A tu per tu con…Simonetta Agnello Hornby

Simonetta Agnello Hornby  è autrice molto nota e apprezzata per i suoi romanzi, ma nel suo lavoro di avvocato nel Regno Unito si è sempre occupata di problematiche sociali e in special modo della condizione femminile.

Il suo ultimo libro, Il male che si deve raccontare, edito da Feltrinelli, è un testo scritto con Marina Calloni, docente di sociologia alla Bicocca di Milano e nasce come atto di denuncia con uno specifico obiettivo: combattere le violenza sulle donne tramite la creazione di un EDV italiana per divulgare ed applicare il metodo Scotland anche nel nostro paese.

Ci può spiegare esattamente in cosa consiste questa organizzazione, la EDV?

Eliminating Domestic Violence è la creazione della Baroness Scotland, una mia amica, ministro laburista e avvocato. Consiste nel coinvolgere in una collaborazione fattiva tutte le agenzie che si occupano di casi di violenza sulle donne, dalla sanità, all’istruzione, agli enti locali.  Viene deciso in modo più rapido possibile che tipo di aiuto dare ai casi numerandoli da uno a tre a seconda della gravità. Questo significa ad esempio che quando si presenta ai servizi sociali una donna che ha subito violenza, e ci sono gravi precedenti di maltrattamento, le vengono automaticamente dati un alloggio, dei sussidi e si allertano tutte le istituzioni (per esempio la scuola) . La donna viene affidata ad un’impiegata di queste agenzie, altamente qualificata e preparata, che la seguirà per tre mesi. In questo modo non è abbandonata ed è fondamentale, perchè i casi di recidiva, di donne che tornano dall’aggressore, sono tanti e non possiamo criticarle: sono donne che hanno perduto la loro indipendenza di pensiero, sono schiave, hanno paura e non hanno di che mantenersi perché l’uomo controlla interamente le loro vite. Questo progetto ha ridotto le morti in Inghilterra, ha aumentato i casi in cui gli uomini violenti vengono condannati e ha diminuito del 50% la recidiva. Forse è la statistica più bella.

 Nel nostro Paese secondo lei è possibile impiantare un sistema di questo tipo?

Io vorrei che l’Italia si impegnasse in un progetto simile come hanno già fatto ad esempio Spagna, Turchia, Creta. È un sistema che si adatta a ogni paese, che non necessita di nuova legislazione: richiede solo la volontà di lavorare insieme. Tutto questo porta a dei risparmi immediati alle agenzie, in quanto per esempio le riunioni in cui si decide di dare aiuto sono di un quarto d’ora anziché due ore e mezza. Quello che ho trovato in Italia, con grande tristezza, è un senso di spossatezza. La gente è stanca, non ha speranza. Mi dicono “Lei è a Londra, in Inghilterra è tutto diverso, noi non possiamo”. C’è un senso di incapacità di far tutto:  siamo pessimisti ed è di una tristezza incredibile. Io cerco di dare speranza dicendo che l’Inghilterra non è per niente un paese migliore: la Scotland era derisa dai suoi colleghi ministri quando voleva far questo, ma ha insistito ed è riuscita nel suo intento.

Quanto l’immagine della donna proposta dai mass media, che in Italia è incentrata quasi esclusivamente sull’esibizione del corpo e la sottomissione all’uomo, può influire anche sulla violenza secondo lei?

Io credo poco. La violenza c’è sempre stata, anche quando la donna non era un corpo visibile. Ovviamente se una ragazza cammina mezza nuda in mezzo a un branco di soldati può eccitarli di più, però io do poca importanza alle colpe delle donne nel modo in cui si abbigliano. Do una grande importanza al perchè si abbigliano così. Cioè io trovo triste e orribile che nella televisione italiana le donne siano vestite in modo sconcio mentre  in Inghilterra non avviene, ma non per la violenza. La violenza è un esercizio di potere: sulle brutte e le belle, quelle coi seni di fuori oppure no.

Qual è la qualità fondamentale che devono mettere in atto le persone che opereranno per cercare di fare uscire allo scoperto queste donne, per cercare di aiutarle? 

La qualità principale è quella di saper ascoltare:  sentire dalla donna il racconto della sua vita e le sue esigenze e supportarla. Questo significa a volte anche accettare che la donna voglia tornare dal suo uomo. E’ una violenza che facciamo a loro dicendo “Ah di nuovo qui! Ora non ti vogliamo più”. Bisogna seguire la persona pazientemente in questa crescita personale e  risolvere al meglio tutti i problemi pratici: l’affitto della casa, l’affidamento dei  bambini, le cure mediche. 

Secondo lei in qualche modo i social network, queste nuove forme di comunicazione, sono d’aiuto oppure peggio, rappresentano un altro ostacolo? 

Non ne ho idea. Personalmente dubito. Nel senso che il social network non è quello di cui abbiamo bisogno a questo livello. Abbiamo bisogno del calore umano: la mano che ti tocca, non una voce che ti parla. 

Che cosa può comunicare al lettore questo libro? 

Io penso che il lettore dal mio libro veda come è l’iter della violenza in tutte le famiglie e come io l’ho descritto nel mio lavoro e nel mio mondo. Poi penso che sarebbe importante avere speranza e dire “si può fare, facciamolo!”. Trovo che lo sconforto, l’adagiarsi sulla impossibilità di far nulla che fa parte del nostro secolo di decadenza in Europa sia intollerabile quando si parla della violenza domestica.

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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