuola Holden di Torino creata da Alessandro Baricco. Dopo un periodo a New York torna in Italia esercitando diversi lavori, dal barman, al traduttore, al copy-writer. Come scrittore esordisce nel 2000 con Touché. Arriva in finale in diversi premi letterari. Suoi sono: Touché, 2000, Pagliai Polistampa, Pugni, 2006, Sellerio Editore, L’acchito, 2007, Sellerio Editore, Martini, 2010, Sellerio Editore, Incanto, 2011, Mondadori Editore.
Perché e quando hai deciso di partecipare al Premio Chiara?
In realtà non ho deciso: a un certo punto mi è stato comunicato che ero in finale. Confesso che fui molto felice: solo pochi giorni prima dicevo a un mio amico che, tra tutti i premi per racconti, quello a cui senza dubbio mi avrebbe maggiormente divertito partecipare era proprio il Premio Chiara. Che cosa vi devo dire: era un periodo in cui andava tutto come doveva.
Cosa ti ha dato questa esperienza a livello personale e lavorativo?
E’ un gran bel ricordo. Tra l’altro – oltre a Marco Lodoli – ero in finale con Giordano Tedoldi, con cui passammo tre giorni a ridere. Anche tutte le persone dell’organizzazione erano parecchio divertenti e pareva di essere in gita scolastica. Dal punto di vista lavorativo non saprei: era un momento in cui ne accadevano di tutti i colori e la vita mi cambiava quotidianamente sotto gli occhi, è difficile capire a cosa dare più o meno merito.
Cos’hai pensato la prima volta che ha visto il tuo racconto tradotto in immagini e suoni?
Non so se ho pensato di preciso qualcosa. Mi ha fatto però molto effetto: non riuscivo a smettere di tornare al momento in cui scrivevo il racconto, il tavolo di legno di casa del mio amico a Trastevere, e ancor più la minuscola immagine della sfera della bic nera che rotolava sulle righe del mio quaderno. Il fatto che da un momento all’altro – prima sul set e poi seduto nella Sala Grande del Festival di Venezia – quel gesto insignificante fosse diventato tutto ciò che adesso mi stava davanti era davvero strabiliante.
Michele Rho: Milano, 1976. Dopo essersi diplomato in regia presso la scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, lavora per alcuni anni a teatro nelle duplici vesti di attore e regista. Solo successivamente si avvicina al mezzo cinematografico. Nel 2002 scrive e dirige il documentario Milàn e nel 2004 il cortometraggio Post it che viene nominato e partecipa a diversi premi. Nel 2006 partecipa assieme ad altri giovani registi al film Bambini, costituito da cinque episodi ambientati in altrettante città italiane dedicati ai bambini di ieri e di oggi. Il film contribuisce alla creazione di una scuola elementare a Watamu, Kenya. Nel 2011 dirige un altro cortometraggio, Veglia, e firma il suo primo lungometraggio: Cavalli
Perché hai scelto il racconto “Cavalli”?
Ho scelto il racconto “Cavalli”, perché me ne sono semplicemente innamorato. La storia mi ha toccato profondamente in tutti i suoi aspetti e vi ho ritrovato dentro molte tematiche che all’epoca mi interessavano e che volevo esplorare come regista.
Cosa significa e quali sono le emozioni di partecipare alla Mostra del Cinema di Venezia?
Partecipare alla Mostra del Cinema e’ stata senz’altro da una parte una grandissima emozione ma dall’altra, se devo essere sincero, una delusione. Ci sono troppi film e la gente ed i giornalisti non hanno il tempo o la voglia di vederli. Non viene dunque dato il giusto spazio a tutti i film.
Qual è il rapporto tra lo scrittore e il regista?
E’ la prima volta che traggo un mio progetto da un racconto pre-esistente dunque posso solo riferire questa esperienza. Ho conosciuto Pietro solo dopo aver scritto la sceneggiatura qualche giorno prima delle riprese. Era stata mia scelta di non coinvolgere lo scrittore per la stesura della sceneggiatura. Ho sempre paura che lo scrittore sia troppo affezionato a ciò che ha scritto: la scrittura filmica e quella di prosa sono due linguaggi completamente diversi che seguono regole diverse a volte contradditorie tra loro. Comunque una volta conosciuto Pietro e’ nata subito una bella amicizia e sintonia e devo dire che in futuro non mi dispiacerebbe scrivere qualcosa insieme.
Il film e il libro preferiti?
E’ dura rispondere lucidamente perché ce sono tanti. Ma se devo scegliere: film 400 colpi di F. Truffaut, libro Pastorale Americana di P. Roth
Francesco Ghiaccio: Torino, 1980. Diplomato in drammaturgia presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, è autore di testi teatrali e sceneggiature cinematografiche. Il suo cortometraggio “Gabiano” con una sola b è stato presentato al 25° Torino Film Festival, edizione diretta da Nanni Moretti. E’ autore del video promozionale Monferrato- una terra da scoprire e infine è lo sceneggiatore del film Cavalli, presente alla 68° edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Quali sono le principali difficoltà di trasposizione di un testo scritto?
