Teresa Ciabatti scrive un’autofiction e nel farlo delinea una storia familiare tormentata, che si innesta sulle vicende politiche e sociali italiane degli anni Settanta e Ottanta.
“Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia, la gioia, l’orgoglio, l’amore del Professore.” Il Professore è Lorenzo Ciabatti, primario dell’ospedale di Orbetello. Tutti lo amano, tutti lo temono, e Teresa è la sua figlia adorata. È lei la bambina speciale che fa il bagno nella smisurata piscina della villa al Pozzarello, l’unica a cui il Professore consente di indossare l’anello con lo zaffiro da cui non si separa mai. L’anello dell’Università Americana, dice lui. L’anello del potere, bisbigliano alcuni. Teresa che dall’infanzia scivola nell’adolescenza, e si rende conto che la benevolenza che il mondo le riserva è un effetto collaterale del servilismo nei confronti del padre”: così si presenta “La più amata”, titolo ironico e anche un po’ amaro di un libro che giunge, non senza far discutere, tra i finalisti dello Strega.
Abbiamo incontrato l’autrice insieme ad altri bloggers a Milano in occasione di Tempo di Libri.
Questo romanzo descrive una trasformazione dolorosa, ma necessaria…
Fino a 18 anni non mi sono confrontata con un senso di perdita, che fosse morte o abbandono: ero una ragazzina viziata e penso anche antipatica. Quello che voglio dire alla fine del romanzo è che sono una donna normale, con limiti enormi: non c’è niente di straordinario. Per il lettore è una grande catarsi vedere questa bambina arrogante ed egocentrica che cambia dal momento in cui è portata da Orbetello (mondo per lei dorato) a Roma e sperimenta un fallimento dietro l’altro. Il movimento del libro è questo: smentire il privilegio e il senso di onnipotenza.
In effetti nel romanzo c’è una grande evoluzione: dall’ossessione di dare risposte alla consapevolezza di non averne…
In sostanza sì. All’inizio del libro vi è l’intento infantile di incolpare i genitori, in particolare mio padre per quella che sono, poi invece arrivo a dire che sono il prodotto di me stessa e che la colpa non è di nessuno, ma non sono affatto più matura. Fra l’altro ho lo specchio del mio fratello gemello, che è un essere umano molto diverso da me e sicuramente migliore.
Quanta fatica si fa a vivere nel passato?
Non lo faccio più ora che è nata mia figlia. Ho compiuto dei passi avanti e mi rendo conto di quello che non riesco a fare per lei. Ho voluto tantissimo questa bambina immaginandola vestita di rosa che faceva danza e giocava a Barbie. Quando è nata le ho anticipato qualsiasi desiderio, ma lei mi ha spiazzato perché è dark. Ed è iniziata la vera maternità: fare conoscenza con un essere umano che non sei tu e non è il tuo ideale e affezionarsi. Io e mia figlia ci siamo simpatiche e questa mia affermazione è stata interpretata malissimo, vista in modo riduttivo. Io invece la rivendico come una conquista: il nostro è un rapporto che nasce indipendentemente dal legame di sangue. Il senso materno per me (e so che molti non saranno d’accordo) si forma nel tempo. Non si nasce con un amore stabile, si modifica e cresce. Esiste anche con un figlio la conoscenza, è un valore aggiunto.
Nell’affrontare le cose ha sempre questo atteggiamento diretto di sincerità?
Io parlo sempre per me: non avendo una verità da affermare la cosa migliore che posso fare è essere sincera con me stessa. Nel libro io volevo raccontare che ogni giorno la famiglia può assumere una forma diversa: può essere rifugio, ma anche minaccia ed è in continuo cambiamento, così non si saprà mai chi sono davvero i nostri genitori. Mio padre è stato un uomo pieno di ombre che ho amato tantissimo, ma che ha fatto un’azione che non condivido e mi ha fatto soffrire. In quel giardino di ombre c’ero anch’io e da lì derivo. Tento di fornire un approccio diretto a questa esperienza, che non è candore. Se facessi la filosofa sarei smascherata, perché è un ruolo che non mi corrisponde. Furbizia dal punto di vista letterario è trovare il proprio linguaggio e la propria caratteristica ed esprimerla, cavalcarla. Tutto questo è una scelta molto precisa e, ci tengo a dirlo, non mi fa onore: non voglio in alcun modo essere eroica. Scrivo questo libro come atto di viltà, lo pubblico dopo la morte dei miei genitori. Anche se c’è amore, credo, non avrebbero apprezzato assolutamente.
L’azione che non perdona a suo padre è una cura che ha fatto fare a sua madre?
