Data di pubbl.: 2025
Pagine: 298
Prezzo: € 22,00
Che vita avventurosa ha avuto l’architetto Francesco Borromini! Quanti momenti di gloria e altrettanti di sconfitta e disperazione hanno costellato i suoi sessantotto anni di vita. Forse anche a causa di un carattere difficile, del grande rigore che metteva nel suo lavoro e delle palesi difficoltà nell’intrattenere rapporti con gli altri. ‘Un solitario incapace di relazionarsi con il mondo’, malinconico, brusco nel trattare con i committenti, innamorato del suo lavoro, meticoloso fino all’ossessione, le sue opere straordinarie si possono ammirare ancora oggi a Roma dove si recò nel 1619 e dove dimorò fino alla morte. Una morte orrenda, peraltro, perché gettarsi sulla propria spada e spirare fra atroci sofferenze non può che definirsi tale.
Francesco Castelli era nato a Bissone sul lago di Lugano nel 1599. Borgo dirimpettaio a quello di Melide, patria di un altro maestro dell’architettura, quel Domenico Fontana (1543-1607) che aveva legato il suo nome a grandi opere sia a Roma che a Napoli – famose a Roma le erezioni degli obelischi in Piazza San Pietro e Piazza del Popolo, solo per citarne alcune.
Francesco studia giovanissimo alla scuola di Grammatica a Milano per lavorare poi come scalpellino nella Veneranda Opera del Duomo. Ma è Roma il suo sogno e a Roma fugge, a sedici anni, senza dir nulla ai genitori. Sa che nella città eterna troverà lo zio Leone ad accoglierlo – lo stesso che gli ha regalato il suo primo toccalapis, strumento indispensabile per un futuro architetto – e di sicuro a trovargli un lavoro, lui già noto grazie alla parentela con un altro maestro dell’architettura Carlo Maderno. E così accade, ma nel cantiere di San Pietro troppi operai portano il suo cognome, a dimostrazione di quanti scalpellini in quegli anni scendevano a lavorare in Italia, e soprattutto a Roma, sulle orme di personalità come quella di Domenico Fontana. Pensa al soprannome di suo padre e suo, Brumino, ci gioca un po’ e alla fine decide: si chiamerà Francesco Borromini.
Molti i lavori che gli vengono affidati dai Papi Paolo V, Urbano VIII e Innocenzo X nonché da alcuni ordini monastici romani. La sua opera più bella è forse la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane. Incredibili le soluzioni architettoniche alle quali il Borromini ricorre, tutte frutto di studi approfonditi su opere del passato e del presente, di ricerche, di disegni da lui eseguiti per giungere alla perfezione senza dimenticare il rigore. Soluzioni semplici solo in apparenza, ma sempre di squisita eleganza dove il tema prospettico, la scelta delle giuste proporzioni, la fanno da padrone.
Grande la rivalità con lo scultore e sedicente architetto Gian Lorenzo Bernini profondamente diverso da lui per carattere, aspetto fisico, intraprendenza e faccia tosta. Una rivalità che gli rovinerà l’esistenza. Benché i due siano quasi coetanei, la loro visione dell’architettura è agli antipodi; l’onestà e la rettitudine che contraddistinguono il Borromini non trovano riscontro nell’arroganza e nella prepotenza del Napoletano, come Francesco chiama il Bernini. Solo nel 1652 Papa Innocenzo X lo farà Cavaliere dell’Ordine di Cristo. Francesco ha cinquantatré anni e dovrebbe rallegrasene, ma non riesce a dimenticare che il Bernini, grazie ai suoi maneggi, ha ricevuto la stessa onorificenza a soli ventitré anni.
Tutto questo e tanto altro ci narra in questo libro colto, ricco e accurato, l’architetto e giallista luganese Dario Galimberti coronando un sogno rimasto a lungo nel cassetto e che solo brevemente si era concretizzato in un racconto. E ce lo racconta esprimendo attraverso la voce del Borromini quella insaziabile vocazione – quel daimon dal quale è impossibile separarsi – verso la bellezza e la perfezione, l’inventiva e l’innovazione che sono state la cifra e la misura dell’opera di Francesco Borromini:
“ In verità io credo che chi ha dedicato la sua vita all’architettura, lavorando con impegno e coerenza, abbia sempre fatto lo stesso progetto, migliorandolo e sviluppandolo a ogni stesura, costruendolo in più luoghi per poi lasciarlo in balia del tempo.” (p. 235)


