Parlare di adolescenza con chiarezza, efficacia e senza retorica, entrando nel vivo delle pulsioni e delle esperienze che ne fanno l’età cruciale delle vita: Raul Montanari riesce in questo intento con il suo ultimo romanzo , “Il regno degli amici” (Einaudi Stile libero). Lo abbiamo incontrato a Torino al Salone del Libro e ci siamo lasciati conquistare da questa storia vitale e drammatica.
In questo romanzo ha scelto di parlare di uno dei periodi più difficili della vita: l’adolescenza. Come mai questa decisione?
L’adolescenza è un’occasione narrativa molto affascinante per diverse ragioni. Innanzitutto ogni individuo incontra se stesso per la prima volta. Da piccolo l’identità di ognuno di noi è ancora nebulosa ed è durante la fase adolescenziale che succedono dei fatti, anche traumatici, che ti fanno capire chi sei veramente: se sei coraggioso o vigliacco, di cosa hai paura, che cosa desideri davvero. Questo incontro con se stessi è una volta per sempre, nel senso che tutto quello che accadrà dopo nella vita, nei decenni successivi, aggiungerà esperienza, rassegnazione, astuzia, ma non cambierà quel nucleo che si è diventati proprio in quegli anni. Io chiamo l’adolescenza “l’età metafisica” perché ci si pongono le grandi domande che ancora una volta da bambino non si era in grado di fare e che poi crescendo si comincia a non farsi più perché verranno spazzate via dalle necessità pratiche della vita quotidiana. Si tratta, per esempio, degli interrogativi su Dio e sulla fede, che è un tema cruciale nell’adolescenza: la si perde anche in maniera tormentata, come è successo a me. Poi si guarda al destino, alla vita e soprattutto alla morte con una purezza impossibile nell’età adulta. Io ormai penso di più alla vecchiaia, al lato pratico di quelle che saranno le mie necessità e mi preoccupo delle cose che mi succederanno. Un adolescente pensa alla morte come fa Amleto: essere o non essere, una vertigine di annullamento. Da ultimo l’adolescenza è il campo di battaglia delle due pulsioni più potenti che ci spingono verso gli altri: l’amicizia e l’amore.
In effetti l’amicizia è uno dei sentimenti più puri che possano esistere, se non il più puro, e nel tuo romanzo è l’altro importante ingrediente. Com’è l’amicizia a quell’età? Come la vivono davvero i suoi protagonisti?
Appena si esce dalla rete delle relazioni familiari e si mette il naso in prima persona nelle cose del mondo si incontra prima di tutto l’amicizia. E’ tipico formare il gruppo dei pari, che hanno il loro leader. Così nel libro rappresento un tipico gruppo maschile con al suo interno il tipo sensibile, lo strano, il violento. In adolescenza arriva poi l’amore vero, che si sperimenta per la prima volta, preceduto magari da un innamoramento da bambino, che però è altro. A questo punto si entra in conflitto con l’amicizia, la cui parola d’ordine è condivisione: tutto deve essere di tutti. Il gruppo dei maschi usa dei rituali di appartenenza e non si deve nascondere nulla agli altri. L’amore, al contrario, esige un possesso esclusivo: posso portare la mia ragazza nel gruppo, ma non la condivido con il gruppo e in questo modo viene meno l’armonia che regnava nel branco. Ce lo insegna anche la storia dei Beatles, che erano degli adolescenti invecchiati. Nel mio libro quando il protagonista si innamora di una ragazza, uscita come un’apparizione dalle acque di un canalaccio minaccioso, vive questo sentimento come tradimento per gli altri e la incontra clandestinamente. Questo prepara la svolta drammatica: accade esattamente come nelle fiabe quando infrangi un divieto. In questa bicocca, che è la casa dove si ritrovano gli amici, il divieto è l’amore: una volta violato si trasforma nel bosco in cui incontri l’orco.
C’è una linea di demarcazione tra adolescenza ed età adulta, secondo lei? Cosa segna questo confine?