Questo è l’unico elemento davvero tragico che narro nel libro. Per il resto è la storia di una famiglia abbastanza comune e tipica. La forma di narrazione è quella di un finto memoir, che contempla e scelte e manipolazioni narrative: se avessi dovuto raccontare davvero la mia vita sarebbe stato noioso. Nella ricerca di verità, per raccontare quel tipo di uomo che era mio padre trovo sia emblematico e senza dubbio più inquietante l’aspetto famigliare, più che quello storico. In pratica, quando io e mio fratello eravamo piccoli lui fa in modo di far licenziare mia madre, che lavora nel suo stesso ospedale L’episodio specifico non lo conosco, ma questo causa in lei una depressione fisiologica, perché lei si trova di colpo sola in un paese di provincia. Per guarirla mio padre e fa somministrare la cura del sonno in casa e addirittura per un anno, quando le cure di questo tipo erano di massimo due mesi. Lo considerava un accudimento per me è stata una violenza inaudita, che sono riuscita a ricostruire solo ora. Ci ha privato di nostra madre per un anno, con lei che quasi non ci riconosceva per quanto eravamo cresciuti. Questo dimostra il rapporto con il potere di un certo tipo di uomini.
Lei ha dichiarato “Io sono cattiva”. Come ha sviluppato questa caratteristica?
E’ una maschera, un ruolo che gioco, comunque mi dà fastidio chi fa esibizione della propria sensibilità e bontà senza rendersi conto della propria cattiveria. Il racconto di se stessi mi spaventa e farlo da buoni è pericolosissimo: meglio raccontarsi cattivi e poi sorprendersi. Io ho amato mio padre e vengo da lui. Non mi sento del tutto una brava persona: se lui è un mostro lo sono anch’io.
Nel raccontare tutto questo c’è anche un’esigenza di perdono?
Sicuramente sì. Sono sempre stata ansiosa, non riuscivo a gestire la mia vita e non si capiva perché avessi così paure. La più grande era la morte di mia mamma e pensavo di non sopravvivere, poi in realtà dopo sono diventata più calma perché ormai non avevo più niente da perdere. Nel dolore immenso c’è stata una liberazione. Il libro racconta questi sentimenti inaspettati e contrastanti.
Quali sono state le conseguenze di questo libro sui suoi rapporti con i famigliari?
L’unico mio interesse era la reazione di mio fratello che mi ha scritto dopo che non ci parlavamo da due anni e mi ha ringraziato perché gli ho raccontato qualcosa che credeva perduto. Mi ha detto addirittura che era stata bellissima l’idea di far sequestrare papà … peccato che non sia un’invenzione! Lui però non si ricordava, aveva rimosso tutta l’infanzia perciò non avevamo più quello che ci legava. Ora mi difende dagli altri parenti che invece sono tutti offesi. Gli ho raccontato la parte di vita che mancava, momenti anche di gioia, sentimento e leggerezza e forse circoscrivendo i dolori ho messo in qualche modo un po’ di ordine. Non lo so, forse è stato rassicurante.
Il fatto di fare dei nomi dell’Italia di quel tempo, da Gelli a Fanfani per esempio, nasce da una scelta precisa di denuncia di una situazione?
Volevo alludere a un mondo che non aveva motivo per essere a Orbetello, non volevo fare denuncia ma descrivere questa specie di rete, per cui mi sarebbe piaciuto metterne anche di più, ma non ho avuto il permesso. Racconto quello che vedevo, senza dare spiegazioni. Il mio intento era raccontare la convivenza con questo lato buio e misterioso per la bambina di allora. Penso che la letteratura viva in uno spazio che non è quello dell’indagine.
Dopo tutto la sofferenza psicologica e il dolore che ha subito c’è qualcosa da cui vuole difendere sua figlia?
Io sono pronta a intervenire per qualsiasi cosa, mi dà fastidio se qualcuno le dice che è brutta, com’è successo. Sarei andata direttamente da quel bambino e gliele avrei cantate chiare, ma lei me lo ha impedito. Vorrei che non avesse complessi, ma mi stupisce perché in realtà ha una grande resistenza.
Come vive l’interesse che ha suscitato questo suo romanzo?
Vengo da quattro libri precedenti che non si è filato nessuno, da diciassette anni di scrittura spesso ignorata e ho resistito a molte critiche. Questo momento è il risultato di un percorso non di un privilegio. Negli altri libri mancavo di qualcosa, ero fredda, questo invece è il mio lavoro più completo: ha avuto visibilità ed è stato elogiato, ma anche criticato ferocemente. Ho dovuto chiudere momentaneamente il profilo FB perché mi sono sentita aggredita in modo inverosimile. La critica ai libri è sacrosanta, ma deve essere accompagnata da correttezza e motivazione. Sul Premio Strega, che genera sempre malumore, si può fare una riflessione civile: sono consapevole che della mia generazione dovevano arrivare in finale altre prima di me: Matteucci, Parrella, Vinci. Murgia, Sacchi, per fare dei nomi. Spesso ci si arriva in circostanze anche fortunose.
E il successo?
Nella mia vita non cambia niente, parliamo di cose minuscole dell’esistenza…