A tu per tu con… Amani El Nazif

Incontriamo Amani El Nazif al Salone Internazionale del Libro di Torino e ci fermiamo a parlare della sua storia con lei e con Cristina Obber, che ha riportato un’esperienza così terribile nel libro “Siria mon amour“, edito da Piemme. Nata in Italia ma con origini siriane, Amani viene ricondotta dalla madre nel suo Paese d’origine per quello che sembrava un viaggio di piacere; là, invece, scopre di essere destinata a sposare un cugino mai conosciuto e, soprattutto, mai amato. Per questo decide di scappare e, una volta tornata in Italia, di raccontare la sua storia.

Quando ha capito che il suo arrivo in Siria era il preludio di una cosa permanente?

Ho capito che non era un viaggio di piacere dopo una settimana circa, quando ho sentito, per fatalità, una conversazione tra mio zio e altri familiari in cui si parlava di un matrimonio. Lì ho capito che c’era qualcosa che non quadrava.

Che peso ha avuto ribellarsi alla propria cultura nella tua vita?

Diciamo che a quelle tradizioni non appartenevo, perché sono nata e cresciuta qui in Italia. Arrivata lì sono andata contro le tradizioni di un mondo che per me era nuovo e che non condividevo. Per me ribellarsi è stata una cosa naturale.

Come l’ha influenzata, in questa scelta di ribellione, l’Italia?

Per me a 16 una ragazza deve andare a scuola, fare i compiti, uscire con gli amici. Ritrovarsi lì a 16 anni era una realtà molto dura e dovevo per forza ribellarmi ad una cultura e a degli obblighi che non sentivo miei.

Voi invece come vi siete conosciute e come avete iniziato a collaborare?

Amani era la migliore amica di mia figlia alle scuole elementari, poi, con il cambio della scuola, ci siamo perse di vista. Un giorno mia figlia mi ha detto “Vieni con me, ti porto a incontrare una persona” e ci siamo finalmente ritrovate. Quando poi Amani mi ha raccontato a grandi linee la sua storia ho capito che queste cose bisogna raccontarle, perché non devono succedere.

Che valore ha testimoniare questa storia?

Io spererei che altre ragazze nella mia situazione, che non hanno il coraggio di ribellarsi o cercano di dimenticare, decidano di raccontare la propria storia, perché non è giusto rimanere in silenzio. Spero che il mio racconto sia d’esempio ad altre ragazze.

È una cosa che capita di frequente oppure secondo te è una cosa capitata solo a te e che difficilmente capita qui in Italia?

La mia situazione sicuramente è molto particolare, perché è stata colpa di mia madre che mi ha riportata in Siria. Normalmente queste sono situazioni che sono tenute d’occhio dai genitori della parte maschile, quindi il mio caso è insolito, anche se non unico.

E per chi l’ha raccontata, com’è stata questa esperienza?

Quando ho detto a Amani “raccontiamo questa storia” lei ha detto che stava cercando di dimenticare, ma quando ne ha parlato la prima volta ha sentito che se ne stava liberando, anche a livello personale. Ci sono ancora tantissime ragazze che stanno vivendo questa situazione, che è una delle più dolorose. In questo caso, come in qualsiasi forma di violenza, il silenzio non fa altro che alimentare il dolore; la violenza fa sempre pronunciata.

Che effetto fa vederla stampata in un libro?

Il ricordo solitamente dura un attimo, ma leggere la mia storia è molto più doloroso: leggere una sola pagina riesce a farmi piangere. Cristina Obber è riuscita a descrivere tanto bene tutto quello che provavo che riesce a commuovermi ogni volta.

L’hai riletto?

L’ho riletto a tratti. Non l’ho letto tutto dall’inizio alla fine, perché fa ancora un po’ male. Adesso se ne parla tanto ed è sempre un po’ doloroso rileggerlo. Quando me la sentirò, però, lo farò sicuramente.

Questo libro già di per sé è un messaggio, ma noi ne vorremmo uno da te. Quale messaggio vuoi lasciare ai lettori che leggeranno questa intervista e che si avvicineranno sicuramente a questo libro?

Io ho imparato in questi 13 mesi che la vita può cambiare in un giorno all’altro  anche qui in Italia. Possono capitare eventi molto spiacevoli anche in famiglia, ma io vorrei trasmettere il piacere di godere di tutte le piccole cose. Bere un caffè, essere qui e parlare con una persona che non porta il velo o, addirittura, di un altro sesso per me è già tantissimo.

Un messaggio invece per chi sente queste storie?

Per me la scrittura è condivisione e accoglimento; dobbiamo imparare ad accoglierci l’un l’altro e a raccontare le storie di tutti.

 

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