La principale difficoltà è quella di non snaturare il testo di partenza. Non bisogna farsi prendere dalla voglia di raccontare per poi ritrovarsi con una vicenda che non ha più niente a che fare con l’idea che sta alla base del racconto. Bisogna sposare l’anima del racconto, lo spirito nascosto tra le parole e l’intreccio dei fatti. Bisogna restare sul binario segnato dalla storia originale, così facendo puoi inventarti qualsiasi cosa e stare sicuro che non uscirai mai fuori tema. In un certo senso è una collaborazione silenziosa con l’autore del racconto, cioè con la mente che per prima ha partorito quel mondo. Lo sceneggiatore deve mettersi in ascolto e tradurre in immagini e in azione quanto scorge (o almeno crede di scorgere) nella pagina scritta, deve fornire un intreccio un ritmo e una qualità dei personaggi che rispondono alle regole dello schermo e non della letteratura. E’ un po’ come tradire e allo stesso tempo rispettare il testo originale.
Lo sceneggiatore è anche scrittore?
Difficile dire cos’è in realtà uno sceneggiatore e cos’è uno scrittore. Bisognerebbe chiederlo a Pasolini, Tonino Guerra o ad altri di quel calibro lì, capaci di raccontare con mezzi diversi e forme disparate. Io posso solo abbozzare una risposta, pensare a voce alta. Sceneggiatore e scrittore sono due tipi che cercano di mettere ordine ai loro pensieri per comunicarli ad altri, e non è facile, a volte la narrazione è una specie di labirinto, anzi forse il bello è proprio quello, non ritrovarsi mai del tutto, conservare quel pizzico di insoddisfazione che ti fa ripensare mille volte alla frase che hai appena scritto, o alle caratteristiche di un personaggio o al senso generale di quello che fai. A pensarci bene anche per lo spettatore funziona così, o almeno funziona così per me quando un film mi piace davvero, non ti riesce di capirlo a fondo, di inserirlo in uno schema, c’è qualcosa che va oltre la ragione e ti tiene lì a pensare e ripensare a qualcosa che t’ha colpito va a sapere perché. Certi film, certe storie, ti aiutano a cambiare, ad essere diverso, magari migliore, e poco importa se sono state scritte da uno sceneggiatore o uno scrittore o un regista, quelle sono solo definizioni, categorie con aspetti diversi ma tutte figlie della voglia di raccontare. C’è anche da dire che la sceneggiatura non ha una forma leggibile per i non addetti ai lavori, contiene indicazioni tecniche per tutti quelli che prenderanno parte al film (costumista, scenografo, direttore fotografia… ) e che annoierebbero il lettore. Lo sceneggiatore inoltre si confronta continuamente con regista e produttore, magari è costretto a cambiare un’infinità di volte il proprio lavoro perché sorgono problemi produttivi, invece lo scrittore si confronta con le proprie parole e basta (o almeno così mi piace credere). Inoltre c’è da dire che lo sceneggiatore lavora quasi sempre in funzione dell’idea che il regista ha del film, del taglio che lui vuole dargli, del suo modo di vedere le cose. E’ come se lo sceneggiatore provasse a tradurre in scrittura quello che il regista avverte in maniera emotiva ed intuitiva. Sceneggiatore e regista provano a vedere il film per primi e provano a raccontarlo. Uno scrittore invece non ha un regista che fa da guida, è regista di se stesso.
Quanto c’è di tuo nel film che nel testo non c’era?
“Cavalli” di Pietro Grossi è un racconto breve, io e Michele ci siamo dovuti inventare una quantità di cose per farlo diventare film. Per esempio il racconto di Pietro comincia con il padre che consegna i due cavalli ai figli, noi invece abbiamo deciso di partire da prima, abbiamo voluto raccontare il rapporto dei due fratelli partendo da un tempo felice in cui tutto è idilliaco per poi inserire il dolore e la separazione, le sfide e i sogni dell’età matura. Il racconto si sviluppa nell’arco di un tempo breve, noi abbiamo scelto di far crescere i bambini sino a farli diventare uomini. Il lupo lassù al confine non c’era. La festa in città e tutto quello che vediamo della città non c’era. Il cavallo che viene ucciso non c’era. I due fratelli che vanno insieme dal fattore per vendicarsi non c’era… e altre cose del genere, ma è come se ci fossero state perché sono state suggerite dal racconto, dal modo di vivere dei personaggi, dalla gamma di possibilità che in una realtà come quella possono accadere. Di mio c’è un po’ tutto e un po’ niente. E’ come se mi fossi inventato tutto, ma in realtà sono tutte invenzioni suggerite dal mondo di Pietro e dal gusto di Michele.
Il film e il libro preferiti?
Amo leggere ma non ho un libro preferito, non mi è mai capitato di rileggerne uno per intero anche se ogni tanto riprendo l’inizio di “Conversazione in Sicilia” di Vittorini o di “Il compagno” di Pasolini oppure apro a caso “Lolita” o “Cent’anni di solitudine”. In compenso vedo e rivedo film in continuazione e il film che ho rivisto più di tutti è “C’era una volta in America”. E’ la bibbia del cinema, peste e corna a chi ne parla male.