C’è un passaggio che probabilmente non è uguale per tutti, ma in generale è legato alla sessualità nel momento in cui viene inserita in maniera stabile nel proprio rapporto con il mondo. Ci si rende conto del dolore che comporta tutto ciò, compreso il fatto di non poter guardare più le persone come le si guardava prima. Nella storia che ho raccontato in questo libro ho voluto accompagnare questa perdita di innocenza dovuta alla scoperta della sessualità con una perdita dovuta ad una colpa vera e propria. Quando la ragazza ha l’incontro con l’”orco” la reazione di Demo e del gruppo contro l’aggressore o il presunto aggressore è talmente violenta che perdono l’innocenza perché commettono qualcosa di gravissimo. La sessualità e la violenza sono due forme di affermazione di sé intense e segnano questa linea d’ombra, non a caso nei grandi libri che ci hanno raccontato l’adolescenza spesso compaiono questi due elementi. Il più significativo per me è “L’isola del tesoro” di Stevenson: un libro scritto divinamente, con invenzioni narrative incredibili. Il momento in cui Jim diventa adulto è quando uccide il quartiermastro: è un momento senza ritorno in cui ha il suo battesimo del fuoco. Ovviamente nella nostra società non abbiamo esperienze così drammatiche, non ci troviamo in una situazione così estrema, ma per marcare il passaggio può bastare un atto di autoaffermazione molto duro per far capire che non si è più quelli di prima. Da ragazzini si vive una vita felicissima tranne per un fatto: ci si sente sempre in condizione di minorità, come diceva Kant. Si devono accettare gli ordini, le leggi degli altri. Nel momento in cui i ragazzi occupano la casa iniziano un percorso di crescita enorme perché si fanno legislatori di se stessi, stabiliscono le regole come una comune.
Quanto è importante per i protagonisti il senso di libertà che genera in loro la casa abbandonata sui navigli?
E’ fondamentale e come dicevo coincide con l’autonomia: io do le regole a me stesso, io sono il mio auto-legislatore. Tutto questo non ha a che fare con l’anarchia: i ragazzi quando organizzano lo spazio si danno delle regole e dei compiti, compreso quello di pulire e tenere in ordine, cosa che non farebbero mai a casa loro. La libertà è basata sul fatto che ci sono leggi, anche severe, stabilite però all’interno del gruppo. Siccome una di queste è non confondere l’amore con l’amicizia, non coinvolgere ragazze, l’infrazione porta una punizione. Tra l’altro nel titolo del libro c’è una specie di crittografia: indica infatti il modo in cui uno dei ragazzi, detto “Il profeta” perché capace di trovate geniali e spesso folli, interpreta una frase che entrando si trovava scarabocchiata sul muro della casa: “Reign over me”.
Per chi conosce la storia del rock è la seconda parte del titolo di una canzone degli Who che recita: “Amore regna sopra di me”. E’ interessante il fatto che nella casa la parola amore è cancellata: è come se simbolicamente significasse che è “the house of friendship”, con la conseguenza che lì l’amore non deve entrare non solo a livello di regole, ma anche a livello simbolico profondo.
Mi ha colpito molto una riflessione di Demo: “La felicità che provavo, quando la provavo, aveva sempre un che di provvisorio. Alludeva a qualcosa che sarebbe accaduto in futuro, quando fossi stato padrone di me e del mio mondo. Poi, quando il futuro è arrivato, ho scoperto che la felicità vera era quella che avevo vissuto allora”. E’ così la felicità?
Il concetto che viene espresso in questa frase è che è impossibile per una persona storicizzare il presente: non sai mentre lo vivi se un momento, un bacio, uno scazzo, una serata in compagnia, un gioco si sedimenteranno nella memoria, diventeranno la tua storia e la tua mitologia personale e contribuiranno a formare la tua identità. Quando sei ragazzo non ti rendi conto di avere un dono che perderai da adulto: la spensieratezza. Ti devi occupare di poche cose in cui puoi mettere tutto te stesso. Non sei responsabile di nessuno, mentre altri si sentono in maniera invadente responsabili di te. La responsabilità è un peso talmente spaventoso, che quando cominci ad assumerlo cambia tutto. La frase continua dicendo “Quello a cui avevo assistito non era la prova, era già il concerto”: in pratica credevi di sentire gli accordi iniziali, ma in realtà il bello lo stavi già vivendo. Questa sensazione è dolorosa e non è spiegabile agli adolescenti: si irritano se glielo dici e hanno ragione. L’adolescenza è l’età della grande infelicità, delle emozioni portate al massimo. Un ragazzo non è triste, è infelice e l’infelicità è vitale e violenta, non è la palude della tristezza.