L’ElzeMìro – Delitti e vendette 2

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                                                                                    Pierre Narcisse Guérin (1774-1833) Morpheus et Iris 

                                                                                                                                                       2. Tra’l sogno e’l sono desto c’è di mezzo il mesto

En mis pagos hay un árbol/ que del olvido se llama/ al que van a despenarse, vidalitay,/ los moribundos del alma – Fernán S. Valdés ( 1887-1975)

Gli scantinati dell’anima, comunque altrimenti detti, sono agli estranei d’abitudine proscritti; visitati raro, anzi dai più evitati, sono bensì la meta di solitari tours per quegli umani che, lasciata appena loro impronta nel letto, o dovunque abbiano eletto il loro giaciglio, vagano in quell’altrove transitorio, di solito in anticipo sull’ultimo e fatale, quel che evitare è impensabile benché ognuno con ragion sobria o leggerezza confidi sia lontano dalle  primitive mollezze della culla. 

Dopo l’ettubrùtoa e l’atteso sì sì, lei e lui intrecciarono più lingue pornografiche di quanto i testimoni s’aspettassero poi, benché di quei che pongano tra il mondo e sé il sipario del Parnaso siano rarefatti gli accoppiamenti giudiziosib, fuggìron tuttavia i due bellini e furono sere e poi mattine, non pochi pomeriggi, e fu sempre il primo giorno. Nonostante le ben equilibrate forme di lei fossero turbate da una macromastìa o dismisura di pondo e ingombro delle poppe, da quell’esuberanza fu lui tanto coartato da effondersi ogni notte volentieri col capo nel solco, sinus, di lei che dell’alito di lui, e non soltanto, godeva nel condurlo a una sorta d’asfissia controllata, non dissimile dal coma indotto coi farmaci nel paziente con destino difettoso, sì che tra’l sogno e’l sono desto non vi sia di mezzo il mesto. Lui non respinge quell’abbraccio, ne respira gli istanti fino al marasma cui il di lei profumo pone il dòmino dell’estasi…. piace a certuni ben amara; così dal torpore rapido passa di là, come s’è detto, nell’altrove torpido dove immancabili ombre lo attirano e respingono d’ogni specie femminina; ora, quantunque l’occhio d’un osservatore esterno, dèmone o nume, gradevoli lui e lei vedrebbe, e bellini tanto da dubitare che sian loro stessi gl’abitanti dei loro stessi sogni, ebbene lui, traversando vieppiù concamerati anfratti e specole e caverne, infiniti in confronto agli atrii muscosi, ai fori cadentic della didonnesca cartagine, lui si delizia di seduzioni allegoriche e improbabili certo ma di cui nel corpo, laggiù alla riunione delle due gambe, spesso imponente la traccia si palesa. Tradimenti non voluti come sono in genere i tradimenti voluttuari. Lei, altramente affondata nel suo sonno, specie dell’alba, percepisce il turgore dei sogni di lui e ne afferra, pronta e convinta d’esserne il motivo; scuote la bella testa pelosóna di lui che le stuzzica le nìppoled, le labbra accosta dove vogliamo che da sé il lettore s’immagini al che cosa, senza costringerci al descrivere, Oh se compreso avesse eva quanto/fosse d’una mela più succoso/ questo frutto oh mio delicato/asciòlvere oh mio ciuccio copioso, canta per sé lei birichina. Tra lui e lei è un film muto senza didascalie a punteggiare l’avvicendarsi dell’ansia di non perdere ma, dopo tanta irrisionJago scese ex machinae a scompigliare quelle intimità. E son sospetti e struggimenti a convincerli, lei soprattutto Didone rinnovata, ch’anche i sogni siano dei fatti il dato, dei fati il fatto. Stretta tra assensi, dinieghi e timori in una torre di metafore e digiuni lei si isolò, principiò ad abbeverarsi d’alcool ma non da un elmo rotto, prima ingrassò poi deperì; s’abbruttì si strusse; morirà in una notte. Lui, resterà solo e diurno, implacabile nel suo dolore; fino gli appelli soliti del sonno.

Henry Purcell (1659-1695) Dido & Aeneas – When I am laid in earth – Jessye Norman  https://www.youtube.com/watch?v=jOIAi2XwuWo

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                                                                                           attribuito a Pierre Narcisse Guérin – Enée ?

a qui la formula, Et tu Brute, anche tu Bruto, attribuita a Cesare trafitto dal figlio Bruto, è pastrugnata in ettubrùto; probabile parodia della formula  matrimoniale, vuoi tu A prendere per… e tu B(ruto) vuoi…

b citazione di un titolo del C.E. Gadda

c … dai boschi, dall’arse fucine stridenti  cfr. in A. Manzoni – Adelchi – A3 Coro.

d quasi di sicuro da nipple, inglese per capezzolo.

e Per Jago s’intende spesso il delatore, il souffleur sul fuoco della gelosia per antonomasia; qui per paradosso egli viene immaginato come dio di tragedia, Venere o Marte, che discende ex machina, latino per  tramite di meccanismo teatrale, gondola o carro o cavallo celeste che sia per aria appeso e poi calato. I versi Vien dopo tanta irrision la Morte. (E poi? E poi? La Morte è’ il Nulla. È vecchia fola il Ciel) sono in G.Verdi-A. Boito – Otello A2/1 Jago solo.

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Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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Nessuna risposta

  1. Biuso ha detto:

    Il piacere, la gloria degli orgasmi e la decadenza, in così poche righe strette tanto da farne più che una metafora del tempo inquieto e breve della nostra vita. Sì, è questo, Pasquale, il tuo narrare.

    • D'Ascola ha detto:

      Mi fa piacere Alberto che si colga, che tu almeno colga l’epica del discorso. Questo è importante, senza epica c’è gnè gnè.

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